
Domenico Cipriano (Foto di Dino Ignani)
DENSITÀ MINIMA: Il centro del mondo di Domenico Cipriano, Transeuropa, Massa, 2014.
«Tra tutte le cose, l’uomo è dibattuto dal desiderio di un fine duplice ed opposto, poiché, sia nel corpo, sia nell’anima è strutturato nella maniera migliore, in ragione delle proprie capacità fisiche e intellettuali: di modo che, situato nell’orizzonte naturale, al confine tra l’eternità ed il tempo, tra il modello e il modellato, posto tra il mondo intellegibile e quello sensibile, partecipe dell’una e dell’altra sostanza, e in certo modo copula di estremi, può usufruire di quelle cose che sono nel megacosmo in vista dei suoi bisogni e dei suoi desideri e, grazie al conseguimento e al potenziamento della propria dignità, contempla l’ordine, la disposizione e la natura di tutte le cose».
G. Bruno
La plasticità materica del linguaggio si espone per grumi, proiezioni di un pensiero visivo, delle riflessioni quotidiane che, dipanandosi nel tempo, riescono a creare coordinate riconoscibili, punti d’approdo, per quanto transeunti, mobili. Potremmo aggiungere che la forza di questa realizzazione è proprio la riscoperta della motilità del mondo, non la sua sfuggevolezza ma la percezione del movimento concreto. Per questo i testi de Il centro del mondo diventano i coaguli materici di un senso che il reale possiede, almeno per l’occhio di un soggetto dis-posto nel divenire:
(a mio padre)
Si è raggrumata in sogno
la sequenza dell’adolescenza
noi due seduti: tu intento
a leggere il giornale, io
un libro, cogliendoci nelle parole,
fermando quell’istante quotidiano
complici gli odori della casa
il calore della stufa a kerosene
e il velluto a scacchi delle poltrone.
Mi hanno sorpreso di notte
in un sobbalzo della mente
che si concede raramente indietro
scompigliando gli anni
alla memoria senza grandi eventi:
quella necessaria, e più segreta
(p. 15).
I sette movimenti del libro sono tappe d’improvvisazione esistenziale controllata dalla presa “attentiva” dei sensi del soggetto, per cui la forza e la tenuta della trama si consolidano nel dettato costante, direi “volenteroso”, di chi avverte nella presenza le potenzialità focalizzanti del gesto poetico. In sostanza, proprio il gesto della poesia conserva il suo afflato testimoniale, per questo il mondo del poeta può desiderarsi e realizzarsi nella “centralità” auspicata dal titolo, ribadita addirittura con forza (vedi l’esergo pasoliniano all’intera raccolta).
Il viaggio a un rinnovamento attraversa un tragitto sapienziale dalla «voragine» del vuoto nichilista con le «vertigini» provocate dallo spalancamento dello stesso vuoto, fino al «vivere vergine» della riscoperta del mondo, della sua esplorazione minima dai luoghi della nostra presenza (cfr. il primo testo a p. 9).
La ricognizione della presenza prende avvio da Le stanze nascoste, sezione che svela l’intimità di chi osserva e vive gli eventi che possiamo leggere, prima tappa di un denudamento, improvvisa, necessaria:
È facile abbracciare una figlia
bisognosa del tuo sostegno fragile
coccolarla nella sua leggerezza, lo stesso l’amata
a cui ti doni e prendi l’amore con dolcezza.
Alla madre che ti ha cullato in grembo
dichiari il bene dentro (lentamente), è difficile
stringerla e rigenerarti nel suo affetto,
serrare in quell’attimo ogni fondamento
che la memoria percorre e il pudore non rivela.
L’amore naturale di figlio che diviene padre difensivo
si nutre segreto: raramente stringe il corpo
di chi il corpo gli ha donato.
(p. 19).
«Un taglio netto» (Un taglio netto, un gesto tra le molle, p. 20, v. 1) è il segnale dovuto, necessario perché reale, evidente come una nuova scoperta, in questo caso la nascita della figlia del poeta.
Dal taglio della nuova nascita – ecco che la storia personale si fa allegoria – si espande il mutamento, la riscoperta dell’alterità, la visuale del diverso che si riattiva nello stupore e nello sgomento della sua stessa constatazione. L’importante è essere sicuri di voler scegliere l’alterità per continuare a esistere: «in questo/ confine d’infinito che abbiamo/ scelto per esistere» (La nostra casa sta cambiando, p. 26, vv. 16-18).
