Diario – Autunno: 28) Come innervare un abbraccio

Sergio Padovani, Grande rapimento in trionfo (2013)
Trio in A minor, Op. 37/5: I. Vivace · Dorothee Oberlinger · Joseph Bodin de Boismotier
French Baroque

Diario – Autunno: 28) Come innervare un abbraccio

L’odore aspro dei tigli in questa città immersa nella palude muore sotto le arcate grigie del cielo d’autunno. Quella del concime industriale è la memoria di un benessere arcaico, interconnesso agli abusi ripetuti sulla terra, all’idea di dominio e possesso. Ma è solo una cattiva giornata, perché la terra si squaglia sotto i piedi e non so a chi chiedere aiuto. Forse è la solita litania di chi vede solo colpe e non sente il danno, d’altronde non piove questo autunno e aumentano le polveri sottili. Non è tutto vento e nebbia ciò che obnubila e impericola la mia casetta ma è anche l’ultima stilla succhiata a questa terra, piena di memoria e fantasmi. La mala razza degli uomini l’ha prosciugata, la mala razza degli uomini può riviverla? Mentre aspetto una risposta, mi chiedo ancora se esista la possibilità di un sostegno reciproco, perché il cielo, in questa stagione, è un campo pallido e innocuo ma potrebbe trasformarsi da un momento all’altro, così grande la sensazione di sospensione. È paura, anzi, che il pianeta resti per sempre alieno dal momento che non ho imparato il suo linguaggio. Come innervare un abbraccio, se sono costretto dalla museruola della distanza? L’autunno è privato dei colori, noi siamo la sua clausura, l’antidominio e l’antidoto?
Il cammino che porta quasi al gelo, attraversa boschi radi sempre più spogli, il vento sparpaglia il fogliame per la pianura, i viali alberati sono stretti nella morsa dell’aria, in un velo d’asfissia rulla un vortice di resti che cade sulla terra e si spegne.
Il cammino all’implacabile solstizio, alla roccia, alla solida madre comprime i passi. Madre? O la bituminosa marea di alghe che raffredda l’atmosfera, le biomasse alla deriva in un continente liquido e brumoso che si fondono in un corpo unico, inedito e fragile.
Il cammino attraversa una soglia e incrocia bulbi acquosi, incontra giorni sempre più bui e bestie virulente che paiono “affocarsi” in un fango formicolante e marcescente.
Ogni dettaglio si fa essenziale nelle trasformazioni silenziose della lingua, che si fa blu e s’invermiglia in un ritmo convenzionale, come un ghirigori di sentenze o un cumulo disordinato di massi. La parola si aggruma nel verde leggero dell’atmosfera stinta, fino al bianco radioso di una forma, incandescente.

Diario – Autunno: 27) Il veleno inevitabile

David Quinn, Grotto (2010)
Chamber Concerto in G major, RV 101: III. Allegro · Sonatori de la Gioiosa Marca · Dorothee Oberlinger

Diario – Autunno: 27) Il veleno inevitabile

All’alba avremo timore del sole, sole d’autunno nella luminescenza spaesata dei detriti. Nello splendore di questo giorno che sorge sui confini selvaggi, il terrore di un’onesta trasformazione della natura, con incubi antichi e uomini inghiottiti dalla terra cannibale.
I rami sempre più nudi sono il linguaggio del crollo e della costruzione, telaio, ossatura. Il veleno inevitabile si trascina nei canali e raggiunge i pantani di questa periferia melmosa; come il desiderio di papaverina o le orme di animali sui semi, così posso tornare alla lissa che mi smancia e sciobba, a nuovi occhi nel giallo nebuloso dei vapori. La landa alienata è la notizia di un oscuro scantu e la visione del dopo che fugge invisibile per troppa evidenza. Immagino che questa stagione di semi-morte e allucinazione, nell’odore di concime e cavolo, si sveli lentamente, plaga dopo plaga, foglia dopo foglia, e appaia l’infanzia trapassata del sud, poi il nord, l’occidente e il caldo: un caldo nuovo di nuova fame a novembre. Nelle albe agre di parole rapprese non chiovi e tuttu u munnu funni e scattia stu cori in cammino supra i fogghi sicchi. Parole condivise nello strascico di veleno che asfissia i fiorellini e sbudella i ghiacciai, strappa i denti ai monti e ne scava le gole fino al nero e si suca tutto il succo del sole. Nei nervi della terra, nelle terminazioni del circuito amoroso che ci avvolge, resta il passo lento che comprime la distanza e le parole si slargano come una curva: noi è mondo, mondo è noi, nella fredda quiete del dopo.

