LETTURE di Gianluca D’Andrea (13): CADUTA E SCOMPARSA NELLA LEGGE

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Berndnaut Smilde, Nimbus Dumont, 2014 © (Foto: Cassander Eeftinck Schattenkerk – Fonte: Berndnaut Smilde)

di Gianluca D’Andrea

La poesia, madame, è la finzione suprema.
Prenda la legge morale e ne faccia una navata
E da questa costruisca un cielo di fantasmi.

(Wallace Stevens, Una vecchia cristiana arcigna, da Armonium, 1922)

Perché forse i princìpi sono i fantasmi delle vere responsabilità. Cioè il sogno che non può fissarsi perché è solo la soglia di una dimensione troppo intima per poter dire alcunché di generale. La cateratta dell’assoluto è il sogno di una responsabilità senza principio. Non parte e non arriva nulla quando si attraversano soglie, si è solo indirizzati a un altro piano, dislocati in altre dimensioni, più semplicemente traslocati. Un “cielo di fantasmi” sovrasta l’opera e a noi non dovrebbe restare che prendere atto della falsificazione continua cui sottoponiamo il mondo con la nostra presenza. Soltanto che il mondo non sarebbe senza questa stessa presenza. Ecco perché non è procrastinabile ri-presentarsi al mondo e dare scacco alla sua presunta verità (e un po’ alla nostra impresentabilità).
«Come un’isola avvistata in fondo a un sogno» (P. Jaccottet, Libretto, 1995, p. 29) la legge, l’accumulo immane e angosciante di tutte le norme che hanno tentato di regolare la vita sociale, puntando alla definizione della civiltà. Ma come definire, rifinire qualcosa che si vorrebbe perfetto, lo status – l’habitus – di una convivenza irraggiungibile. Già, perché la legge rappresenta, come ingrandita, la nostra caduta nella “definizione”. Come definire la “relazione” in relazione ad azioni estemporanee, impulsive, native? Come, se non bloccando ogni transito in favore di una stasi normativa? Ecco, la legge è il fissarsi del monito, di un’attenzione, di un ricordo, dell’avvertimento che c’è qualcosa di nocivo nelle azioni, che occorre il controllo del fluire attraverso la fermezza della norma statuaria, del modello.
La più grande idea dell’uomo – che risiede ancora “in fondo a un sogno” -, almeno dell’uomo occidentale, è che di condivisibile c’è la nostra separazione all’interno di una cornice collettiva, riscritta sulla paura causata dal ricordo lontano di un primo dolore.
Caduta e scomparsa.

