di Gianluca D’Andrea
Con questa prima “Lettura” inauguro una nuova rubrica, una ricognizione sul presente, ma non solo, che prende avvio dalle esperienze di lettura per incrociarsi con altre esperienze, assolutamente personali, dell’autore. Ancora indistinto, il margine che dovrebbe separare il soggetto della percezione dalla realtà percepita e dagli strumenti che consentono l’accesso al contesto. Forse perché tale margine è sfumato, tanto sottile la fenditura che separa, da rendere inutile provare a spiegarsela: forse il contesto è lo stesso margine, soggetto compreso, della fenditura.
Ferita
Come non esistesse eziologia,
forse non esiste davvero nulla
oltre una fragilità congenita
che vorrebbe dire eredità, trasmissione,
geni antichi, incroci cellulari,
un’intrusione che arriva da un altro
tempo, un tempo-ombra
come le scorrerie e le razzie di sconosciuti
che scopriamo, sempre dopo, essere prossimi.
Così galoppa il dolore, nella rincorsa lontana
che arriva addosso un giorno
imprevisto, imprevedibile e non è un’origine
ma un percorso che ci attraversa e in cui
improvvisa emerge un’onda che s’increspa
e ferisce, che può arenarsi
o trafiggere fino a bloccare il tempo
del singolo, non la continuità
della sua alterità.
Il taglio è purulenza guarisce
ma non argina, illanguidisce
sull’orlo della cicatrice, cambia la visuale
dell’abbandono o dell’attesa.
«E la grande licenza, che si diffuse nella città anche in altri ambiti, cominciò all’inizio con questa malattia. Poiché ciò che prima un uomo non avrebbe ammesso che potesse essere fatto per il proprio piacere, ora osava farlo liberamente, vedendo davanti ai suoi occhi una così rapida rivoluzione».
T. Hobbes
La peste di Atene, la guerra civile, i nazionalismi. Nei momenti critici tutto è permesso fuori dal vincolo della legge e della condivisione e la massa anonima svincola l’individuo da ogni responsabilità. Quale forza?
Eccoci a riguardare il vuoto dopo l’evento. La ricreazione dello spazio nonostante la mancanza, la deviazione di abitudini che non esistono se non nella piena solitudine. Come un’ombra che mi ha lasciato la sua voce, le carezze, gli abbracci, il contatto. E, dalla voce, i consigli, l’ammaestramento. Spero che questa forza di trasmissione spinga all’incontro, interloquisca nella memoria e riattivi la necessità della relazione. S’incurva e scuote l’essere, la cura, porta a una maturazione il contatto. Di che altro abbiamo parlato? Splatter, horror, vertigini, fantascienza, famiglia, appartenenza?
Non si possono perdere le date dello smarrimento. Ma quali date? Tutte!
«Annotare i colloqui nascosti del linguaggio» (M. Heidegger), come leggevo a luglio, la poesia dovrebbe annotare i colloqui nascosti del linguaggio ma qualcuno inverte l’assunto e rende palesi tali colloqui (a questo punto la poesia non c’entra nulla).
Ragno a luglio
Quanto più l’uomo diviene colossale, tanto più
piccola deve diventare la sua essenza fino a che
egli, non vedendo più se stesso, si confonde con
le sue macchinazioni e così “sopravvive” ancora
alla sua propria fine.
M. Heidegger (Quaderni neri – 1931/1938, Riflessioni II-VI)
Non occorre più pensare al male
che dentro di noi germoglia
come un muro di asterie
perché basta fabbricarsi un sole
di armi e connessioni per sentirsi
un sole. Quel calore che cresce
prima dell’esplosione è il segno
che un muro di foglie è più solido
della vita e la morte è bella
perché non spazza via nulla
e ci proietta in un’immagine
illusoria, eppure eterna.
La segreta ambizione di essere oggetto,
parafrasando un poeta che pensava alla scrittura,
è frazionata in molteplici lapidi
in un pianeta popolato di fantasmi.
La mia ombra accumula
date e luoghi, è la turista
della distanza che vede senza movimento,
non ha il tempo di sostare a Monaco
perché deve tornare in Francia e volare
con l’occhio a Baghdad. L’ombra che sono
non si nutre di angosce ma ha paura,
continua a spostare lo sguardo
collezionando date e luoghi
ma non per lasciarli in eredità,
solo per continuare a sopravvivere
sottile tra le crepe di una casa
dissolta, nascondendosi tra fessure
virtuali come un ragno prosciugato
che non lascia tracce.
