RAFFINATEZZA ARIOSA E SFUGGENTE: L’amore nella poesia di Cristiano Poletti
«L’amore come conclusione assoluta passa attraverso la morte: il soggetto, cioè, muore nell’Altro, ma a questa morte segue un ritorno a sé».
Byung-Chul Han[1]
L’amore in poesia, tema carico di antecedenti, a volte causa di fraintendimenti rispetto al vero lavoro della parola creatrice. Difficile e rischioso parlarne, ma il compito si fa doveroso proprio oggi che il sentimento in questione subisce una trasformazione inedita, inusuale, in direzione della scomparsa della relazione a scapito del narcisismo autoreferenziale nella società dell’Indifferenza e dell’Uguale. φιλία, ἀγάπη, ἔρως, στοργή, definizioni greche dell’amore che, seguendo Pavel A. Florenskij[2], costituirebbero le fondamenta o gli stati progressivi di qualunque relazione indirizzata all’amicizia. Sull’assenza e la perdita, e la colpa che ne deriva e che s’innesta sul campo delicatissimo della responsabilità novecentesca postbellica, sulla riflessione linguistica rispetto all’impossibilità intellettuale di ripristinare la rottura che si è allargata dalla crepa dell’incomunicabilità della violenza e del dolore che la trascende, si muove l’opera di Poletti, la quale tenta il percorso difficilissimo di accettazione della propria personale colpa attraverso uno scavo nella coscienza della propria assenza. La prima raccolta, Mari diversi[3], si contraddistingue proprio per la volontà, inesausta, di individuare e combattere l’assenza: il risultato globale del libro può individuarsi, attraverso la struggente preziosità linguistica ricca di inversioni, anastrofi e un’aggettivazione a volte arcaizzante, nel raggiungimento definitivo dell’amore per la lingua poetica, amore che si aggrappa ai minimi affetti personali del soggetto poetante, esempio eclatante, a tal proposito, è il componimento Alla poesia, di cui riportiamo alcuni versi:
Vennero passaggi di confusione globale
e io venni abitato dalla Poesia!
Oh mio Amore-Madre mi capisti
tra le anime già sepolte e portasti acqua
a magri pensieri rinsecchiti?[4]
Nella tentazione della fuga, nell’esigenza di trovare un proprio posto nel mondo senza soccombere all’asfissia della colpa di esistere, possiamo trovare il tono particolare, assolutamente diverso dalle mode e dalle tendenze della nostra attualità letteraria, cioè fuori da minimalismi spiccioli o dettami pseudo-narrativi, di Poletti, il quale opera sulla vicenda nostalgica del testo poetico fino a trasfigurare ogni immagine in una perdita tanto irreversibile quanto ineffabile. Avremo modo di parlare, lo vedremo nella seconda più matura raccolta, di un nuovo avvicinamento al tono lirico-elegiaco, che presuppone l’assimilazione delle poetiche dell’ottocento e del primo novecento europei. Intanto occorre evidenziare un altro aspetto, estremamente evocativo, che caratterizza la raccolta d’esordio di Poletti, ovvero il senso di una religiosità tradizionale su cui ogni dubbio sembra infrangersi coagulando nuove certezze. Mi viene da pensare alla scelta di campo che Carlo Betocchi, agli inizi degli anni trenta del secolo passato, con impensabile audacia e con forza premonitrice, fece con i componimenti di Realtà vince il sogno[5], titolo assai programmatico, riflesso di una presa di coscienza e posizione rispetto al dilagante ermetismo che dominava la scena letteraria di allora. Alcuni tratti, oltre che di scelte di poetica, della versificazione di Poletti, a mio avviso, richiamano i modi compositivi del poeta torinese di nascita, fiorentino d’adozione:
E come la luce dall’onda
che s’apre orientale, fluisce,
tu voli, ed appendi a ogni fronda
le bende che il volo smarrisce;
rapita nel gorgo immemore
de’ tuoi non saziati deliri[6].
