
Manlio Cancogni (2013)
di Daniele Greco
MANLIO CANCOGNI (1916-2015)
Una carriera lunghissima, una sterminata produzione narrativa e giornalistica, durata oltre settant’anni, che si è conclusa il 1 settembre 2015 a 99 anni.
Un ricordo di Manlio Cancogni attraverso la rilettura del suo primo romanzo, Una parigina (Feltrinelli, 1960) che cela molti motivi delle sue opere più mature e un piccolo segreto: un’amicizia letteraria finora sconosciuta.
Quando nel 1960 pubblica il suo primo romanzo, Una parigina, Manlio Cancogni è uno dei giornalisti italiani più apprezzati del suo tempo. Vive a Parigi, è corrispondente per «L’Europeo» e per «L’Espresso» (diretto da Arrigo Benedetti) e ha già pubblicato dei racconti tra i quali spicca Cos’è l’amicizia (Feltrinelli, 1958). Nel 1955 con Benedetti firma l’inchiesta sugli immobiliaristi romani, con un titolo destinato a fare la storia del giornalismo italiano: Capitale corrotta=Nazione infetta («L’Espresso», 11 dicembre 1955).
Da dove trae alimento il suo primo romanzo è presto detto: Una parigina racconta l’educazione sentimentale di Anna, una studentessa versiliese che sul treno per Parigi incontra Marcella – futura collega di studi – la quale cercherà di introdurla allo sfrenato e disinibito libertinaggio di un gruppo di amici. Tra questi spiccano Arrigo, detto il Cunca, e il protagonista maschile del romanzo, un nottambulo bohémienne che vive dalle parti di Saint Germain, tiranneggia le sue amanti, frequenta assiduamente il Cafè Deux Magots, ma in realtà è un giovane molto fragile che si chiama Salvato Piazza.
Quanti conoscono Cancogni sanno che alcune sue opere sono veri e propri “romanzi a chiave”, che celano personaggi realmente esistiti o suoi veri e propri amici. È il caso di Carlo Cassola, presente in «Azorin e Mirò» (uno dei racconti di Che cos’è l’amicizia), di Piero Gobetti in La gioventù (Rizzoli, 1981) e di Zdenek Zeman in Il mister (Fazi, 2000).
Salvato Piazza è stato modellato, infatti, su qualcuno che Cancogni, in quegli anni a Parigi, conosceva molto bene. Si tratta di un aspirante e impaziente scrittore, neanche quarantenne, originario di Presicce, in provincia di Lecce, che da poco muoveva i primi passi nel mondo del giornalismo e dell’editoria e – come mi rivelò al telefono lo stesso Cancogni nel 2011 – chiese con insistenza di essere assunto a «L’Espresso». Si tratta di Salvatore Bruno, l’autore del romanzo L’allenatore, del quale si è già parlato su (qui).
Ecco come Cancogni descrive Salvato:
«Occuparsi di se stesso, solo di stesso: ecco il suo male! Non gli riusciva mai di abbandonarsi con gioia e libertà. Il bisogno di affermarsi, che è un carattere della prima gioventù, lo divorava. Salvato lo capiva, s’arrabbiava con se stesso, e s’arrabbiava per essersi arrabbiato. (…) Assurdo bisogno di stare sempre avanti! A che scopo? Per dir cosa? Le ambizioni di Salvato erano illimitate, ma, come spesso accade, imprecise. Voleva essere tutto: il più bello, il più amato, il più bravo, il più ricco, il più forte; ma senza rinunciare al privilegio di sentirsi il più infelice fra gli uomini, e di accusare il destino. (…)
Salvato accusava della sua inesistente sfortuna la famiglia, il suo paese. Il padre, un piccolo agricoltore del mezzogiorno, alle prese quotidianamente con le difficoltà economiche e le rivalità paesane, non immaginava nemmeno la tristezza che s’accumulava nell’animo del figlio. (…)
Salvato non tornava volentieri a casa, odiava il suo paese, cui attribuiva la prima colpa delle sue sventure immaginarie.
Da ragazzo, quando l’avevano mandato a studiare a Bologna, Salvato s’era stupidamente vergognato della sua origine, e senza un reale motivo aveva chiesto di cambiare università. Era andato a Firenze. (Siccome Bologna è lungo la linea ferroviaria che sale direttamente dalle Puglie in Alta Italia, Salvato ci si sentiva come un soldato in avanscoperta; a Firenze, invece, con gli Appennini di mezzo, gli pareva d’essere più protetto» (pp, 105-107).