Eppure il luogo, in cui ogni scelta del soggetto è avvenuta, appare come un non-luogo tra tanti. Sarà, allora, la trasformazione dell’ambiente a rendere ogni luogo, ogni evento un assoluto, non una dispersione ma un’agnizione in ogni dove: se «non è facile accettare il cambiamento» (Non è facile accettare il cambiamento, p. 37, v. 1) proprio perché sfalda la stabilità di un’identità fissa, occorre riconfermare continuamente la “verità” della nostra identità mobile, perché è inevitabile, per quanto doloroso, accettare di essere «null’altro che un viso/ che multiforme deposita il suo sguardo/ sulle cose a cui apparteniamo e dobbiamo/ dare conto per scelte lasciate in un angolo/ del mondo a cui chiediamo giornalmente/ di accoglierci tra passato e futuro» (Ibid., p. 37, vv. 13-18).
Irpinia metafisica, la seconda sezione, è il movimento trattenuto dopo la vitalità dirompente della ri-scoperta; il nascondimento svelato perde fiato e si fa contemplazione del luogo nativo.
Chiusura riflessiva, la parola muta i toni: la breccia d’assoluto stempera le sue vampate, luoghi e persone si trasfigurano e, da fenomeni osservati, diventano eventi in attesa di essere pensati:
Traballa il tavolo ai colpi ossuti
del pugno che stringe orgoglioso
il tre di denari carta padrona tra cesti
colore di spiga: attanaglia soffoca
l’asso arreso e sfinito. Buste inviolate
di patatine si gonfiano al tatto
poi scoppiano sorde nelle mani callose
bruciano labbra nei morsi croccanti
si asciuga la lingua col sale. La birra
dorata perde la schiuma e abbandona
il bicchiere nelle lunghe sorsate
fauci asciutte si imbevono fiere
per tornare presto legnose. Risa
più grasse di pance sedute a riposo
accompagnano ore d’ottobre sbucciato
mi fingo gingillo dei sospiri serali.
L’autunno perenne ci guarda assonnato
continua il gioco rimescola il poco.
(p. 42).
L’impostazione contemplativa aumenta la sua gradazione e il pathos meditativo raggiunge una dimensione etica. La terza sezione, Città degli occhi, esplora il quotidiano, il verso in alcuni componimenti si allunga, eppure il racconto, con l’esergo da Pagliarani a manifestarlo, è sempre straniato nella sua tenuità, nella sua “finzione” d’aderenza, per nulla rassicurante. È evidente ancora lo scarto meditativo, la riflessione come concettualizzazione, cioè presa sul reale, reimpossessamento tentato del flusso:
Con gli occhi verso l’alto cerchiamo
di contare le distanze inesistenti
non c’è più colore che dissimula
solo i primati restano da superare
anche dove gli spazi sono vuoti
e camminiamo con la pritzel
di mezzogiorno. Siamo anonimi
in tanta umanità distesa, potremmo
essere chiunque, ugualmente
entreremmo nella Biblioteca Pubblica,
io leggerei lo stesso i versi scritti
a macchina da Langston Hughes.
(Manhattan, New York, 30 agosto 2005)
(p. 59).
Come se la tensione a quel «vivere vergine» dell’inizio allignasse solo nella captazione delle distanze: il poeta è sentinella ritmica, in ascolto su «una stazione che trasmette da un capo/ all’altro del mondo» (Domenico trova una radio per ascoltare le voci dentro, p. 63, vv. 6-7).
Non è lo sviluppo, l’evoluzione di un percorso a interessare Cipriano, ma che il tragitto avvenga, persista nello stupore ogni passaggio d’esistenza, ogni tappa del mutamento.
La sezione Intermezzo è la pausa nel cammino, precede l’ondata che amplificherà la prima parte della raccolta. Stazione del ricordo, riflessione sulla transitorietà e sul timore della perdita: ancora l’etica della testimonianza per cui è necessario «l’efficace/ pungiglione della memoria/ a cui ricorriamo per paura» (Nel volto degli oggetti, p. 72, vv. 4-6).
