LETTURE di Gianluca D’Andrea (15): L’OVVIO INUSUALE

collage caproni

Elaborazione grafica di Gianluca D’Andrea

di Gianluca D’Andrea

«Quanto più il poeta s’immerge nel proprio io tanto più egli allontana da sé ogni facile accusa di solipsismo, appunto perché in quella profondissima zona del suo io è il noi».

(Giorgio Caproni)

Non importa che questo pensiero di Caproni rasenti la banalità più scontata, anzi importa che arrivi a esprimere ciò che di più comune è sommerso da una molteplicità di pregiudizi, per riscoprire, in fondo al pozzo, il più veritiero dei pregiudizi: la nostra inappartenenza e, conseguentemente, la necessità della presenza degli altri.
Dentro il nostro narcisismo si scorge la più evidente fragilità: noi non bastiamo a noi stessi, eppure rifuggiamo quest’ovvietà.
Il poeta dell’ovvio che ridiventa originale, o che aspira a farlo, può allora illuminarci sulla nostra scomparsa nella presenza: «E solo / quando sarò così solo / da non aver più nemmeno / me stesso per compagnia, / allora prenderò anch’io la mia / decisione» (G. Caproni, Parole (dopo l’esodo) dell’uomo della Moglia, in Il muro della terra). La decisione di dire «addio / al vuoto» (ibid.), che significa ripercorrere la strada inversa da una raggiunta pienezza a una spoliazione identitaria, cioè qualcosa di presunto. L’identità, dico, è solo un modo che serve a «ristorar i danni», direbbe Tasso (Gerusalemme Liberata, I, 21), un’invenzione “vuota” che, però, ci consente di ri-scoprire il “vero” vuoto, quello della nostra assenza o l’inerzia dell’essere che, quasi subdolamente, ci muove.
Come accadesse, con una ripetitività frastornante, il continuo risveglio da un sonno opprimente in cui, ancora più ossessivamente, si ricade: «Qual uom da cupo e grave sonno oppresso / dopo vaneggiar lungo in sé riviene, / tal ei tornò nel rimirar se stesso, / ma se stesso mirar già non sostiene» (Gerusalemme Liberata, XVI, 31). Ecco, non potendo sostenere il vuoto – la nostra immagine – non sopportiamo l’esistenza, se non rinunciando a riconoscere la nostra vacuità.
Ma ancora, nonostante l’ipocrisia che fonda l’essere, è solo attraverso di essa che possiamo accettare la necessità dell’altro, la responsabilità che ci allontana dal vuoto riempiendolo di un’ulteriore illusione. L’appartenenza è quella finzione che reinventa il senso, e in questi territori sembra muoversi la poesia.

 

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