
Valerio Magrelli
di Gianluca D’Andrea
Didascalie per Disturbi del sistema binario di Valerio Magrelli (Einaudi, Torino, 2006)
Il libretto si apre all’insegna della duplicità (la prima parte – Nella tribù – prosegue sulla scia di Didascalie per la lettura di un giornale ma cresce l’accanimento etico), il titolo del primo testo, una specie di ibrido, neoconiazione: La guace (guerra e pace) e si prosegue nell’incertezza: “Acqua salmastra, né dolce né salata” e poi la morta effervescenza, la vita stagnante – morte/vita – Giano bifronte del cui tempio la porta è indefinitivamente aperta/chiusa (e penso all’ultimo Kubrick, già in limine ma ci sono altri passaggi che mi prospettano la stessa ambigua visuale di “Eyes Wide Shut”), siamo in clima di sconvolgimenti, vediamone le modalità.
L’ombra: tematica della separazione fisica – l’ombra dell’uomo lasciata sopra il muro dalla Bomba.
Guardando le colonne di profughi da casa mia: tema della perdita del nido, del riparo, precarietà esistenziale (“Per questo, senza Nido, / ora avanzano ciechi, / perduti nella notte / della loro identità”).
Coro sulla legalità: ossimoro, figura stilistica chiave (dell’intera raccolta) qui esasperata.
T’amo, pio Stato, vivo tabulato: l’ambiguità in continue rispondenze tra lo Stato – il suo circuito burocratico, legale – e l’organismo, il tentativo di arginare la violenza (il Male?) creerebbe un blocco, l’occlusione che vincola la coscienza (“Perché la Legge è forma che contiene, / benda, vincolo, argine che chiude la violenza / nel carcere sepolto del circuito cardiaco”).
Lineamenti di topologia politica: Sartor Resartus: sul bipolarismo politico in Italia – il doppio che si assimila, rivoltandosi (gioco di prestigio per ottenere il medesimo risultato).
Canzonetta sulle sirene catodiche: ancora uno sfasamento (sono coordinate spaziali, il nostro disporci – metterci a disposizione – erra, vaga nella modernità subita, tecnica), passivamente astratta la referenza catodica (vedi “Videodrome”).
La lingua antropofaga: l’estraneità linguistica (ma sul tema dell’estraneità – che poi è il tema dell’intero libro – basti riferirsi alla poesia che precede), l’invadenza di una lingua ormai planetaria e in modo ossessivo (i media, la politica) imposta, virus che s’insedia e subliminalmente trionfa sulle resistenze dell’organismo (analizza l’impotenza e l’irrimediabilità del procedimento informativo, la catena inarrestabile della comunicazione di massa, dell’informazione – vedi epigrafe a Didascalie).
Marcia dei pellegrini che cantano la loro preghiera serale: il paradosso del viaggio turistico di massa – pagare per vedere l’esotico, il diverso. L’ambiguità sottesa esplode nella chiusa “mitologica”, in cui due miti opposti (per rappresentazione allegorica: MIDA troppo vuole e troppo ottiene fino a rimanere impaniato nella realizzazione del suo desiderio (dinamica servo-padrone); TANTALO troppo vuole e nulla ottiene, deruba gli dei, deturpa il corpo sacro della sua stessa semenza e non può più neanche desiderare pur essendo immerso in un’abbondanza praticamente assoluta) stigmatizzano l’impossibilità di accesso (per eccesso e/o per difetto) alla nostra realizzata(?) opulenza.
Su un’aria del «Turco in Italia»: stride già dall’ironica citazione in esergo (da Rossini) il tema della clandestinità, ma la pietas per le anime concretamente perdute nel nostro mare (“marenostrum”) allarga il proprio campo d’inferenza e la campionatura tematica affoga nello stesso mare “tutta quanta la Penisola” e perché no, con passaggio metonimico l’intero occidente che non riesce a trovare la strada del ritorno perché non c’è più ritorno (contro la moda retorica e disfattista della precarietà, una vera analisi, bruciante e letteraria, intaccabile delle carenze morali della nostra società).
11 settembre 2001: partirei dal “fuoco morto del televisore” (in antitesi con l’antico focolare attorno al quale era svolta la vita domestica, risentimento morale ma anche ossimorica constatazione dell’avvenuto passaggio, vedi Piccolo schermo in Didascalie) per constatare la nostra condizione, vitalità spenta (il paradosso possibile, dal basso la vera iperbole del nostro tempo). Farei attenzione alla nota conclusiva dove si esplica la tendenza all’assimilazione – il controllo e l’autocontrollo entrambi coatti, indotti. Ma “la sua fiamma” (di ognuno di noi) continua a rimanere accesa (vedere la poesia successiva).