Gianluca D’Andrea, Transito all’ombra – una lettura di Marco Corsi

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Seo Young Deok, Dystopia

di Marco Corsi

Gianluca D’Andrea, Transito all’ombra

Transito-allombra_web-300x480«Transito» e «ombra» sono due parole che si richiamano immediatamente alla poesia. Transito con catene, la Spaziani, per inciso citeremo Human Chain di Heaney; per l’ombra forse possiamo riservarci qualche titubanza in più, essendo l’ombra un termine di cui si è appropriato certo coté ermetizzante. In Gianluca D’Andrea questi vocaboli non hanno niente di assoluto eppure la sua poesia non riesce ad abbandonarsi al quieto vivere; sa torturarsi senza fare dell’immagine un ricatto simbolizzante, perché è il contesto stesso ad essere immerso in una contemporaneità viva e visibile (giovani, ipad, partite di calcio, vecchi ritornelli…). Perché questo libro parla di generazioni, di una generazione nello specifico – quella dei nati nei secondi anni Settanta –, e della difficoltà di fare i conti con la storia e con talune (scomode, difficili, ma soprattutto incomprensibili) eredità. È la dimensione “stradale”, la geolocalizzazione emotiva e di pensiero in un momento preciso, l’indicazione costante di un qualche motivo a sopraffare l’esito lirico, a spiazzare, senza mai depistare. Per questo Heaney, e per questo la dimensione di una catena, per di più umana. Nelle poesie di Gianluca D’Andrea possiamo leggere un andamento naturale, nonostante la costanza del respiro e la necessità di un ritmo, perché quando parla D’Andrea ha davanti a sé un ben preciso destinatario, che è fuoco amico o nome di contrasto. Forse è la stessa vita, con il progresso dell’età, a trovare qualcosa di naturale, uno sguardo connaturato al vivere di ogni singola parola. Forse è perché si legge la virtù di un’esperienza, che talvolta siamo portati a dire che una poesia è poesia. Specie quando i suoi interlocutori la necessitano. Siano essi banalissime cose o gli affetti più esigenti. C’è, fra le tante di questa raccolta, una poesia dedicata alla figlia, nella quale forse la stessa appare piuttosto come un pretesto, ma nella quale il gesto emotivo del dare rifugge lo scarto semantico della profferta; per rifugiarsi a sua volta, consegna. Perché forse è tutto ciò che di umano vediamo a essere ombra di se stesso: ombra nella quale transitiamo, rischiando altamente, ma senza diventare nulla. Poesia in dialogo col nulla, dunque? Ultimamente spesso ricorre in tante note e noterelle, post e messaggi, la parola “sismografo” (specie in coppia con la sua stampella “emotiva”), forse dimenticando l’uso effettivo di una macchina: ecco forse si potrebbe usarla qui perché la poesia di Gianluca monitora il crollo e non lo fa avvenire, lo determina senza avverarlo. Ecco qui la difficoltà di ogni previsione. Forse la scrittura di questo libro è sicura in virtù dei suoi maestri e anche quando la tragedia irrompe non è epoca: la tragedia è nella quotidianità perché il suo presupposto, ancora, è l’ombra. Ombra da cui si distacca, magari, anche per diventare un solo verso compiuto. Perché la vita non è passaggio, ma attraversamento che conduce da un luogo all’altro, da un senso all’altro dell’esperienza e tutte le esperienze hanno un nome e un luogo preciso. C’è una certa consonanza in questo con quanto si legge di altri poeti più o meno coetanei, di aria lombarda, ma decentrata, non milanese. Si avverte l’esigenza di luoghi dove il confronto non è fulmineo e immediato, ma dove l’ora si coagula in un rovello, in uno stadio assolato e bruciante della parola più trita. Dove nel passaggio da geografie minute si ravvisa il movimento della ragione pian piano richiamata a se stessa. E in Gianluca D’Andrea c’è una misura in più, non sappiamo se banalmente qualitativa, ma una misura che affonda le radici al sud, nella terra del barocco di cui, si sa, l’ombra e il suo tocco sono elementi necessari. E orrifici. Però bisogna considerare anche certi maestri, soprattutto quelli meno riconoscibili all’orecchio italiano, se non con l’evidenza di un messaggio, e per questo posti in esergo a singoli testi o intere sezioni, da Mandel’štam a Wallace Stevens.

Questa non è una critica e questi non sono appunti di lettura. Questo è forse un auspicio, quello che si intravede, si vede, e si ravvede, in un libro flessuoso che prende alle caviglie senza immobilizzare, senza impantanare in sabbie mobili: prende alle caviglie come la tentazione, mai dissimulata, della poesia.

Acquario

Passano le figure, inseguono gli eventi.
Ombre, i bambini trascorrono
in gesti, in un piede piegato o i passi.
Gli uomini impiegano il tempo
in frazioni strutturate,
il movimento ha passioni e dolori
e quadri che si aprono a brusii,
flussi trapassati, sorprese
negli scorci, membrane che respirano
le azioni compiute;
la giustizia si sposta nello stesso
luogo, si sgrana in tempi impercettibili.

LETTURE di Gianluca D’Andrea (12): IL MITO CAPITALE

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Norman Rockwell, The Problem We All Live With (1964)

di Gianluca D’Andrea

Forse ci siamo già estinti
dovremo ricordarcene quando a cena
non sapremo di cosa parlare.

(Sara Ventroni, da La sommersione, 2016, p. 45)

Il mito è senza “stile”: racconta.
La fine della favola sembra essere il limite definitivo da cui parte incessantemente un altro racconto. Un racconto intermittente – una storia per “pulsazioni” direbbe Nancy – baluginante dalle epoche fissate nel documento. Nocumento in espansione – viviamo nel mondo della più grande, e fallibile, enciclopedia della nostra storia, un’auto-enciclopedia “comune” – in un mondo che si restringe, fagocitato dagli spostamenti.
Eppure chiuso da “nuovi” muri, perché gli spostamenti vanno acquisiti, non possono liberarsi nella loro necessità. Non è la necessità della sussistenza a “muovere” il mondo, ma l’infinita irraggiungibilità dell’utile: ci si sposta per spostare capitale, non ci si può spostare per sopravvivere. Ne andrebbe della sussistenza della parte “nucleale” del mondo – il capitale, appunto. Il “mondo capitale” o Occidente, se si vuole.
Il mito, oggi, racconta l’estinzione di una libertà necessitante, il genio d’occidente è sempre stato un riflettere sulla caduta. Occaso continua a chiudersi tra pareti, liberando le proprie astrazioni: illusioni, sogni, ombre. Chi è dalla parte sbagliata del muro cammina nel dolore, sperando, un giorno, di attraversare lo specchio.