Ascoltami: sono le cose ai margini
remoti che stanno al cuore del nostro
mondo, e ci staranno sempre, quando
ogni altra cosa sarà andata distrutta,
terra e archeologia delle nostre anime.

(S. Watts, Hölderlin in Alvernia)

Diario – Autunno: 26) Si sporge il virus zombi

Claude Monet, Vetheuil, Ice Floes (1881)
Chamber Concerto in G major, RV 101: II. Largo · Sonatori de la Gioiosa Marca · Dorothee Oberlinger

Diario – Autunno: 26) Si sporge il virus zombi

Dall’eternità congelata agli eoni, a sequenziare gli spostamenti degli odiatori nell’autunno del mondo in un meccanismo di ombre. «Quannu accumènza la vita nasci la morti» (G. Ballo, Sicilia controcanti) e quando comincia la morte si sporgono gli ibernauti e il gelo si avvicina. Lo senti nel cuore della carne che si mantiene intatta per un tratto del tragitto, poi inizia la putrescenza alienata nel gelo, scende i gradini dell’ambizione, dallo stelo del cielo raggiunge le fibre, l’osso. Dallo zombi si sporge il virus, il virus zombi.
Erutta il virus zombi e rumpi u ghiacciu e fa focu e raggia e ammala il coro di anziani-giovani/giovani-anziani che vivono questo tempo come l’orlo di una crepa o un incontro col vento, come il volo della sterna nel suo viaggio meridiano in un cielo impraticabile, come il rosso del futuro e il verde basso di un abbraccio poco lucido, come un sottobosco minato di funghi e odio per le bestie.
La natura è in assetto di guerra e già in perdita, è un pezzo di carbone che non sta bene nel cuore oscuro della sua casa nera e brucia in una passione brutale eppure delicata, in un’immensa cerimonia esulcerata da processioni microbiche e ossessioni informatiche, che non riesce a consumare le sue scorie.
Dal groviglio di ferocia primordiale spicau stu munnu a caccioffula e noi siamo i commensali che foglia dopo foglia ne hanno raggiunto il cuore ciliato e palpitante, divorandolo.

Nino De Vita: Il bianco della luna – Antologia personale (1984-2019)

Segnalo con grande piacere l’uscita dell’Antologia personale di Nino De Vita, Il bianco della luna, per la nuova collana novecento/duemila della casa editrice Le Lettere, a cura di Diego Bertelli e Raoul Bruni.

Della poesia di Nino De Vita ho parlato in molte occasioni (vedi qui, qui, qui e qui), per questo ripropongo un estratto di riflessione sulla sua opera, di cui questa autoantologia è la più recente testimonianza e, mi auguro, possibilità per le nuove generazioni di scoprire o approfondire la poesia di uno degli autori più significativi dell’ultimo scorcio del Novecento e dei primi anni di questo secolo:

“Ecco, il soggetto in De Vita è completamente assorbito in quella trama testuale che negli anni il poeta di Marsala è riuscito a costruire, utilizzando uno strumento così personale da rappresentare il sintomo di una scomparsa. Provo a spiegarmi: a dissolversi è l’io lirico nella custodia e reinvenzione di una lingua ctonia, profonda, di un “idioma” in pratica sconosciuto e, per questo, adatto a ogni trasfigurazione affabulatoria.
Nel corso del tempo, questa scelta radicale si è stratificata costruendo un conglomerato mitico di figure, le quali, finalmente accostate, ci offrono l’estremo tentativo di sopravvivenza di una storia, “della storia”, cioè dell’ultima grande metafora in cui è riassunto il tragitto della trasmissione dei messaggi tra le generazioni.
In passato ho parlato di ibridazione linguistica come fenomeno risultante dalla mutazione del rapporto io/mondo, la tensione all’incrocio di due realtà non più separate ma conglobate in una nuova definizione, in un “monstrum” linguistico. Nel caso di De Vita, invece, viene da pensare a fenomeni di concrezione. Lingua e mondo si coagulano, fanno uso di un procedimento che non richiede forzatura ma il pudore di chi accoglie una tradizione e non rinuncia alla sua spinta verso il futuro. Il dialetto di De Vita possiede questa dimensione pudica insieme a una carica di resistenza che continua a dire il passato, conservandolo nel proprio DNA. È il racconto della memoria che spinge al mutamento, nonché il limite con cui lo stesso si scontra”.


