Collage Invernale – Al confine della libertà

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di Gianluca D’Andrea

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Foto tratte da: Jacques Derrida, Anne Dufourmantelle, Sull’ospitalità, Baldini&Castoldi, 2000

Il Novecento: Ercole Ugo D’Andrea – 2 poesie

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Ercole Ugo D’Andrea

Ercole Ugo D’Andrea – 2 poesie
(tratte da Bellezza della madre, Capone editore, 1981)

per Daniele Greco, grazie

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Quasi inverno

Anche è dolce la giornata invernale,
avere il sonno, m’aspetto fioriture…
Riposa con le viole a te d’accanto,
abbi pace, dammene a tua volta,
ché siamo nello stesso
crogiolo di materia che si muta.

5.12.1979

*

Lo strazio dei giardini

Lo strazio solitario dei giardini
che si sentono stretti fra le case
(questo il paese, che cresce)
somiglia il tuo cuore,
che enarra quel tanto di colore
alle nostre memorie scialbate.

13.4.1981


Ercole Ugo D’Andrea è nato nel 1937 a Galatone (Lecce) ed è morto nel 2002. Tra le sue opere: Rosario di stagioni (Quaderni del Critone, 1964), Spazio domestico (Rebellato, 1967) Ozi e negozi (Vallecchi, 1973), Bellezza della madre (Capone, 1981), La confettiera di Sèvres (Lacaita, 1989), Fra grata e gelsomino (Garzanti, 1990), L’orto dei ribes di corallo(Lacaita, 1999).

Collage Invernale – Incrinature nella relazione

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di Gianluca D’Andrea

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Foto tratta da: Georges Bataille, L’amicizia, SE, 1999

NUOVI INIZI: “Tecnica di sopravvivenza per l’Occidente che affonda” di Giovanna Frene

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Giovanna Frene (Foto di Dino Ignani)

NUOVI INIZI: Tecnica di sopravvivenza per l’Occidente che affonda di Giovanna Frene, Arcipelago itaca Edizioni, Osimo (AN), 2015 (Collana Lacustrine diretta da Renata Morresi)