LETTURE di Gianluca D’Andrea (11): L’OMBRA DELLA RELAZIONE

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Kumi Yamashita, Building Blocks (1997) © (Fonte: Kumi Yamashita)

di Gianluca D’Andrea

Lo spargimento – la “disseminazione” secondo Derrida – del senso è l’unica possibilità per non cercare appiglio in un senso ulteriore. L’ombra del senso permette di definire l’impatto della luce, attenuandone l’illuminazione.

«L’ombra delinea la luce, che non ha forma propria» dice Nancy, l’ombra rende pregnanti e necessarie le sfumature, si arrende almeno per un po’ alla tenebra, fino a risalire a una nuova illuminazione. Tutto è nello spazio del poco, non sembra indispensabile ripeterlo, basta ricordarlo per raggiungere la resa al movimento. Senza stanchezza, o noia, non ci sarebbe l’entusiasmo di un risveglio, relativo, relazionale, non assoluto:

“Al poco giorno e al gran cerchio d’ombra
son giunto, lasso!”

e

“l’amor ch’io porto pur a la sua ombra”

(Dante, Rime per la donna Pietra, CI)

L’ombra è dunque l’attivazione della relazione concreta, carnale, “pietrosa”. Niente di etereo, astratto, “assoluto” appunto, ma la concatenazione dei gesti, dei sensi, ancora secondo Nancy il contatto, il tatto intimo della nostra sensualità, le sue molteplici sfumature ombrose, che ci illuminano nella prossimità di una luce che proviene dalla (e previene la) distanza:

a – Ma io non sono nulla
nulla più che il tuo fragile annuire.
Chiuso in te vivrò come la goccia
che brilla nella rosa e si disperde
prima che l’ombra dei giardini sfiori,
troppo lunga, la terra.

(A. Zanzotto, da IX Ecloghe, Ecloga I)

Una poesia da Transito all’ombra letta da Valerio Magrelli su Radioeuropa – Fahrenheit, 11/11/2016

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Per ascoltare…

“E’ sapere la violenza” , un’impressione di lettura su “Transito all’Ombra” – di Andrea Italiano

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Giorgio Morandi, Natura morta, 1957 (collezione privata, Milano)