TESTI

MARTINU

Parlai ra luna.
Èramu una ricina,
’n terra, aggiuccati,
a giru, nno jardinu.

Parlai ru bbiancu
ra luna;
r’i màculi nno bbiancu
ra luna; ra luci
chi scoppa ri nna luna.
Ascutàvanu a mia
taliannu ’a luna.

Cc’era Martinu,
u picciriddhu ch’avìa
l’occhi astutati, nzèmmula
cu nniathri:
stava cu ’a testa calata,
i manu ncapu l’erva
chi spuntava.

Parlai ra luna,
tunna e a fàuci;
ra me’z’zaluna;
ru jocu ra luna
chi s’ammuccia nne nèvuli
e s’affaccia…
E a corpu Martinu
mi firmau.
«È bbeddha»
rissi «’a luna!».

MARTINO. Parlai della luna. / Eravamo una diecina, / per terra, accovacciati, / a giro, nel giardino. // Parlai del bianco / della luna; / delle macchie nel bianco / della luna; della luce / che viene dalla luna. / Ascoltavano me / guardando la luna. // C’era Martino, il bambino che aveva / gli occhi spenti, insieme / a noi: / stava a testa bassa, / le mani sull’erba / appena nata. // Parlai della luna, / tonda e a falce; / della mezzaluna; / del gioco della luna / che si nasconde fra le nuvole / e riaffaccia… / E all’improvviso Martino / m’interruppe. // «È bella» / disse «la luna!».

*

I LIBBRA

I libbra stannu fermi
ma rintra hannu una vita
ch’i macina: cci sunnu
’i cinchedda, i sbintati, i luparini;
i torti, i macanzisi;
alivoti cci sunnu ’i nannalau,
’i scarafuna, l’òmini squaquègnari,
’i ngazzati, l’eroi;
cci su’ nzivati tinti
nne cantunera bbianchi
ri fogghi, cc’è ’u silenziu,
cci su’ ncuttumi, i tuppulì ru cori…

I libbra stannu suli, comu chiddi
chi sunnu dispizziati, l’angariati,
stritti nne ligna, muti:
l’ùmidu ’i puntiddia,
nne vasciura scurusi, allippatizzi
ri muffa.

I libbra cci hannu ’a firi,
’i palori chi sarvanu.
Fannu pinzari, chiànciri,
nni fannu scaccaniari;
amici ncudduriati
ri chiddi nfarinati, ’i sularini.

Hannu tristizzi i libbra
ch’unn’i putemu fari
scenti,
ddulura linzittiusi.
Gnunìanu trisora, l’allisciati
ri chiddu chi, calatu
a pinzari, a nchiappari
nne fogghi, sapi chi
cci sunnu.

I LIBRI. I libri stanno fermi/ ma dentro hanno una vita/ intensa: ci sono/ gli scapestrati, i libertini, i chiusi di carattere;/ i malvagi, i traditori;/ a volte ci sono gli stupidi,/ gli ingordi, gli uomini miseri,/ gli amanti, gli eroi;/ ci sono paure indicibili/ negli spazi bianchi/ dei fogli, c’è il silenzio,/ ci sono pene, i palpiti del cuore…// I libri stanno soli, come quelli/ che sono maltrattati, che vivono un sopruso,/ ristretti nei ripiani, muti:/ l’umido li macchia,/ nei posti bassi, oscuri, sporchi/ di muffa.// I libri hanno la fede,/ le parole che salvano./ Fanno pensare, piangere,/ ci fanno sbellicare dalle risa;/ amici intimi sono/ dei sapienti, dei solitari.// Hanno tristezze i libri/ che non possiamo/ capire,/ dolori laceranti./ Nascondono tesori, le carezze/ dell’uomo che chinato/ a pensare, a scrivere/ sui fogli, sa che/ ci sono.