12 settembre 2001: l’indomani, concluso il trasporto collettivo (collettivizzato), la vita comune, quotidiana riprende (“…camicie / nuove…” forte enjambement) negli oggetti comuni un precario rasserenamento (vedi analogia: cartone bianco che ordina le camicie/foglio bianco attraverso il quale la scrittura tenta di ordinare provvisoriamente il caos).
La morte di un malvagio toglie senso al mondo: ancora l’ambiguità di una legge morale a sé stante (vedi: T’amo, pio Stato…). Il ribaltamento, l’iniquità del giudizio divino (che ovviamente è giudizio umano – trasposto ironicamente).
Igiene e teodicea: sulla scia della precedente, tende a demitizzare ancora. Come qualunque sostanza alimentare anche l’ostia consacrata è destinata a scadere (dio è scaduto ovvero sono tutte scadute le istanze e i concetti connessi al suo nome).
Misery non deve morire: riflessione sulla parossistica fede (a cui anche gli strumenti della scienza sono adattati) nella lettura.
Si riparano personal [computer]: sestina di settenari, esclusa la terzina finale composta da endecasillabi. Parole rima assolutamente pregnanti: tema dell’ostaggio che subisce la sua e ancor più l’altrui incompetenza (riflessione sul male tecnico – assenza di scopo e prigionia: vedi le discussioni su “Teléma”).
La seduta:
I
sul lavoro e l’ambiguità innescata (“il diritto al dovere”). Presentazione: l’apparizione della madre circonfusa di spilli (aghi-puntura) è rappresentazione dell’ambiguità di una cura (riferimento ad una poesia civile condotta con gli aghi o “banderillas analgesiche” ovvero lance che ossimoricamente leniscono il dolore fino ad annullarlo).
II
parto dalla fine: “Il sacrificio è una / gara a eliminazione, e la sua ara, / il posto di lavoro”, tutto nella chiusa il senso di sacrificio, la durezza del lavoro e delle sue significazioni etiche (il diritto al dovere). Scorgo un possibile parallelismo in Costa Gavras “Il cacciatore di teste” sul tema del lavoro-sacrificio, lotta, farsi del male per «ben fare» (la scolastica e Dante, siamo fermi al medioevo moralmente? una specie di stoica accettazione del dolore al posto del risentimento per le modalità). “Non basta sottomettersi per sopravvivere, / prima occorre competere per assicurarsi / il privilegio di farlo” (a mio avviso è la denuncia del procacciamento in tempi di precarietà sociale – la competizione sfrenata porta alle più grossolane bestialità in funzione del risultato ottenibile, il quale è auspicabile sia il massimo raggiungibile).
III
la figura del muro, un tempo simbolo del limite e di eventuale innalzamento mistico (anagogico) proprio in risposta al limite, è ridotta al puro esercizio d’applicazione pratica (i vari muri, gli esempi): “forme diverse di un’unica matrice / data dall’adesione a una richiesta, / data da una rinuncia al desiderio”.
IV
la possibilità di rompere il circolo vizioso del sacrificio-lavoro non ha trovato una verifica (nessuna cura adatta – nessuna morale, nessun valore può sostituire la mera effettività di un evento. Il lavoro resta pertanto diritto al dovere, bene nel sacrificio).
Seconda parte: La volontà buona (stacco rispetto alla precedente: l’argomentazione procede nel rimpicciolimento della visuale – dal contesto sociale a quello familiare)
Un padre
I. Cronache dal Pleistocene
“il fantasma di cui sono il lenzuolo”: il velo, la pellicola, magri Magrelli, astucci pelle e ossa che separano nell’unione di una linea genealogica.
II.
sulla separazione e l’invasione (dinamica padre/figlio).
III.
come la precedente e la perdita d’identità come assoluto.
IV. Gran Caffé l’Obitorio
il corpo come cosa: corpo-cosa
Uscita di sicurezza (dopo il padre-passato genealogico, l’attenzione si sposta sull’attuale famiglia del poeta)
Infanzia del lavoro: come un inno alla lettura (per contrasto rileggere Misery non deve morire), la gioia del lavoro nascente, la curiosità che confonde l’impegno del fare (immagine della pesca, azione del pescare – insita una violenza primigenia, quasi genuina. Si profila il tema della banalità del male, inestricabilmente legato alla nostra naturalità, spontaneo. Dal lavorio in profondità – la pesca delle lettere – all’emersione della vittima che è risultato dell’azione).