Macchinazioni: anche andando lontano si torna a questa fenditura. Fessura essere-non essere, organico-inorganico, in sostanza vita-morte? In questo spazio così sottile s’installa il senso del non senso, associazioni inaudite. Nel solco vive un ragno che è ombra del vivente, ma si nutre di resti, fossili e grumi di una materia a stento percepibile, in movimento in uno spazio imprevisto, una dimensione resa evidente dalla tecnica (dalla riflessione sulla tecnica). Dalla scomparsa dell’organismo nel meccanismo, anzi dalla fusione di sempre tra organo e strumento, perché organo è strumento.
«Nessuna successiva archeologia, né forma di vita o morte. Sconfitta in ultimo la morte; è solo una grandezza matematica fra parallele, e come queste ha niente valore, nessuno che la applichi. A che poi?».
Marco Giovenale (Il paziente crede di essere, p. 72)
All’assenza e alla memoria, ad esempio. La morte non è semplicemente una grandezza matematica. La morte, cioè l’assenza, puntella storie nel ricordo. C’è forma di vita e di morte, c’è archeologia, c’è storia. Per quanto possa capire l’idea della scomparsa, e comprendere un certo compiacimento, ancora non è proporzionale alla forza – per quanto prepotente – della sussistenza, cioè della presenza.
«La debolezza della storia è di essere volubile e poco affidabile, soggetta al trascorrere delle ideologie e delle mode: perché, altrimenti, cambierebbe tanto la versione dei fatti da un secolo all’altro? Il mito ha una forza lirica e una bellezza estetica di cui la storia è carente. Il mito rettifica la storia, è come se dicesse: può darsi che le cose non siano andate proprio così, ma è così che avrebbero dovuto andare, è così che vogliamo ricordarle, e una disfatta eroica è più degna di memoria di una vittoria risicata. Il mito è per definizione tragico»
Clara Usón (La figlia, p. 70)
«Lo straniero è uno di passaggio, uno che non c’entra, e dunque non lo riguardano le beghe politiche, religiose o sociali del paese in cui risiede, non ci si aspetta da lui che baci la bandiera o canti l’inno nazionale con la faccia commossa; lo straniero è il forestiero, il visitatore, l’invitato persino, finché a un certo punto succede qualcosa: una crisi economica, un conflitto politico, che lo trasforma nell’Altro, il diverso, il nemico, il colpevole di tutto, il sospettato».
Clara Usón (La figlia, p. 310)
Balcani-fine / etnie-fine / figlia-fine / responsabilità-inizio / memoria-inizio / nostalgia-fine / ritorno-fine.
Profumi che si riattivano nell’emergenza dell’evento, ma non hanno nulla di evenemenziale. Sono il corollario di un vagabondaggio del soggetto nell’altro, quando l’altro s’imprime nei primi respiri del soggetto. Non c’è poesia senza questi profumi primari.
Idomeni
«È più facile sbarazzarsi d’una macchia di grasso
che di una foglia morta; almeno la mano non trema»
diceva un poeta, ma qui a tremare è tutto,
un sistema d’indecisione, indifferenza o l’indulgenza
pietosa per una sindrome di cui si preferiscono ritardare
le conseguenze. Si chiama Idomeni
il limbo, la stasi infinita di chi attende
l’infinito trasbordo dell’uomo in merce umana.
Tutti a proteggere e accarezzare i confini
fino all’esplosione impotente e ancora arginata.
UE, UNHCR e medici senza frontiere
laddove le frontiere subiscono un blocco asfissiante.
Le facce tirate dal dentifricio
che evitano l’aria aperta, l’area Schengen,
per tentare di raggiungere un lontanissimo nord
con una mossa avventata su una scacchiera di scacchi viventi
(Alice gioca e “perde” in undici mosse).
Nell’attesa sommosse nella valletta rigogliosa:
«Oro e argento fine, cocco e biacca,
indaco, legno lucido e sereno,
fresco smeraldo…» ma nell’ora
«che si fiacca» da «mille odori»
sorge lo sfiato dei lacrimogeni.
Il paradiso dei profughi è quell’odore invisibile di
ortoclorobenzalmalononitrile
che istantaneamente spacca l’attesa
perché i Balcani sono prodromi
e la Grecia l’origine di tutto
il male europeo.
“Ogni fatto morto, ogni effetto / estorto. Il dato certo risorto / in un battito irreperibile, / aquile bianche beccano lo zolfo / e il pietrisco dei Balcani; / silenzio d’Europa e connivenza / aprivano faglie tossiche e incoerenze afghane / confezionate a triplo strato / con pascoli di capre, markor, argali a testimoniare l’indifferenza e l’impotenza / dei complotti”.
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(da Transito all’ombra)
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