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Ci sono opere che richiedono tempo per essere comprese in tutta la loro portata. Giovanna Frene, dal 1999 (anno di pubblicazione di Immagine di voce, sua prima fatica) ad oggi è riuscita a costruire una percorso considerevole in prospettiva futura, senza mai dimenticare la necessità di ricollegarsi e riflettere sulla tradizione linguistica del XX secolo. La dedizione alla storia, ereditata sì dal maestro Zanzotto, ma fondante nelle vicende biografiche della stessa Frene, s’imprime nell’esigenza di comporre una vera e propria narrazione che si scontra con l’aderenza ai fatti, con la loro “presunta” verità.
Una storia “invasiva” che dialoga col soggetto biografico conduce, infatti, in questa operazione a un racconto immaginifico, perché la relazione si fa reinvenzione dei rapporti, è la stessa Frene a confessarlo nel testo esplicativo al termine di Tecnica di sopravvivenza per l’Occidente che affonda: in Storia come allegoria emerge proprio l’allusività esigente di un “nuovo” racconto. La memoria riattivata attraverso dati “illusori” permette la reinvenzione degli stessi soltanto accostandosi, però, a una tradizione consolidata. «La poesia come rappresentazione storica volge il suo sguardo al passato avanzando di spalle verso il futuro» (p. 41), il richiamo non casuale all’angelo della storia di Benjamin rende evidente che la preoccupazione, non solo della presente raccolta, ma di tutto il lavoro della Frene, è rivolta al futuro. Per questo le nozioni di traccia, tradizione e generazione creano la macrostruttura di cui ogni singolo testo è tassello.
Si parte sotto il segno della sovrapposizione. Verità o immaginazione, colpa o redenzione annunciano una sfasatura, la mancata aderenza tra mondo e parola (altro grande cruccio zanzottiano): «l’avanzata se è rapida, è più rapida ancora la traccia/ se disegna in anticipo la falsa coincidenza, che/ conta, si sovrappone, sembra collimare:/ non piove, ma non è mai così» (p. 9).
Iterazioni per scenari postumi («tutto è già avvenuto», p. 11), come alcune sottolineature etimologiche sembrano dimostrare – «scissione scindendo» (p. 11) – e l’Occidente “affonda” nel suo disorientamento.
Alla scomparsa prova ancora a rispondere l’arte, o meglio la τέχνη, ovvero la capacità di fabbricare che ha, comunque, contribuito alla dissoluzione “metafisica” dell’occidente. Sulle basi dell’ambivalenza (ricordiamo che Tecnica di sopravvivenza preannuncia un’opera più vasta la quale, a detta dell’autrice, dovrebbe avere il titolo, alquanto heideggeriano aggiungo io, di Eredità ed estinzione) sembra pressante per la Frene congegnare una fuoriuscita il più possibile a-dialettica: per distanziarsi dal nichilismo della tecnica (ancora Heidegger) occorre che la stessa e il mondo coincidano nel riconoscimento della loro finzione, cioè in un percorso continuo, allusivo, affabulatorio. La «perfezione» di questo «coincidere» sarà, come accennavamo, l’inizio di un nuovo racconto.
Al principio non è il “verbo” ma un’identità che si stratifica – e le voci corsive che s’incontrano in molti testi non sono che “intrusioni” che formano il soggetto, l’alterità fantasmatica che riformula la materia: «se anche andassi per una valle oscura, non temerei alcun bene, perché tu sei con me» (Sestina bosniaca, o del penultimo giorno dell’umanità, p. 20). Dal soggetto sovrapposto all’inversione della traiettoria, un tragitto «imboccato a ritroso come per difetto» (p. 20), perché è la precisione della linea temporale (la “Storia”) ad essere stravolta, la sua evidenza cronologica.
Il futuro, dicevamo, cioè la dimensione del finire – occasus – un crepuscolo eterno, o anche un inizio eterno, a coincidere è, quindi, il tempo nella fine dialettica, come si accennava: «occasione per rispedire indietro le insegne del principio» (Liquefazione – Sestina bizantina, p. 22).
Per questo la “Storia” diventa ossessione della fine, ed è sì una storia pressante per vicinanza biografica (i luoghi della Frene, quelli delle due guerre mondiali: il Monte Grappa col suo “Ossario” è anche metonimia del mondo, dell’alterità funebre che segna le vicende, un po’ come il Montello per Zanzotto), ma la sedimentazione della memoria è il dubbio che non costruisce progresso, bensì morte continua: «non si ricorda una memoria, che è così con-divisa// anche così si rimuore e solamente/ ma anche così il morire è sotto sotto/ solo un morire» (I. Bronzo di Augusto Murer, p. 27. Si noti la “volontà” iterativa).
Se è vero che «inizia da qui la fine del sentiero» (II. A colui che per primo uscì, ferito, dalla galleria di famiglia, p. 28), è vero anche che persiste una simbologia, i codici di regole di condivisione, la convinzione forte che la “finzione veritiera” della letteratura sia l’argine al flusso inappropriabile della storia. Per Frene «resta ferma, insomma, la convinzione che la poesia debba ostinarsi a costituire il “luogo” di un insediamento autenticamente “umano”, mantenendo vivo il ricordo di un “tempo” proiettato verso il “futuro semplice” – banale forse, ma necessario – della speranza» (A. Zanzotto, Sarà (stata) natura, in Coscienza e conoscenza dell’abitare ieri e domani. Trasformazione e abbandono degli insediamenti della Val Belluna, 2006; ora in A. Zanzotto, Luoghi e paesaggi, Bompiani, Milano, 2013, p. 153).
Nonostante i dubbi, cioè, la memoria è il codice ancora condivisibile che permette di accedere alla nostra scomparsa – “il morire e il rimorire” – non per niente appaiono riferimenti a Leopardi e Foscolo, soprattutto nella decisiva Sestina funebre che chiude la serie dei testi “canonici” (escludendo, infatti, le “intermittenze” prosastico-esplicative di p. 31 e p. 39).
La memoria è il medium della rappresentazione (l’allegoria), ovvero il simulacro, l’immagine che proprio fingendo di aderire alla storia si fa narrazione affabulatoria e freschezza immaginifica: «diviene egli stesso immagine, di sé, il corpo morto» (III. Simulacri di libertà o della patria sbagliata, p. 29). E il “corpo morto” è il corpo linguistico che si rianima nella consapevolezza di non poter durare, come ogni traccia, destinato alla sua fine: «e non cambia/ questa morte che è solo una morte,/ la morte non cambia per niente» (ibid., p. 29).
Il simulacro diventa emblema, ornamento immerso nel racconto, immagine nell’immagine, «ombra della cosa», apparenza che si fa reale, prosegue il tragitto, si ri-crea in «nube spessa o altro» (p. 35), così la lingua.
Tornando alla Sestina funebre, è tra “Ossari e dichiarazioni” che si muove il nostro presente – l’eterno presente -, in mezzo a ossessioni mortuarie che si evolvono in nuove certezze della durata di un attimo e che concedono all’ombra del futuro di «camminare», non più senza direzione (il disorientamento di cui all’inizio), ma «in ogni direzione», il che apre senza dubbio alla possibilità che un cammino persista.
Se “bruciano i corpi”, non bruciano «le carte», le tanto “sudate carte” di un’eredità sempre sull’orlo della scomparsa, o meglio, scomparsa per sempre nella sua apparizione fantasmatica che emerge sempre e soltanto dalle stesse “carte”. Lingua come impronta, allora, questa è la speranza della Frene (che in questo caso si scosta dalla tragica fiducia zanzottiana), perché i segni si trasformano in «enigmi», immagini da reinterpretare, «incistati nella vostra lingua morta/ mai più mia» (p. 38), che continuano a dire l’ignoto, la direzione del futuro.