Per una bambina di sei anni che non riesce a dormire: parto da “pelouche astrale”, iperbole in bilico tra trasporto affettivo e gelo siderale che diventa guida del cieco poeta, ribalta i ruoli per centrare l’attenzione sull’esperienza dell’amore (anche intesa come trasmissione – figura del faro – orientamento che solo l’altro inavvertitamente dona).
In regione dissimilitudinis: “un piccolo azionista della fede”, cieco va avanti e continua a segnare (“Segno” con la maiuscola), nonostante resti inconsapevole del valore effettivo – di utilità applicabile a un contesto – dell’azione compiuta (“questa deliberata fiducia nello sforzo/ e nella grazia che viene dalle opere”).
Era già sera in terra: l’amore o pietà-carità, dono, richiesta (dell’altro) risulta essere l’unico appiglio contro il male diffuso (il nonsenso del mondo, la non applicabilità di qualsivoglia legge morale alla vita).
Elegia: controparte o controcanto rispetto alla precedente: il dubbio del male, l’insensatezza di un amore che è visione e umilia la visuale, annichilisce (dalla “viva” voce dei bambini all’ossimorica constatazione “peso-volo trepidante” al “tizzone […] mezzo morto” – anche vita e morte non sono così separate come abbiamo troppo tempo creduto, quasi un dubbio dicotomico).
Continuo a sfiancarmi in cyclette: temi: autoresponsabilità “sta a me, badante di me stesso portarlo in giro” riferito al sangue; l’alienazione “Visto da fuori, devo sembrare un alienato. / Visto da dentro, pure”. Doppiezza ancora manifesta, se il soggetto alienato ha da curare il proprio organismo come fosse corpo estraneo (cfr. anche la tematica della musica-ostacolo, sensazione invasiva).
Guardando i resti di un’audiocassetta nella sosta di un viaggio d’estate: si sviluppa il tema della musica concreta (la più eterea delle arti assume contorni materici: “una spugna essiccata di voci” riferito all’audiocassetta) – si accende la riflessione in conseguenza ad una disposizione dis-tratta del soggetto nei riguardi del mondo, una caratteristica che sostanzia dalle origini l’operazione di Magrelli.
Musica, musica: si conclude il mini ciclo (un ultimo strascico nella poesia successiva) della musica vista come inserzione, invasamento, virus (un parallelismo è rintracciabile nella funzione della voce e in senso lato del linguaggio che si deposita, durante la primissima infanzia, su un tessuto vergine, privo di difese). Il riferimento ad Amleto è in funzione dello sdoppiamento e del tradimento (la musica tradisce e s’insinua come veleno fino a rendere problematica la percezione del soggetto, il quale persiste nella possessione di un altrui esterno, un alter ego).
Descrizione di una connessione in rete sotto forma di accoppiamento animale: un richiamo d’amore ritorto e sonoro (ancora riflessione quotidiana, minima che apre vertigini di senso) di una macchina bestializzata (e bestiale?). Un richiamo sonoro (una musica) deforme per un’attrazione deformante, nel tentativo di descrivere il mutamento antropologico (ethos, abitudini comportamentali) come una perdita ma irreparabile. In questo modo ogni moralismo di ritorno è constatazione sterile.
Su un paesaggio di Milena Barberis visto attraverso il «Polpo» di Apollinaire: ancora sul male insito (il mostro ctonio, lo stesso mostro che si affaccia e chiama dal basso – vedi esergo). La vera morale parla di uno sdoppiamento avvertito e verificato, posto in relazione e realizzato, il soggetto è “costretto” moralmente (il vero bene) a vivere in unione il contrasto (vedi il nero della seppia di contro al bianco dell’assegno).
Difesa e illustrazione del Licantropo: ancora i graffiti (stavolta ricopiati su carta dal figlio del poeta) come in altre zone della poesia di Magrelli. Una riflessione sull’adolescenza e il suo modo intimo, pronto all’esplosione, di vivere. Adesso la concentrazione del poeta si sposta sul figlio (altro alter ego come prima il padre?).