Constatazione della ricerca di una musicalità comune, nel segno di un’inquietudine a volte delirante sotto la purezza ricercata dell’apparato verbale e compositivo, indizio di una lotta continua col trascendente che termina sempre a favore dell’Altro, accettandolo, abbracciandolo:
FARE
L’albero del dubbio
ha
il profumo antico
di terre asiane.
Non ho verbo altro che
fare
in una vita più bella,
altra
al mondo sfigurato e confuso.
Tre segni di
corpo, muscolo glabro e ventre.
Al poeta basta la sensuale
inquietudine.
«Nostre le ombre!»[7].
Accennando alla spiritualità tensiva, agli slanci e alle ricadute in relazione all’alterità, occorre ribadire che la poetica di Poletti verte su un distanziamento “originario” (ecco la religiosità di questa poesia) e sull’assenza, una perdita struggente che produce ambivalenza di atteggiamenti, soprattutto in termini di scelte lessicali e compositive: se, come vedremo nelle raccolte successive, la lingua accenna a una comunicabilità affettiva più decisa, in Mari diversi è evidente l’oscillazione a cui facevamo riferimento:
L’ULTIMA VOLTA CON DIO
La mano salda sul sasso
nel mare che sorprende.
Voce mia, temi il silenzio
nel vociare Adriatico,
scossa dal vento l’onda.
Che volto l’antico golfo?
A sé Dio trae
la musica
calata sul pensato,
un cuore amato
a far del mare
naufrago amico[8].
A proposito del distanziamento, non evidenzierei in negativo le possibilità “elegiache” della poesia di Poletti, mi soffermerei, piuttosto, sulla maturazione di una scelta. Se, infatti, leggiamo le due raccolte successive, Non Nome[9] e Porta a ognuno[10], assistiamo all’ampliamento del raggio d’azione del distanziamento, in funzione della Relazione (pura, purificata?). Nello specifico si possono captare i movimenti d’avvicinamento individuale all’Altro in Non Nome (vedi la poesia È assoluto – 1998[11]), pur nel mantenimento del tono nostalgico, dell’assenza irrimediabile:
È ASSOLUTO – 1998
Il mio amore per Te è tutto:
sono i tuoi strani accordi di chitarra,
la California dei tuoi occhi
e la magrezza splendidi.
E so, ancora: l’amore è l’unica dimora –
– il resto sono begli scarti di luce,
un avanzo di dicembre,
ombre ferme.
L’amore è del mare la goccia madre:
il solo assoluto.
Il «solo assoluto», cioè non limitato, dissolto, che si scioglie nell’altro riconoscendone la separazione. L’individuo che riconosce l’amore, la sua negatività, non può eludere la propria stessa negatività: l’assenza è sempre in noi, la presenza è l’altro che ci fa perdere e ri-conoscere, l’estasi che dura anche pochi attimi, il tempo di una conversazione in un bar (strano a dirsi, ma capita!), di fare l’amore (cioè reinventarlo ogni volta), d’incontrare l’amico, ecc.. Poletti coglie il negativo, lo ripercuote sul linguaggio come assolvendo un compito, un’azione dovuta per un lettore che non ha più gli strumenti per dire noi, a causa dell’atrofia monadica in cui è stato costretto da «l’uomo dopo l’uomo»[12] che ognuno è:
CHI DEL MONDO
Chi del mondo
afferra l’oscurità sorridendo?
Chi confessando
la morte andrà vivendo?
Chi fuggirà
il silenzio nominando?
Se fra tutte le voci la prima è del silenzio
che dice?
Non dire,
è delle stagioni rispondere
abbattere e ricostruire[13].
Già dai pochi esempi apportati, s’intuisce una maggiore sicurezza nell’uso della lingua, vanno scomparendo gli orpelli lessicali, la ricerca del Linguaggio lascia spazio alla specificità del proprio linguaggio che smaschera, finalmente, l’appartenenza al retroterra lombardo. La raffinatezza linguistica auspicata dall’autore non scompare, anzi è fatta vera dalla maggiore aderenza alla struttura che ne compone le fondamenta, supportata dalla forte tensione morale (anche questa lombarda) e dall’idealismo, per certi versi romantico (non è una cacografia, basti pensare all’azione etica, a volte moraleggiante, di Manzoni per capire di cosa stiamo parlando), che tramano la tessitura del suo pensiero poetico.