*

DOMMIANU

Mi patruniava ’a fami
e circavu a me’ matri,
rrunguliusu; o vinia
idda a truvari a mmia,
cu ’na fedda ri pani
’n manu. Sempri una fedda
ri pani. “Teccà, mancia”.
Cci addumannai una vota tanticchiedda
ri cosa, chi nni sacciu,
r’accumpagnari ô pani,
pi calàrimi megghiu;
si nn’jiu, s’arricampau
cu ’na striscia, una sganga,
ri muddica. Mi rissi,
puennumilla “Teccà, è ’u cumpanaggiu.
È tumazzu, bbiscusu,
tènnaru comu ’a tumma”
’U taliai, ’u firriai.
Era comu ’a muddica.
Ma me’ matri m’avia
rittu ch’era tumazzu,
e ggheu accumpagnai
’u pani cu ’a muddica.
Muzzicavu
’u pani e pizzuliavu
’u tumazzu.
Me’ matri mi taliava.
Rissi “Mancialu a picca
a picca, vasinnò,
â sèntiri, t’accabba,
t’arresta sulu ’u pani”.
E ggheu accussia fici.
Ogni vota accussì
facia.
Ravu una muzzicata
nno pani e pizzuliavu,
ma a picca, ’u cumpanaggiu.
Una vota finiu pi primu ’u pani
e ’a chiamai. “Mi finiu
’u pani, o ma’, finiu”
nnamentri chi tinia
nna punta ri iritedda
dda nnicchia ri tumazzu.
Idda vinni e purtau
natra fedda ri pani,
cchiù nziccuta “Chi cci hai
’a lupa?” mi spiau.
Natra vota pi primu mi finiu
’u tumazzu, arristai
cu tanticchia ri pani
’n manu. Chiamai “O ma’,
finiu ’u cumpanaggiu”.
Chiamai e s’arrabbiau,
vinni nni mia cu ’a facci sbambuliata.
“Ti rissi, Dommianu, ri manciari
’u cumpanaggiu a picca
a picca”.
Si nni’jiu. S’arricampau
cu tantu ri muddica
ri pani e m’u puiu.
Una vota cci rissi “O mà, mi pari
chi stu tumazzu chi
mi runi cci havi ’u stissu
sapuri ra muddica
ru pani”.
Mi rissi “ Ma chi ddici,
’unn’i l’ha ddiri cchiù,
tu mancu l’ha pinzari,
Dommianu, tu m’ha crìriri,
m’ha crìriri Dommianu”
e, ’u vitti, cci nisceru
’i làcrimi ri l’occhi.

Vinia nni mia cu ’na fedda ri pani
nno ’na manu e ’a muddica
nne ìrita ri l’àvutra
manu. “Teccà” e puia.
Pi prima ’u pani, ddoppu
’u tumazzu.

DAMIANO. Mi prendeva la fame/ e cercavo mia madre,/ lamentoso; o veniva/ lei a trovare me,/ con una fetta di pane/ in mano. Sempre una fetta/ di pane. “Tieni, mangia”./ Le domandai una volta un pochetto/ di cosa, che so,/ da accompagnare al pane,/ per scendere meglio;/ se ne andò, tornò/ con una striscia, un pezzetto,/ di mollica. Mi disse/ porgendolo “Tieni, è il companatico./ È formaggio, spugnoso,/ morbido come la tuma”./ Lo guardai, lo girai./ Era simile alla mollica./ Ma mia madre mi aveva/ detto che era formaggio,/ e io accompagnai/ il pane alla mollica./ Mordevo/ il pane e pizzicavo/ il formaggio./ Mia madre mi guardava./ Disse “Mangialo a poco/ a poco, se no,/ io ti avverto, finisce,/ ti resta solo il pane”./ E io così feci./ Ogni volta così/ facevo./ Davo un morso/ al pane e pizzicavo,/ ma poco poco, il companatico./ Una volta finì per prima il pane/ e la chiamai “ Mi è finito/ il pane, o ma’, è finito”/ mentre tenevo/ nella punta dei ditini/ quel poco di formaggio./ Lei venne e portò/ un’altra fetta di pane,/ più sottile “E che sei/ affamato?” disse./ Un’altra volta per prima finì/ il formaggio, rimasi/ con un poco di pane/ in mano. Chiamai “O ma’,/ è finito il companatico”./ Chiamai e si arrabbiò,/ venne da me con la faccia accalorata./ “Ti ho detto, Damiano, di mangiare/ il companatico a poco/ a poco”./ Se ne andò. Ritornò/ con un tantino di mollica/ di pane e me lo porse./ Una volta le dissi “O mà, a me sembra/ che questo formaggio che/ mi dai ha lo stesso/ sapore della mollica/ del pane”./ Mi disse “Ma che dici,/ non devi dirlo più,/ tu neanche lo devi pensare,/ Damiano, tu mi devi credere,/ mi devi credere Damiano”/ e, lo vidi, le uscirono/ le lacrime dagli occhi.// Veniva da me con una fetta di pane/ in una mano e la mollica/ nelle dita dell’altra/ mano. “Tieni” e me li porgeva./ Per prima il pane, dopo/ il formaggio.