Dormo accanto a mio figlio: La violenza come autodifesa (segue la precedente), la tenerezza sta nella nostra debolezza (e l’adolescenza è età critica, lo sviluppo e la scelta) che nel bisogno di sussistere esplode un risentimento esorbitante, eccessivo, quasi invasato (vedi le “figure” in esergo alla precedente).
La famiglia del poeta: Lo stridore (vedi Treno cometa in Esercizi di Tiptologia in cui l’attrito era tra soggetto e mondo mentre adesso si allarga ad una microcomunità, la famiglia – tutti coinvolti, nessun esente) come dolore illuminante.
Appendice: L’individuo anatra-lepre (più esibita che reale la diversità di questa parte della raccolta, forse ad aumentarne l’importanza – la morale è sdoppiata come l’individuo e di conseguenza la società). Un trattatello, esemplificazione istruttiva. Un accenno alla composizione circolare (ripetitiva, che si chiude su se stessa, anulare): non si esce dall’impasse, si accetta (inizio e fine coincidono, ogni dicotomia vive all’interno di un circuito costruito dall’oscillazione, un processo, un andirivieni).
Dialogo sull’opportunità di un’appendice dedicata all’individuo anatra-lepre: l’ambiguità è percettiva, in immagine, e il soggetto non può arginare l’ambiguità che lo sostanzia (paradigmatica la resa nel finale). La visuale è dis-torta e allora anche la visione che ne consegue sarà un ritorno, una chiusura nel già acquisito, nel rassicurante, invece lo sfasamento tra il rappresentato e il mezzo (già ampiamente affrontato durante il corso dell’intera raccolta – vedi In regione dissimilitudinis in cui è focalizzata l’attenzione sullo stesso sfasamento) ha l’obbligo, in questo caso davvero morale, di essere accettato come l’imperfezione che costituisce il nostro essere. Solo così l’idea che abbiamo di noi stessi coinciderà con la realtà (la Verità rinnovata). Su questa strada, una morale capovolta che riconosca la propria imperfezione dovrebbe condurre ad una effettiva constatazione dell’umiltà dell’esistente, ma questa è un’altra storia (depositata a fermentare).
Innocenti: incipiente la tematica di tutto il poemetto-trattato: l’ambiguità morale è ridotta in unità “come essere colpevoli / rimanendo innocenti”.
Ottica: la difficoltà, il limite è tutto percettivo (e quindi normale, naturale?). L’ambiguità dell’immagine anatra-lepre resta inespressa se si fissa l’attenzione (dello sguardo) sulla prima apparenza, non si manifesta la verità della visuale, ma si rischia di impostare una visione scissa, a parte, scollegata (meta-fisica). Nel tentativo di giustificare la propria carenza si costruirà un “inganno”, l’ostacolo dell’immagine al posto della certificazione di un proprio limite (effettivo).
In realtà lo dimezzano: riconoscere la doppiezza delle nostre nature non implica un incremento, un arricchimento; al contrario manifesta la scissura e in sostanza la carenza (la debolezza interna) dell’intera stirpe.
La lepre arriva sempre per seconda: la pars destruens è percepita dopo la construens. Resta il fatto che le due figure sono un’unica coappartenenza.
Al sole del nemico: su come la nostra vita (metafora del pane e della spiga) fruttifichi nella violenza (“La spiga, gonfia, pesa, piega il debole stelo, / le messi piegano il capo al sole del nemico”) pertinente alla stessa crescita.
Guarda dall’altra parte: la separazione parrebbe inconciliabile, ugualmente costituisce l’individuo (paradosso dell’unione scissa e della scissione unita). Eppure le due figure interne all’unica figura non comunicano coscientemente, il loro è dialogo muto travisato nel monologo (lo sguardo opposto).
Non c’entro!: il soggetto vive l’illusione di potersi astenere dalla colpa (non potendo realizzare l’intima presenza del male); nel rifiuto affida alla chimera (il fiammifero, la luce che si spegne e con essa la speranza) della casualità la causa di una possibile sofferenza (in verità dipende dal sé, abbiamo visto, anche il male).
Due: due le figure (gli individui), due le responsabilità, il soggetto vittima-carnefice. Nessuna possessione (altro rispetto all’invasione, estraneità, alienazione, temi privilegiati dalla poetica dell’autore), più precisamente condivisione di esperienze apparentemente opposte.