Intermezzo è la cerniera gnomica tra i due atti risonanti del libro; pensiero focale de Il centro del mondo, la trasformazione e il panico per la scomparsa di ciò che diviene:
(a Cosimo)
Esistiamo perché mutiamo. Il corpo
si trasforma con il tempo, così la voce
e l’odore che tutto dice. Conserviamo
poco, diamo segno di noi
nel pensiero che si evolve, nelle azioni
che si alternano, confondendo
i colori che la pelle mostra, variando i suoni
che all’istante diventano parole.
Se c’è una storia da ricomporre
(pezzo a pezzo) è nel modificarsi
delle orme che tracciamo. Così,
solo le cose ferme ci ricordano
dove siamo già esistiti,
anche se il vento cerca di mutarne le sembianze
con la polvere che accumula
in forme disadorne.
Continuiamo a dirci vivi
ostinandoci a non apparire uguali
e questo morire eternamente
è il volto stesso che la vita ci consente.
(p. 79).
Natura domestica, sezione di un nuovo ciclo, sposta le referenze di Le stanze nascoste dalle persone alle nature morte, alle piante, agli oggetti, in cerca di una nuova scansione del mondo da una prospettiva ulteriormente mutata – come se il ciclo riavviasse il suo avvicinamento allo stesso mondo da distanze che, seppure ravvicinate, attendessero l’aderenza al contesto, un diverso respiro. Si susseguono i dialoghi improbabili – ma effettivi per l’occhio che ne medita le potenzialità di contatto future – con gli oggetti di una resistenza, correlativi di una speranza di ritorno al movimento, della tensione non nostalgica, ancora una volta, al movimento e all’alterazione.
Fiore senz’acqua
Ti regalo un fiore
senza strapparlo alla terra
né chiuderlo in un vaso.
Un fiore di ferro che duri
al tempo, con petali inossidabili,
foglie immobili e variopinte
rughe intersecate sullo stelo.
Ma annaffialo dal rubinetto
costruito al centro perché
la ruggine rinnovi sulla pelle
e mutando i colori ricordi
che tornerà settembre.
(p. 85).
L’oscillazione tra l’effimero stato di quiete e il movimento ondivago di tutto l’esistente conduce al desiderio di una permanenza, la tregua negli oggetti, in questo caso correlativi o epifanie d’eterno (ancora interruzione del flusso in potenza, ottativa). Emerge il legame indissolubile della poesia di Cipriano con i grandi modelli novecenteschi, soprattutto la matrice montaliana è evidente e, forse, rischia un’esposizione alla reiterazione eccessiva degli stilemi assimilati come necessari (gli stessi correlativi). L’originalità emotiva è, in questi casi, strozzata da una simbologia tutt’altro che dirompente (la sezione Lampioni, in questa lettura, è la più fragile della raccolta):
Potrebbero esistere eterne
col fascino consumato del tempo
le luci arancioni sulle strade,
silenziose candele artificiali
che resistono all’alba.
Le guardo intenerito
ogni sera, quasi attendessi
una parola, in un sussurro
la rivelazione della notte.
(p. 98).
C’è il buio tra partenza
e arrivo, il nero privo
delle luci. Un vuoto
da colmare col pensiero
in cui disegno una candela,
così chiudo la notte
nella cera e il freddo
ne custodisce la forma.
(p. 102).
L’ultima sezione, A margine, oltre ad esserne il congedo, possiede la funzione riepilogativa dell’intero percorso. I tre movimenti da cui è composta (Scirocco, La città, La campagna) sono le stazioni del «microcosmo stellare/ tra luci alari e lampioni elementari/ che nemmeno la memoria consumata può disfare» (La città, p. 117, vv. 5-7), costruito da Cipriano nel tentativo di rinnovamento del mondo attraverso la parola poetica. Il centro del mondo si chiude con questa speranza di rigenerazione affidata alla potenza della nominazione («un nuovo mondo,/ una nuova esistenza per ogni parola pronunciata», La campagna, 4, p. 122, vv. 9-10), sulla possibilità di senso affidata allo sforzo – quasi il sacrificio – di rivivificare il «tutto […] disteso e senza confini» (Ibid., 5. finale, p. 123, v. 8) nel movimento, laddove la mutazione (“il centro del mondo” è un assoluto nella visuale parziale di ognuno di noi) non ha «un confine netto», appunto, «tra vivere e sperare» (Ibid., p. 123, vv. 15-16).
Gianluca D’Andrea
(Settembre 2014)