SESTINA COME CANTO FUNEBRE AI LOGOTETI
ANDREA ED EMILIO
TRA OSSARI E DICHIARAZIONI
DETTA SESTINA FUNEBRE

su queste rovine non ho fondato che rovine
(T. S. Eliot)

I.

all’ossessione, si aggiunge la certezza, l’esattezza: aperti
gli occhi, ha visto il nulla. e tu, piccola Cleveland, città sepolta,
sarai chiamata beata tra le genti, perché hai aperto gli occhi
sul sotterrato: sottoterra, vedrai, nulla cambia,
o soldato: timbra il biglietto, non occorre
rispetto, per questa rovina

II.

che cammina in ogni direzione, quest’ombra da dentro attende
la sua prevista canzone, nel circo di sangui, ma non ricorda il passo:
il motivo scritto in un crepuscolo di sasso solo previsto, prima incenerito
del dovuto, annulla l’attesa, se finisce l’azione: sparisce il ricordo
con tutta la canzone
——————————————(…..senza assoluzione)

III.

cade con una fretta irragionevole, anche lei da cavallo
e non vede nulla, o vede proprio il nulla
all’incontrario di chi si chiama vincitore, sottoscritto
fermo sull’attenti che nella guardia si avvicenda,
trascinando rime, maiali, in miglia tutte le possibili
canzoni, colonne sonore di frantumati commilitoni

IV.

che sono in pieno fermento, ribollimento, ammutolito
in un rettangolo sollevato da terra: aperti
gli occhi, vede la guerra delle ossa in sfacelo, del
fiume tagliato a pezzettini con tanto zelo: zero vita. in cambio
di una partita col morto, fui poeta, pigro di patria o
di pietra, sostanzialmente a torto

V.

sentivo da bambino, quand’ero bambino, o soldatino-pennino,
visto disteso nel catino, lucidato, fucilato, quasi
imbalsamato: quando morto, morto. lucidato.
o l’unghia conficcata nell’impronta-urna s’avventa
sbagliata nel momento, o le cose non viste alla luce
nera nel buco non sono, o il tumolo tiene, tormento, cenere (?)

VI

prossima alla terra: guerra, carcassa del pensiero. si brucino
i corpi ma non le carte, che al ritorno ritroverà
il posto, posto tra lo sterno e il cervello, povera pieve
del non-pensiero, mai putredine all’apparir del vero
campo, e santo, santi voi, enigmi incistati
nella vostra lingua morta,
————————————————-mai più mia

(pp. 37-38)

Gianluca D’Andrea
(Gennaio 2016)

Collage Invernale – Estetica del nuovo amore

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di Gianluca D’Andrea

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Foto tratta da: Giordano Bruno, De gli eroici furori, Mondadori, 2008

Collage Invernale – La fede dannosa

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di Gianluca D’Andrea

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Foto tratta da: Gilberto Sacerdoti, Sacrificio e sovranità, Einaudi, 2002

Collage Invernale – Il salto via dall’essere

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di Gianluca D’Andrea

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Foto tratte da: Martin Heidegger, Identità e differenza, Adelphi, 2009

Collage Invernale -L’idea del soggetto produttivo

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di Gianluca D’Andrea

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Foto tratta da: Friedrich W. J. Schelling, Sistema dell’idealismo trascendentale, Mondadori, 2009

Collage Invernale – Racconteremo la stessa storia

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di Gianluca D’Andrea

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Foto tratta da: Richard Rorty, La filosofia e lo specchio della natura, Bompiani, 2004

Collage Invernale – I mondi paralleli

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di Gianluca D’Andrea

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Foto tratte da: Martin Rees, Il nostro ambiente cosmico, Adelphi, 2004