Su una sostanza infetta: accertata l’effettiva doppiezza che sostanzia l’individuo e la fragilità della stessa sostanza (“pelle cucita su una massa letale, / involucro appena, pellicola”) occorrerà costruire ex novo (“È inutile cercare di svuotare / i palazzi d’amianto: / meglio buttarli giù, rifarli da capo”) l’edificio dell’organismo (vedi Nel condominio di carne). Solo attraverso l’invasione organica sarà possibile l’ineluttabile mutamento (rifletterà un’effettivamente mutata visuale e di conseguenza una diversa – rinnovata – morale).
Della doppiezza: l’eventualità di una locazione temporanea del pensiero (“Di mondi, ne possiede addirittura due”) rifletterebbe la scissione ontica.
Smaltimento rifiuti: tutto ricircola dopo un processo decompositivo, più semplicemente subisce una mutazione [“Monili di materiale riciclato / (rigenerato, nel caso migliore)”]. Anche la poesia è assimilabile al ciclo di smaltimento rifiuti (rifiuto organico. Vedi: in Che cos’è la poesia?, Urgenza).
Volge il viso: osservata l’incomunicabilità delle due figure nell’immagine anatra-lepre si riflette moralmente l’ineluttabilità del male che ha un corrispettivo nell’indifferenza allo stesso (impossibile detenere la “vera” giustizia – nella scissione – a meno di compiere una forzatura in ciò che è).
Le tengo fuori: continua nel clima della precedente: la corrispondenza “Voci-vespe” bene rappresenta la possibilità infastidente di una morale esterna (che abbiamo frainteso in coscienza) rispetto all’integrità scissa del soggetto.
Per seppellire i cadaveri: ancora l’impossibilità di de-finire il male. Il riferimento a “il giardinetto sul retro di casa / per seppellire i cadaveri” pare richiamare i soggetti di molti horror film statunitensi (da ultimo “La Casa del Diavolo”) in cui è allegorizzata l’indifferenza di una morale borghese che, pur avendo coltivato il male, tenta di nascondere ipocritamente la verità effettiva (più una società è opulenta più ingombrante il suo rifiuto, inevitabile – verità, urgenza – il processo). La riflessione del poeta, diversamente, sposta l’asse del problema sulla fragilità delle nostre capacità percettive e sottolinea la debolezza insita nella natura dell’organismo (e quindi del soggetto).
Lesioni nel cuore: ancora sulla fragilità percettiva, organica: “L’equivoco, piuttosto, dipende da chi osserva. / Si tratta di un difetto dello sguardo / che causa lesioni nel cuore”.
Dentini affilati?: sull’alterità interna allo stesso soggetto (difficoltà di riconoscere, agnosia: “Sembrano criminali; sono come malati / che scambiamo la propria immagine / con quella di un estraneo”). La forte difficoltà visiva scompensa le capacità percettive del soggetto, la sua sicurezza sensibile (Narciso rovesciato).
Scalo merci della moralità: non semplicemente una via di fuga dal “male”, ma anche un classico distacco (imperturbabilità) di fronte ad esso. La difficoltà dello sguardo (distortivo) implica una diversificazione della nostra “visione” morale del mondo (riciclaggio, rinnovamento su basi organiche, fisiche della concettualizzazione Bene/Male).
La quieta superficie?: all’autore pare lecito interrogare su una (più presunta che reale) profondità stratificata della coscienza (coscienza come cosa a sé e vera consapevolezza da dissotterrare – più concreta l’interpretazione organica, genetica delle stratificazioni del cervello, l’espansione della corteccia cerebrale).
Orrore: continua la precedente; eliminato l’inconscio resta la superficie (“Flatlandia”). Muta la prospettiva, di conseguenza la morale.
L’indifferenza: in conclusione la presa di coscienza dell’effettività del Male; “trovare spazio per l’indifferenza”, necessita un nuovo spazio per il mutamento avvenuto.
“Post scriptum”: Addio alla lingua
I.
perdita della fiducia nel linguaggio (la comunicazione): constatazione dell’assoluta precarietà del mondo, dell’ambiguità nascosta allo stesso soggetto, assenza di punti di riferimento (chiusura circolare sulla figura del Giano bifronte – vedi: La guace).
II.
Il libro si chiude restando aperto su un silenzio non identificabile. L’apparizione delle “creature biforcate logo-immuni” contribuisce a rendere desolato il panorama che inizia a delinearsi davanti ai nostri occhi (non sarà più possibile comunicarsi, condividere valori attraverso strumenti comuni: il linguaggio, la comunicazione, ecc.).