*

’U RRIMITU

“Chissu è un pueta, ’u viri?”

mi rissi Cola “chissu

chi sta assittatu mpunta

ru molu. Puisii

ammenta nna ddi centu

pitanzi, quannu fannu

l’ammitu a Sagnuseppi.

Cci rìcinu ’u rrimitu”.

“Eu sacciu chi vossia

è pueta” cci rissi

un gghiornu ch’era ddà,

assitttau, cu ll’occhi

a Favugnana, mentri chi di sguìciu

’u suli si cci stava

calannu.

“Puru eu”

cci cunfirai “ ’u sapi,

hâ fattu puisii…”

Annunca si vutau,

mi taliau, chinu ri

maravigghia.

“Rimminni una, rui” mi cumannau.

“A mmenti eu ’unn’i sacciu”

cci rissi, cu ddu cori

ri picciutteddu chi

si misi a bbattuliari.

“E chi pueta sì” mi rissi “ ’i mei

cci l’haiu tutti cca,

cca rintra” e si chiantau

unapocu ri bbotti

cu ’a manu ncapu ’a frunti.

“Vossia, s’è ddaccussì,

po’ fariminni assèntiri

una?” cci addumannai.

“Sulu nne festi ’i ricu,

pi rrispettu ru Santu.

Ti pozzu, siddu voi,

cuntari stori… Anzi

una storia t’ha ddiri

ch’addivintau pi mmia

cosa chi mi macina”.

E accuminciau, senza

chi ggheu arrivassi a ffari

palora.

“Passiàvanu ddu’ amici

p’a strata chi dda Lupa

agghica ccà, â marina,

jìanu e trattinìanu.

Unu cci rissi all’àvutru:

« ’U sai qual’èsti ’a cosa

chi appena arruspigghiatu

eu cci addumannu a Diu?»

«Chi nni pozzu sapiri»

cci arrispunniu l’àvutru. « ’A saluti,

sarrà, eu ricu, anticchia

ri stari bbeni, ri

firi…»

«Ddumannu ogni matina

a Diu una rrisatedda.

Viremma mi succeri

ri spiaricci aliquannu una carizza.

Ddoppu sta cosa a mmia

mi pari stramma, comu

si Diu ’un cci l’avissi

’i manu pi putiri accarizzari».

«E ’a vucca ammeci sì?»

l’àvutru rripicau.

«Cu ’na rrisata eu penzu ch’è diversu.

È sulu una musioni.

’U bbustu, comu â ddiri,

’un cc’entra…»

Ma tu comu ti chiami?”

“Ninu” cci arrispunnì.

“Ninu” ’u rrimitu mi

rissi “pi mmia si fici

tardu. Ddumani, e tu

mentri cci penzi, eu vegnu,

nni ncuntramu e mi rici

soccu nni cunchiuristi”.

E s’aisau, si nn’jiu pi nno cannitu,

runni cci avia appuiatu

nno ’n cutu ’a bbicichetta.

“Cci poi spiari puru

a quarcunu” mi fici

vuci “un parrinu, un vecchiu,

o rari nguestu nne

libbra. Pi mmia cci voli

unu chi mi fa scenti,

chi m’allibbetta ri

sta lìsina”.

E appizzau,

retti, furzannu, nne

pitala.

