
Una scena dal film LA FAMIGLIA BÉLIER
di Francesco Torre
LA FAMIGLIA BÉLIER
Regia di Eric Lartigau. Con Louane Emera (Paula Bélier), Karin Viard (Gigi Bélier), François Damiens (Rodolphe Bélier)
Francia 2014, 100’.
Distribuzione: Bim.
La giovanissima Paula Bélier ha una voce fuori dal comune ma i suoi genitori non possono ascoltarla perché sono sordi. Questo può forse giustificare il malessere che covano nei confronti dell’ambizione della ragazza di partecipare ad un concorso canoro, con la prospettiva di abbandonare il nido e volare a Parigi? No, ma per mostrare il livello di frustrazione di un uomo e di una donna di fronte a ciò che oggettivamente non possono comprendere, il linguaggio cinematografico ha offerto qui al regista un’occasione d’oro, e il furbo Lartigau non se l’è fatta certo sfuggire. Così succede che, nella sequenza del saggio scolastico di fine anno – un evento perfettamente ordinario nella vita di ogni genitore e di ogni figlio, e pertanto di istantanea immedesimazione per il pubblico – al momento dell’esibizione della ragazza un intenzionale black-out del flusso audio del film trasporta gli spettatori in una dimensione sensoriale in cui voci, suono e rumori sono sostituiti da un ovattato brusio prolungato appena percepibile. Sono pochi secondi, contrappuntati da primi piani sulle bocche dei cantanti, sulle espressioni estasiate degli astanti e sugli sguardi sconcertati dei due sordi (anzi tre considerando anche Quentin, il fratello di Paula), i quali non hanno altro strumento per cogliere il talento della figlia se non la visione degli applausi che scoppiano con veemenza subito dopo la performance, proprio nel momento in cui viene ripristinato il “collegamento” con la colonna sonora del film.
Tale uso particolare della soggettiva libera indiretta è sicuramente il segno stilistico più forte – probabilmente l’unico – lasciato da Lartigau sul film, e forse anche per questo risalta maggiormente sull’insieme. Pensato per il pubblico televisivo dei talent-show (non a caso la protagonista Louane Emera è un prodotto dell’edizione francese del programma “The Voice”), La Famiglia Bélier è innegabilmente un grande laboratorio di marketing dei sentimenti costruito ad uso e consumo di una fruizione massiva e passiva. Non sorprende dunque che in Francia (dove ha letteralmente sbancato il botteghino) sia stato presentato al pubblico proprio durante le festività natalizie e qui in Italia nel periodo pasquale, peraltro con lo slogan «Un film che vi farà bene». Come l’ovetto della Kinder o il Bacio Perugina, infatti, il film è sapientemente costruito in modo tale da indurre lo spettatore ad avere maggiore interesse nei confronti della sorpresina o dell’agognato aforisma piuttosto che nel gustare il cioccolato. E poco male, dunque, se il contenuto è caratterizzato da una regia illustrativa, da una colonna sonora pleonastica (compreso l’omaggio al cantante pop francese Michel Sardou, la cui famosa En chantant – presente più volte nel film – è stata scritta in coppia con Toto Cutugno), da una sceneggiatura sospinta da imbarazzanti siparietti comici familiari e superflue sotto-trame direttamente importate dalla commedia ora più triviale (lo shock anafilattico del giovane Quentin, allergico al lattice dei preservativi), ora incentrata sul qualunquismo politico-mediatico (la campagna elettorale di Rodolphe Bélier per la poltrona di sindaco, del cui esito peraltro nessuno si preoccupa di avvisarci). L’importante, qui, è che alla fine del percorso si arrivi all’esplosione emotiva di un finale che – con abbracci, pianti, rincorse e rallenty – possa celebrare un familismo laico la cui morale sia accettabile da destra e da sinistra, dal proletariato (che ancora evidentemente in Francia trova modo di essere rappresentato al cinema) all’alta borghesia metropolitana.
In questo senso, sostenere che il respiro e l’ambizione del soggetto meritassero maggiore perizia tecnica e ben altra sensibilità nel tracciare i profili psicologici dei personaggi potrebbe risultare quasi un eufemismo. Nonostante ciò, comunque, il personaggio di Paula riesce ad emergere dallo sfondo con grande autenticità. Divisa tra le responsabilità familiari e le ambizioni personali, spaventata dai giudizi dei coetanei e imbarazzata dalla sua stessa identità, intercettata nell’età della trasformazione da crisalide a farfalla, la sedicenne ingobbita e ingabbiata che canta ai genitori “Je vole” è il perfetto contraltare dell’altrettanto inquieta Adèle di Kechiche. Un arco teso verso il futuro, cui è impossibile non augurare “buon viaggio”.
La citazione: «Essere sordomuti non è un handicap, è un’identità».