di Andrea Italiano

Transito-allombra_web-300x480Ho trovato un’efficace chiave di lettura di Transito all’ombra nel senso di violenza che percorre il mondo raccontato da Gianluca D’Andrea, una violenza non mostrata come un “fatto” bensì come l’ossatura portante di un corpo ricoperto dalla sua pelle. Il nostro mondo, questa società occidentale venuta a galla dalla seconda guerra mondiale e imperniata su mode e tecnologie sempre più perfette e cattive, sembra un enorme mare dalla superficie pacificata da tutta una serie di ipocrisie imposte (o autoimposte) per convincerci che abitiamo il migliore dei mondi possibili, il più felice di sempre. Ma, D’Andrea, ci lascia intuire che sotto (o dietro) questo “mare di felicità” vi sia un vulcano nascosto sempre sul punto di esplodere e portare alla superficie tutto il pus e il marcio che sottopelle si cova (“eccidio, omofobia, femminicidio”). Per questo trovo il suo verso (e poi l’insieme dei versi incatenati l’un l’altro) non nervoso – come invece scrive Pusterla in quarta di copertina – bensì scandito da un ritmo sincopato e un andamento lungo e lento che raggiunge spesso compostezze monolitiche minate però da lineature improvvise dalle quali s’intravede il vero nervosismo delle parole: “Illude Trieste, non vede – / Saba, Cattafi – il Novecento morto/ nell’assimilazione presente” (Trieste, Lubiana). Poesia emblematica di questo “mondo atroce” nel quale apparentemente nulla di atroce succede è quella che chiude il libro laddove il verso “è sapere la violenza” ci richiama a qualcosa che successivamente dovrebbe accadere; tuttavia questa consapevolezza della realtà si scioglie dopo due versi in una tenda che si richiude dietro un’umanità che si accampa in silenzio, nel semibuio. Questa fine “rassegnata” non esclude però lo stridere di qualcosa che si è intuito e che non si riesce a cancellare dalla memoria, come i morti “marciti/ sui legni, a mollo, assiderati” di tanti che “aspiravano al Natale” (La storia, i ricordi, IX) ma che al risvolto della medaglia si è rivelato (il Natale dei nostri tempi) l’ennesima illusione di un capitalismo dove tutto è ridotto a consumo, produzione, mercificazione di vite e rifiuti. Soprattutto il mondo dei ragazzi, quei ragazzi che D’Andrea conosce bene per la sua professione, mostra le stigmate di una violenza indicibile ma repressa sotto una coltre di apparente “modernizzante normalità” come quella della ragazzina con il “trucco che maschera altre negligenze/ diventando modello di eleganza” che poi è la stessa i cui sputi sono “la linfa di cui nutro la mia sopravvivenza” (Gli alberi, i ragazzi). Ribadisco, questa duplicità del mondo del poeta è la stessa del suo linguaggio che mostra mentre cela o che nasconde mentre svela ma con un tono che mai tocca l’urlo, lo strappo, l’assenza totale di punteggiatura che potrebbe significare l’estrema disperazione di chi vuole dire tutto in un unico fiato. D’Andrea ci parla del “Male” ma con calma, con la pacatezza e la lucidità di chi vede la giustizia “che si sgrana in tempi impercettibili” (Acquario), ma anche come chi ha un dovere da espletare senza urlare, cioè raccontare alla piccola figlia Sofia quel “poco o niente [che abbiamo] da dire/ eppure questo fiato, così buffo / è il dovere che ci unisce e dissolve” ( Lettera a mia figlia). Un modo di dire l’indicibile, questo di D’Andrea, di illuminare il cupo e tuttavia nulla togliere alla cupezza che mi ha fatto pensare alle tante nature morte di Giorgio Morandi, nelle quali il bianco abbacinante di bottiglie, bicchieri e ciotole apparentemente inermi (oppure simili a manichini in attesa di un giudizio) ma come attraversate da un’anima di pulsante instabilità, inspiegabile – sinistro – mistero, celava il nero indicibile di un altro tempo nero, cattivo, foriero di violenze cupe ed irredimibili che solo la poesia può descrivere nella sua essenza più profonda e disumana. Violenze nere ed irredimibili come i nostri, tanti, morti “marciti/ sui legni, a mollo, assiderati”.

Recensione di Matteo Bianchi su Transito all’ombra (Atelier online, 10 novembre 2016)

MATTEO BIANCHI LEGGE “TRANSITO ALL’OMBRA” DI GIANLUCA D’ANDREA

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La speranza obliqua

La poesia di Gianluca D’Andrea è un esperimento. La sua ultima raccolta poetica Transito all’ombra è costruita su una struttura portante ben definita e dalla grande importanza simbolica. Il numero ricorrente è il 14: la prima parte Storia, i ricordi sommata al primo dittico dà proprio 14, così come Immagini, i ricordi e la parte Era nel racconto insieme a Zone recintate. Il numero ha a che fare con la vita privata del poeta: è proprio a 14 anni che comincia a scrivere poesie. La struttura e le sue fondamenta sembrano ben salde, ricordano una sinfonia mozartiana per la sua soavità e leggerezza. Ma ecco, con un colpo di vento, la dissonanza che fa diventare la musica atonale: l’ultima parte della raccolta Notturni, pensieri nati sul balcone di casa del poeta a Treviglio nelle notti insonni, è rappresentato dal numero 7. Il palazzo costruito da D’Andrea sembra improvvisamente crollare, il terreno sotto i piedi sdrucciolevole e le certezze venire meno. E’ proprio in questa dissonanza, in questo deserto del reale che nascono le poesie di Transito all’ombra.

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LETTURE di Gianluca D’Andrea (10): RICORDI D’OMBRA

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Mario Martinelli, Leggerezza (2012) ©. (Fonte: mariomartinelli.it)

di Gianluca D’Andrea

«PROSPERO. By what? by any other house or person?
Of any thing the image tell me, that
Hath kept with thy remembrance.