L’EREMITA. “Questo è un poeta, lo vedi?”/ mi disse Cola “questo/ che sta seduto sul/ molo. Poesie/ inventa in mezzo a quelle cento/ pietanze, quando fanno/ l’invito a San Giuseppe./ Lo chiamano l’eremita”.// “Io so che lei/ è poeta” gli dissi/ un giorno che era lì,/ seduto, con lo sguardo/ a Favignana, mentre che rasente/ il sole vi/ scendeva./ “Pure io”/ gli confidai “lo sa,/ ho scritto poesie…”/ Allora si voltò,/ mi guardò, pieno di/ meraviglia./ “Dimmene una, due” mi comandò./ “A memoria io non le so”/ gli risposi, con il cuore/ di ragazzo che/ si mise a palpitare./ “E che poeta sei” mi disse “quelle mie/ le ho tutte qui,/ qui dentro” e si diede/ colpi, tanti colpi,/ con la mano sulla fronte./ “Lei, se così è,/ può farmene sentire/ una?” gli domandai./ “Solo nelle feste le recito,/ per rispetto del Santo./ Ti posso, se vuoi,/ raccontare storie… Anzi/ una storia devo dirti/ che è diventata per me/ cosa che mi assilla”./ E cominciò, senza/ che io arrivassi a fare/ cenno./ “Passeggiavano due amici/ per la strada che dalla Lupa/ porta qui, alla marina,/ andavano e fermavano./ Uno disse all’altro:/ «Lo sai qual è la cosa/ che appena sveglio/ io domando a Dio?»/ «Che ne posso sapere»/ gli rispose l’altro. «La salute,/ forse, io dico, un poco/ di benestare, di/ fede…»/ «Domando ogni mattina/ a Dio un sorriso./ Pure succede/ di domandargli a volte una carezza./ Questa cosa dopo a me/ sembra stramba, come/ se Dio non le avesse/ le mani per potere accarezzare»./ «E la bocca invece sì?»/ l’altro ribattè./ «Con un sorriso io penso che è diverso./ È solo un atteggiamento./ Il corpo, come dire,/ non c’entra…»/ Ma tu come ti chiami?”./ “Nino” gli risposi./ “Nino” l’eremita mi/ disse “per me si è fatto/ tardi. Domani, e tu/ intanto ci ragioni, io vengo,/ ci incontriamo e mi dici/ quello che ne hai concluso”./ E si alzò, andò verso il canneto,/ dove aveva appoggiato/ su una pietra la bicicletta./ “Puoi domandare pure/ a qualcuno” fece, alzando/ la voce “un prete, un vecchio,/ o cercare dentro i/ libri. Per me ci vuole/ uno che mi faccia capire,/ mi liberi da questo/ rovello”./ E diede,/ diede, forzando, sui/ pedali.

*

L’ARANCIARU

Era pi dunn’egghè
ddu ciàvuru ri mustu.
Vinia ru malasenu, ri nne stipa
càrrichi, nfilignera,
e gghjia pi nna cucina,
p’i càmmari, niscia,
si nnacchiava all’àstracu.
E ’u ciàvuru ri rrosi
pi ddintra ’a casa, ’u ciàvuru
ru ggelsuminu, ri
carrubbi.
’Unn’agghicava ’u ciàvuru ru mari.
Ma eu ci jia, ddà,
pi sèntilu.

’U silenziu chi cc’era
nna sta ncufata ru
Stagnuni.

……………..Si putia
sèntiri ’u rriminiu
ri pisci chi vinìanu
ô ncapu, e ’i bboddi, ’u toccu
ri l’ali ri l’aceddi
vasci, a stricari ’u pilu
ri l’acqua.

………………Cci vinia
viremma un’aranciaru
nna stu locu, unu siccu
mpurrutu.

Chiantava tutt’allongu
ra spiaggia, orantuoarantu,
bacchetti cu pizzudda
ri murina o di siccia,
di runcu.
Passava e arricugghia
l’aranci chi s’avìanu
nnastumentri acchiappatu
ê canni pi pistiari.

Nchiusi pi ddintra ê sacchi, ammazzuniati,
cu ’i tinagghi, cu ’i vucca,
stricànnusi cu ’i ranfi,
facìanu un nzirrichiu
chi a mmia mi scumminava.
M’arrassavu accussì
ri nn’iddu quannu cc’era.

Un gghiornu stu cristianu
cu ’a manu mi chiamau.
“Picchì t’a fui” mi rissi.
“Mali ’unn’i fazzu. Cogghiu
aranci pi piscari
cu ’i nassi, abbuscu quarchi
sordu e cci campuniu
’a famigghia”.
“ ’Un mi piaci ascutari
’a làstima chi fannu”
cci rissi.
’U cristianu si fici
ursignu. M’ammicciau,
schifiatu.