Certo, la ricerca continua del canto (lo struggimento d’assenza) può condurre a ricadute, vedi, in Notturno[14], come l’esercitazione sui classici – ho in mente il Pascoli dei vari tuoni e lampi – possa confinare l’immaginazione rendendo sterile le facoltà creative, dandoci l’effetto di una ricezione maldestra che pretende di mostrare virtuosità inessenziali. Il percorso è però avviato, un’altra dimostrazione è la poesia Pagina senza nome[15], in cui la chiusa evidenzia, attraverso un parallelismo sintattico in anastrofe, con inversione del nesso sostantivo-verbo, la predilezione per la sostantivazione concettuale a discapito dell’azione, il tutto in funzione della sopraccennata ricercatezza e simmetria stilistica: «Piovve il nulla, sognai l’Impossibile»[16], maiuscola sul sostantivo che conferma l’impressione di un afflato idealistico-romantico che sovrintende alle scelte di Poletti.
Dicevamo dei toni elegiaci di questa poesia i cui risultati migliori vanno colti nei piccoli quadri quotidiani, laddove la stessa laconicità del testo riduce all’essenziale l’impatto nostalgico, trasformando la chiusura del dolore d’assenza in lampi di senso comunicativi. Proprio per l’evidenza comune, aderente al reale, di un’apertura nell’umile co-appartenenza all’istante presente – anche se l’altro non vuole apparire, non si traduce in alcuna epifania dell’esistente, offrendo, nella negatività del vuoto, il barlume della potenzialità di essere – preavvisiamo uno slancio più deciso verso l’alterità. Siamo ancora lontani dall’apertura definitiva all’evento, alla storia, presente nell’ultima raccolta, ma ne sentiamo la traccia:
MILANO, 4 DEL MATTINO
L’umore incappuccia l’infinito.
Milano, 4 del mattino,
un diesel muove polveri.
Dormi, Milano, qui o lontano c’è la guerra.
Sottoterra
d’appeso al cielo cadere
o soltanto per stanchezza svenire.
Delle lacrime peggiore è il mistero.
Com’è della parola
sulla tela di nebbia
del mondo intabarrato[17].
L’assenza struggente d’amore, motivo ossessivo nella poetica dell’autore, come dicevamo, richiama in alcuni passi l’afflizione languida di certo romanticismo, ma la tensione alla versatilità e al mutamento, che discendono dall’ansia di realizzare un coinvolgimento, evoca la pulizia di pensiero, il classicismo, di Puškin (a tal proposito si rilegga la poesia succitata, È assoluto – 1998 confrontandola con versi quali: «Tornata è l’anima al risveglio:/ e ancora mi sei apparsa tu,/ come fuggevole visione,/ genio di sublime bellezza.// E nell’ebbrezza batte il cuore/ e tutto in me risorge già -/ e la fede e l’ispirazione/ e la vita e lacrime e amore»[18]).
Non Nome termina con invocazioni e preghiere alla bellezza e alla divinità, giustificando l’impossibilità di nominare l’altezza, la sua alterità assoluta; come accennavamo, l’Altro umilmente si accetta e si abbraccia, non è comprensibile, non è nominabile (si vedano Idea superiore[19] e Preghiera infine[20]).
Con Porta a ognuno si avverte uno slittamento propulsivo nella ricerca d’assoluto di Poletti, mi riferisco al tentativo di ri-avvicinare il mondo, attraverso memorie e luoghi fondanti dell’infanzia, per esprimerne la semplicità e la schiettezza che l’uomo dovrebbe perennemente riconoscergli (ancora riemerge la “moralità lombarda” cui abbiamo dato più volte risalto).