MIRANDA.                          ———— ‘Tis far off,
And rather like a dream than an assurance
That my remembrance warrants»

W. Shakespeare
(The Tempest, Atto I, Scena II)

Ricordi d’ombra, senza peso si ricorda il peso della caduta. La gravità è la nostra caduta che non si lascia attraversare verso l’ascesa: «cielo sotto cielo, sfera sotto sfera, di metèora in metèora: oh asperità degli astri» (T. Ottonieri, da Lapilli della gravitazione, in Geòdi, 2016).
Più simile a un sogno la nostra caduta, nessuna garanzia che qualcosa sia avvenuta oltre l’ombra immersa nel ricordo. Eppure quest’ombra senza peso è la realtà proiettata nel suo futuro, il legame con un passato attualizzabile. Senza la nostra ombra, senza l’ombra di un ricordo non ci sarebbe storia, mito, racconto.
Lo scroscio dell’acqua in cui sarà sommersa la nostra casa, perché forse qualcuno, il Gonzalo di turno, ci lasci naufragare nella corrente, ma con l’occorrente. La stella di una fortuna cui aspiriamo, verso cui ci arrampichiamo, ci attraversa di continuo. Mentre noi combattiamo con la caduta dei gravi.

Ma c’è un’ombra senza peso che accompagna
il peso del corpo.
L’ombra disegna la nostra sagoma
la proietta a terra la inchioda e la muove
come luce visibile nel suo alone.
Luce che puoi dire che manca
quando è spenta

e non lascia più ombra.

Sara Ventroni
La sommersione (2016, p. 9)

LETTURE di Gianluca D’Andrea (9): DETRATTORE E TERREMOTO

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Calco de “Gli Amanti” (Casa pompeiana del Criptoportico)

di Gianluca D’Andrea

A un detrattore

Abbaia pur di continuo contro me
e continua pur sempre a provocarmi
con i tuoi ringhi ostinati.
Ho deciso di negarti totalmente
la fama che da tempo vai cercando,
cioè di esser letto nei miei libri
e per l’intero mondo,
tu, così insignificante come sei.
Perché qualcuno dovrebbe mai sapere
che sei esistito?
Muori dunque ignoto, o sciagurato!
In Roma tuttavia non mancheranno
forse uno o due o tre o quattro
che la pelle d’un can morder vorranno:
le unghie io tratterrò da questa rogna.

V. Marziale
Epigrammi, Libro V, LX (trad. A. Carbonetto)

*

LX

Adlatres licet usque nos et usque
Et gannitibus improbis lacessas,
Certun est hanc tibi pernegare famam,
Olim quam petis, in meis libellis
Qualiscumque legaris ut per orbem.
Nam te cur aliquis sciat fuisse?
Ignotus pereas, miser, necesse est.
Non derunt tamen hac in urbe forsan
Unus vel duo tresve quattuorve,
Pellem rodere qui velint caninam:
Nos hac a scabie tenemus ungues.

***

«Provare nostalgia per certi periodi è una buona cosa a condizione che sia un modo per instaurare un rapporto positivo e consapevole con il presente; se invece la nostalgia serve a motivare un atteggiamento aggressivo e di incomprensione nei confronti del presente, allora bisogna rifiutarla».

M. Foucault

Provavo nostalgia per alcuni fatti della mia infanzia – e infanzia è un periodo ampio quando cade addosso la necessità di ricordare, e come avviene la selezione? – quando il mio presente, e dico pochi giorni fa, mi scaglia contro un’immagine non vista ma suscitata dal racconto di mia moglie.
Il terremoto, caro detrattore, trema in tanti modi in noi, ma poco ci tocca se non siamo immersi nell’evento. Allora l’immagine senza volto della bimba che salva la sorella proteggendola dalla caduta dei gravi, cade nella mia memoria, calcifica in uno strato già presente – Elsa, Anna, mia figlia e il lieto fine – ma senza lieto fine perché senza fine (se escludiamo queste ultime parole e la mia fine).
È la storia che trema e poi s’immobilizza. Penso ai calchi di Pompei, a strisce di testimonianza lugubre, a un individuo romantico che perde il suo eroismo nel filtro di un ricordo non avuto.
L’immagine di una bambina senza volto, morta sotto il peso di un gesto – e la sorella vive e sorride, cosa sarà del peso? – si riproduce sotto il peso strisciante di parole che faccio mie, ma non mi appartengono.
L’ha scritto qualcun altro? Sì? Allora ridirlo non guasta, anche perché l’occasione potrebbe non ripresentarsi, caro detrattore, ma non è vero.

Intervista per Primaradio su Transito all’ombra (28/10/2016)