………………..“Puru niatri”
accuminciau a vuciari
“semu pi ddintra ô ’n saccu;
e lastimiamu, avemu
l’accupazzioni, ’i còlluri chi cci hannu
l’aranci. Tuttu ’u munnu
si rruri”.
………………….E aisannu ’u vrazzu
’u rriminau nnall’aria
tagghiannu comu fa
una fàvuci.

IL PESCATORE DI GRANCHI. Era dappertutto/ quell’odore di mosto./ Arrivava dal magazzino, dalle botti/ ricolme, messe in fila,/ ed entrava nella cucina,/ nelle stanze, usciva,/ saliva sul terrazzo./ E l’odore delle rose/ nella casa, l’odore/ del gelsomino, dei/ carrubi./ Non giungeva l’odore del mare./ Ma io ci andavo, lì,/ per sentirlo.// Il silenzio che c’era/ in questa cavità dello
Stagnone./ Si poteva/ avvertire il movimento/ dei pesci che venivano/ in superficie, e il boccheggiare, il tocco/ delle ali degli uccelli/ bassi, radenti il velo/ dell’acqua.// Ci veniva/ pure un pescatore di granchi/ in questo posto, uno magro/ ma ferrigno.// Conficcava, lungo tutta/ la spiaggia, una appresso all’altra,/ canne con pezzettini/ di murena o di seppia,/ di grongo./ Tornava e raccoglieva/ i granchi che si erano/ frattanto appiccicati/ alle canne per mangiare.// Rinchiusi dentro i sacchi, ristretti,/ con le chele, con le bocche,/ sfregandosi con le zampe,/ creavano un rumorio/ che mi turbava./ Mi allontanavo così/ da lui quand’è che c’era.// Un giorno questo vecchio/ con la mano mi chiamò./ “Perché fuggi” mi disse./ “Male non ne faccio. Raccolgo/ granchi per pescare/ con le nasse, guadagno qualche/ soldo e ci campo
la famiglia”./ “Non mi piace ascoltare/ il lamento che fanno”/ gli dissi./ Il vecchio si fece/ torvo. Mi fissò,/ sdegnato.// “Pure noi”/ cominciò a gridare/ “siamo dentro a un sacco;/ e ci lamentiamo, ci sembra/ di soffocare, le pene abbiamo/ dei granchi. Tutto il mondo/ si tormenta”./ E sollevando il braccio
lo mosse nell’aria/ tagliando come fa/ una falce.

Diario – Autunno: 25) Nel clima disadatto

Gian Lorenzo Bernini, Il Ratto di Proserpina (particolare, 1622)
Vivaldi: Concerto For Flute And Strings In F, Op.10, No.1, R.433 “La tempesta di mare” – 3. Presto · Dorothee Oberlinger · Sonatori De La Gioiosa Marca

Diario – Autunno: 25) Nel clima disadatto

E passa la stagione come fuoco acceso attraverso l’oscurità del mondo, ma non illumina, immiserisce e preannuncia crepe, scricchi che scondensano il ghiaccio, col mellifluo Favonio a spirare sulle schiene flessuose dei due draghi. Nessun luogo è illeso e spande colore e lo disperde inacciaiandosi e serrando ogni apertura. Tutte zone intermedie e nessuna, perché il clima è disadatto, è un orlo che corre tra i suoi estremi e questa terra è una plaga irrigidita tra correnti torbide. Prati atri nella zuppa palude trasmettono ai volti insensibili umori nuovi e l’odore malsano trasforma il carattere, lo inquina.
Eppure il fieno è raccolto e il miele di castagno e la marmellata nei vasetti è pronta a essere liccata e sucata da falegnami e youtuber, tiktoker e contadini, nun with gun e cybermonk al canto di un sogno sempre presente cantato in lipsync. Perché ogni geografia è destino e anche ogni storia, anche quella neomorfica, e gli scavi della macchina nella terra come norma, arte, Lescaux tra uri, avatar e catabasi immaginate.
Eppure l’odore delle messi meccaniche protegge e coccola la marcescenza d’Autunno, morte in vita, fragranza di Persefone, ecc.
Eppure la figurazione di un mondo «senza senso e […] senza avvenire» (T. Landolfi, Cancroregina) ma ancora pulsante di desiderio crea un’attesa. Per quanto arreso alle blandizie della pioggia, sommerso nel fango di novembre, quel desiderio si manifesta, nell’apparente impassibilità e nella stagnazione. In realtà è nel mutamento la sua fermezza, il suo artificio eterno.