Lo sguardo dell’autore si affaccia alla finestra del proprio passato per rinsaldare la propria fiducia nel futuro, cercando quell’ancoraggio alla Storia – in primo luogo personale – che permette il proseguimento di ogni percorso. L’agnizione ha inizio in un luogo d’infanzia che non possiede i caratteri di una trasfigurazione, piuttosto sembra segnare i punti di una mappa in cerca di lineamenti, un nuovo orientamento che pare muoversi dagli oggetti semplici impressi nei ricordi: «Riporta a un disegno, la mente:/ sulla collina, noci,/ recita di foglie/ ed ecco in fondo il lavatoio;/ a destra, fotografia/ di caldo, una sosta»[21] e poi «Rovi, fantastici mirtilli»[22].
Ricordo e memoria si attivano nella decisione di rimediare all’assenza, per scoprirla o riscoprirla: il testo dedicato all’amico Emanuele è un esempio di richiami, di risvegli e potenzialità di conoscere, attraverso il passato, il proprio futuro:
DEDICA A CIPO
Era bello scrivere lettere,
mandare lontano una verità,
anche una sola, nella lontananza
bianca di nebbia e, dentro, una cascina
ancora com’era, Emanuele,
adesso che chiediamo
del nostro stesso sapore,
ci chiamano altri scavi
e una sciopetada
nella storia di una domenica
apre ancora la caccia al freddo
che veste le inferriate[23].
Atmosfere radicalmente familiari, come nell’esempio appena esposto, segnano tutta la prima sezione di Porta a ognuno (Posti al riparo), in cui il rifugio del passato è l’unico viatico per chi si appresta alla decisione definitiva d’intraprendere l’impervia strada delle lettere: «… Ci portiamo/ dal meccanismo del rifugio/ al labirinto dell’alfabeto»[24].
Nel movimento che porta fuori da sé, il mondo agisce suscitando i cambiamenti che conducono una personalità a essere ciò che è: la seconda sezione, Giudicati, lo siamo già stati, rappresenta uno stop, una stazione obbligata per ristabilire i contatti col sé trasformato, un redde rationem, lo spiega bene un testo preceduto da un passo di Agostino che non lascia scampo:
PERSONA
Noli foras ire, in te ipsum redi,
in interiore homine habitat veritas.
AGOSTINO
Se di una ferita si parla, dite
a che profondità la lama
ha tagliato e cosa e come
è stato, esserci
nell’abisso, in mezzo
a corpo e silenzio
tu che volevi
essere[25].
La ferita originaria torna per giudicare l’assenza, si cade nella morte, il passo è obbligato per chi si accinge alla rinascita: «… Riviviamo/ dalle secrezioni della morte»[26]. In chiusura di componimento troviamo, come accade spesso in Poletti, la forma perentoria e lo stile sentenzioso che contraddistingue la scrittura poetica dell’autore. Stile che s’indirizza, attraverso le sue origini “elegiache”, verso una concisione che punta all’essenziale, pur accennando al lettore una possibilità di contatto ma subordinata a un habitus, un’etica. L’andamento anapestico-dattilico del verso libero di Poletti, che rende evidente la sua predilezione per i versi brevi (le misure del novenario, del settenario e del senario in particolar modo) e per l’atmosfera della Canzone d’ascendenza leopardiana, ci riconduce alla “lamentazione” tonale che ne sottende l’intero percorso poetico. Il lamento – nello specifico per la morte di una persona cara – che si riconnette alle origini della nostra letteratura (ancora uno scavo, dunque, in direzione di qualcosa di fondativo), è il consuntivo dell’operazione di Poletti:
IL LAVORO CHE ALLA FINE È STATO
Un po’ di estati-inverni
poi in autunno
rompe parola e carne.
A fondo il mio amico
con tutto addosso:
fiato, nervi, giorni,
lui, niente o qualcosa di lui
si porta a termine con la notte.
Tutto il nostro lavoro
– possiamo dirlo ora –
era il fascino, compierlo.
Anni, volontà, esperienza.
