
di Gianluca D’Andrea
«Quanto più il poeta s’immerge nel proprio io tanto più egli allontana da sé ogni facile accusa di solipsismo, appunto perché in quella profondissima zona del suo io è il noi».
(Giorgio Caproni)
Non importa che questo pensiero di Caproni rasenti la banalità più scontata, anzi importa che arrivi a esprimere ciò che di più comune è sommerso da una molteplicità di pregiudizi, per riscoprire, in fondo al pozzo, il più veritiero dei pregiudizi: la nostra inappartenenza e, conseguentemente, la necessità della presenza degli altri.
Dentro il nostro narcisismo si scorge la più evidente fragilità: noi non bastiamo a noi stessi, eppure rifuggiamo quest’ovvietà.
Il poeta dell’ovvio che ridiventa originale, o che aspira a farlo, può allora illuminarci sulla nostra scomparsa nella presenza: «E solo / quando sarò così solo / da non aver più nemmeno / me stesso per compagnia, / allora prenderò anch’io la mia / decisione» (G. Caproni, Parole (dopo l’esodo) dell’uomo della Moglia, in Il muro della terra). La decisione di dire «addio / al vuoto» (ibid.), che significa ripercorrere la strada inversa da una raggiunta pienezza a una spoliazione identitaria, cioè qualcosa di presunto. L’identità, dico, è solo un modo che serve a «ristorar i danni», direbbe Tasso (Gerusalemme Liberata, I, 21), un’invenzione “vuota” che, però, ci consente di ri-scoprire il “vero” vuoto, quello della nostra assenza o l’inerzia dell’essere che, quasi subdolamente, ci muove.
Come accadesse, con una ripetitività frastornante, il continuo risveglio da un sonno opprimente in cui, ancora più ossessivamente, si ricade: «Qual uom da cupo e grave sonno oppresso / dopo vaneggiar lungo in sé riviene, / tal ei tornò nel rimirar se stesso, / ma se stesso mirar già non sostiene» (Gerusalemme Liberata, XVI, 31). Ecco, non potendo sostenere il vuoto – la nostra immagine – non sopportiamo l’esistenza, se non rinunciando a riconoscere la nostra vacuità.
Ma ancora, nonostante l’ipocrisia che fonda l’essere, è solo attraverso di essa che possiamo accettare la necessità dell’altro, la responsabilità che ci allontana dal vuoto riempiendolo di un’ulteriore illusione. L’appartenenza è quella finzione che reinventa il senso, e in questi territori sembra muoversi la poesia.