Diario – Estate: 20) Come un sogno

Norman Blamey, The cellar window (1971)

Polifemo: Overture · Dorothee Oberlinger · Giovanni Battista Bononcini · Ensemble 1700


Diario – Estate: 20) Come un sogno

«Come il sogno di questa […] estate che declina» (E. Jabès, Poesie per i giorni di pioggia e di sole), e così era trascorsa, come un sogno che presagiva un ultimo ritorno, prima che ogni esperienza per quanto ardente venisse assorbita dall’autunno, nel suo approdo d’oblio, dalle sue maschere in apparenza rassicuranti. In realtà screziate di morte e che coprono volti internati nella dimensione della dimora, dove scaturiscono nuove visioni.
I corpi che il dio aveva ingoiato, ritornavano in milioni di meduse fluttuanti che avremmo dovuto raccogliere e seppellire sotto metri di sabbia. Radici morte che attecchivano diventando alberi autunnali, frutti d’ecatombe marina.
Dal germogliare della fine riprendeva il cammino d’ombra che s’incanalava nei cunicoli della dimora, nelle sue profondità capillari, tra porte e «infinite stanze» (T. Ligotti, Il terreno spettrale) senza senso, dove «tutto lo spazio è virtuale» e anche «l’infinito è illusorio» (T. Ligotti, Il miraggio eterno):

Sulla via del ritorno
betulle grigie e uccelli spenti
e la mite malinconia del centro raggiunto.
Ogni capacità di futuro è statica
e riequilibra lo stato di minaccia.
Come esistesse un destino indirizzato alla decadenza,
come esercitarsi in condizioni d’emergenza, ecc.
Fragore del vento nero,
morte vera di semi
cosparsa sul sentiero.

Diario – Estate: 19) Il ritorno III

Murales vicino alla centrale di Chernobyl

Harpsichord Concerto No. 5 in F Minor, BWV 1056, Arr. for Fourth Flute and Strings: III. Presto · Dorothee Oberlinger · Johann Sebastian Bach · Ensemble 1700


Diario – Estate: 19) Il ritorno III

Allora aprii gli occhi più di prima e vidi ombre1 e la luce debole illividirsi e indicare un varco tra le pietre aspre. Gli scheletri ramificati delle sughere lasciarono spazio a sentieri costeggiati da ciuffi di borragine e bardana. Ci incamminammo ancora assediati dalle ombre.
C’erano boschi intorno alla zona, ma si dissolvevano alle nostre spalle. Come dai postumi di una sbornia uscimmo dal sentiero, dai nostri sogni di cui indossavamo le cicatrici. Eravamo cambiati. I nostri corpi stremati manifestavano i segni della trasformazione, la sentivamo come unica necessità. Non avrei più scordato lo sforzo compiuto: la stanchezza risaliva la colonna vertebrale e chiedeva sonno. Corpi plastici e coperti di crepe, a stento salvi da contagi e radiazioni, sempre a rischio di caduta nei pensieri annoiati di un benessere forzato, tra case diroccate e rovine abbandonate che puntellavano la zona, eravamo pronti a tornare e rovistare nel nulla. Non provavamo alcuna nostalgia, era necessario tornare, nonostante facesse male, era irresistibile.
La fine del viaggio sarebbe coincisa con la rimozione dello stesso, la cancellazione della memoria con i passi della crescita. Un passo. Un altro. La trasformazione si era compiuta, almeno fino al prossimo passo, fino al ritorno sugli stessi passi del corpo sempre nuovo, della memoria che per l’ultima volta ricorda. Poi, si dimenticherà tutto.


Nota:

1 Purgatorio, XIII, v. 46.

Diario – Estate: 18) Il ritorno II (Pietra aspra)

Ernst Ludwig Kirchner, Quattro sculture in legno (1912)

Harpsichord Concerto No. 5 in F Minor, BWV 1056, Arr. for Fourth Flute and Strings: II. Largo · Dorothee Oberlinger · Johann Sebastian Bach · Ensemble 1700


Diario – Estate: 18) Il ritorno II (Pietra aspra)

Era come se la natura disprezzasse la vita, almeno nella versione statica cui sembrava ci fossimo destinati. Esausti continuavamo, nella sera del mondo, a muoverci. Le ferite facevano male, piccole strisce di fuoco che cicatrizzavano nel fango. Ogni tentativo di ricordare lo splendore del sole cozzava contro i fantasmi che s’insinuavano nei nostri pensieri. Ci era rimasto un solo cammino, dopo ore nere, visioni aride, dovevamo riattivare i piedi, scoprire nuovi occhi. La luce filtrava attraverso altri schermi, si abbatteva sull’erica e la genziana raggiante, ridefinendo l’esistenza delle piante nel peso della fine. Era la luce elettrizzata del dopo, gli ultimi riflessi sulle pietre aspre che utilizzavamo per orientarci. La notte ci inseguiva col suo buio proteiforme, mentre cercavamo un riparo che ci proteggesse dai mostri dell’isola.
Nudi e raccolti, avvolti nel mistero, risvegliati nell’inferno della nostra breve storia. Cercavamo a tentoni un oggetto, un segno, qualunque sporgenza che potesse sostenerci. Tra le mani solo la malinconia fredda, infine l’orrore, stavamo sprofondando nel cuore dell’orrore.
Con le ginocchia scorticate dai massi, ridotti a manichini di noi stessi, nei grumi di sangue e terra cui erano ridotti i nostri corpi, non c’era più spazio per pensare al futuro. Anzi, lo stesso futuro era scomparso perché i nostri sogni lo avevano cancellato, non avevamo desideri ma un’unica necessità. La salvezza sarebbe dipesa dalla nostra capacità di reagire ai falsi sogni, agli incubi!1
La contorsione dei corpi nel dolore e nella paura manifestava la nostra volontà di fuoriuscita, ma era difficile in quel sistema di cardi e parietarie, nel labirinto di schegge aguzze e aspraggini che continuavano a tagliuzzarci. Ci fermammo e iniziammo a toccarci. Per la prima volta percepimmo la trasformazione in corso, i nostri corpi assorbiti dal sistema, rimodellati.


Nota:

1 Questo passo, come altri brani in precedenza nel capitolo, prende spunto dal racconto La Medusa di Thomas Ligotti.