Sul fondo
a noi che restiamo
sembra di vederti
che ti sbracci felice[27].
Il tragitto per ora s’interrompe qui, l’alterità implicita in ogni relazione anticipa nuovi orizzonti di senso, l’apertura s’inerpica nel capovolgimento della traiettoria, i morti salutano, le cose scomparse vivono ancora e inducono all’azione amorosa nei confronti di un mondo – e la sua Storia – che vive dopo ogni evento di scomparsa, anzi probabilmente grazie ad esso (come ci insegna un film abbastanza recente, Melancholia del regista danese Lars von Trier[28], splendidamente analizzato da Byung-Chul Han: «Melancholia è un disastrum, con il quale prende avvio l’intera sventura. Ma si tratta di un negativo dal quale deriva un effetto curativo, catartico»[29]). L’augurio, affinché questa scoperta, assolutamente umana, rimanga eterna, è da Poletti rivolto a «Chi nella carne del mondo/ prende il dolore e lo brucia/ rinasce»[30], in poche parole a tutti noi che rischiamo di non cogliere più le possibilità, per quanto dolorose, dell’innamoramento.
Agosto – Settembre 2013
Gianluca D’Andrea
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[1] Byung-Chul Han, Eros in agonia, nottetempo, Roma 2013, trad. di Federica Buongiorno, p. 41.
[2] P. A. Florenskij, L’amicizia, Castelvecchi, Roma 2013, trad. di Pietro Modesto.
[3] C. Poletti, Mari diversi, Book editore, Ferrara 2004.
[4] Alla poesia, in Mari diversi, cit., p. 16, vv. 1-5.
[5] C. Betocchi, Realtà vince il sogno, in Tutte le poesie, Garzanti, Milano 1996.
[6] C. Betocchi, Alla danza, alla luce, ode, in Tutte le poesie, cit., p. 22-23, vv. 7-12.
[7] Fare, in Mari diversi, cit., p. 17.
[8] L’ultima volta con Dio, ivi, p. 40.
[9] C. Poletti, Non Nome, Manni, San Cesario di Lecce 2007.
[10] C. Poletti, Porta a ognuno, L’arcolaio, Forlì 2012.
[11] È assoluto – 1998, in Non Nome, cit., p. 41.
[12] In queste stagioni, ivi, p. 8, v. 15.
[13] Chi del mondo, ivi, p. 7.
[14] Notturno, ivi, p. 16. Si riporta per intero il testo: «NOTTURNO// D’improvviso nell’abisso notturno/ lo schiudersi degli occhi:/ come lasciando l’offesa del buio,/ ore d’oracoli arsi,/ il sole ferire, dall’oscurità/ la vampa d’oro giunse/ a violare il nostro Povero Tempo».
[15] Pagina senza nome, ivi, p. 22.
[16] Ibid., p. 22, v. 11.
[17] Milano, 4 del mattino, in Non Nome, cit., p. 25.
[18] A. S. Puškin, A ***, in Opere, a cura di E. Bazzarelli e G. Spendel, Mondadori, Milano 1990, trad. di G. Giuduci e G. Spendel, p.39, vv. 17-24.
[19] Idea superiore, in Non Nome, cit., p. 67.
[20] Preghiera infine, ivi, p. 68.
[21] Fiorine, in Porta a ognuno, cit., p. 11, vv. 8-13.
[22] Ibid., p. 12, v. 21.
[23] Dedica a Cipo, in Porta a ognuno, cit., p. 21.
[24] Il rifugio, ivi, p. 19, vv. 3-5.
[25] Persona, ivi, p. 45.
[26] Per F., ivi, p. 46, vv. 14-15.
[27] Il lavoro che alla fine è stato, ivi, p. 75.
[28] Melancholia, di Lars von Trier, Danimarca, Svezia, Francia, Germania 2011.
[29] Byung-Chul Han, Eros in agonia, cit., p. 10.
[30] Giudicati, lo siamo già stati, in Porta a ognuno, cit., secondo tempo, 10, p. 58, vv. 6-8.