Come si evince da questo stralcio e dalle confidenze che mi fece anche l’ultima compagna di Bruno (la quale conosceva l’esistenza di questo romanzo, ma non ne ricordava il titolo) Salvato Piazza e Salvatore Bruno hanno molti tratti in comune, che confermano la profonda conoscenza che Cancogni aveva del suo collega, a tal punto da ritrarlo in maniera indelebile in quest’opera. Ad ulteriore riprova di questa amicizia, esiste anche una cartolina del 1958, firmata affettuosamente “Totò e Manley”, diretta a Romano Bilenchi, che oggi è conservata a Pavia tra le carte del Fondo Bilenchi.
Sul finire degli anni cinquanta e l’inizio dei sessanta, Bruno e Cancogni vivono per lunghi periodi a Parigi e, in più di una circostanza, scrivono dei pezzi taglienti in cui criticano in modo acuto la supponenza francese e il complesso d’inferiorità degli italiani verso i transalpini. Bruno definirà la Francia un «Paese di maestri elementari»; mentre Cancogni, a proposito di Jules e Jim di Truffaut, scriverà un articolo implacabile dal titolo «Tradimenti senza passione».
Una parigina – presente anche tra i libri della biblioteca di Bruno – nasce, pur con le dovute riserve che si devono a un’opera di finzione, dall’ironica perfidia del letterato Cancogni, che crea un antieroe privo di spontaneità, un nevrastenico, capriccioso e pieno di una parossistica smania di affermazione professionale e sentimentale: i tratti caratteriali che in tanti hanno sempre riconosciuto a Salvatore Bruno.
Tuttavia la loro amicizia s’interrompe alla metà esatta degli anni sessanta per almeno due ragioni. La prima, riconducibile a un episodio contenuto nella biografia intellettuale di Cancogni, Matelda. Racconto di un amore (Fazi, 1998), in cui l’autore ricorda un pranzo a Roma, da Cesaretto nel 1964 (in occasione dello spareggio scudetto tra Inter e Bologna), in compagnia di Bruno, Elio Pagliarani e Lamberto Pignotti, con i quali ebbe una discussione sulle proprie preferenze letterarie: Cancogni era decisamente lontano dalle idee e dal furore avanguardistico dei suoi interlocutori, già da allora membri del Gruppo ‘63. E a poco valse, a quel tavolo, la presenza di Bruno che non prese in alcun modo le difese di Cancogni:
«Con me c’era, ho detto, Salvatore Bruno, scrittore, giornalista, uomo intelligentissimo di umori aspri e violenti. Credevo di averlo alleato non foss’altro per ragioni di età e per il comune amore per il calcio. Ridacchiava. Il jeu de massacre ai danni del vecchio establishment non gli dispiaceva. Brutto segno. Del resto lo sappiamo: le rivoluzioni (e la neoavanguardia del ’63 pretendeva di farne una) vincono (in apparenza) non per virtù dei rivoluzionari ma per lo scetticismo, la debolezza e l’acquiescenza dei membri dell’ancien régime. E magari per le rivalità e i rancori che li dividono» (pp. 72-73).
La seconda ragione, invece, riguarda le fasi finali del Premio Strega del 1965 quando, dopo un testa a testa tra La macchina mondiale di Volponi e La linea del Tomori di Cancogni – alla prima votazione Cancogni era in netto vantaggio – la vittoria di Volponi determinò la fine di alcune amicizie, tra le quali quella con Bruno, il quale, sebbene non sia stato mai tra i giurati dello Strega, non si spese in alcun modo per il suo amico di un tempo.
Tra i libri meno letti e conosciuti di Cancogni, Una parigina è oggi un testo paradigmatico e da riscoprire perché anticipa al 1960 molti temi e motivi delle opere successive dell’autore versiliese, quali la costante e tenace ricerca di autenticità nei rapporti umani, la fuga da ogni conformismo – intellettuale e sentimentale –, infine, la predilezione per uno stile chiaro, conciso e cristallino, lontano da qualsiasi arabesco sperimentalista, che lo avrebbe reso un narratore sempre molto amato da suoi lettori.
Il legame che tiene uniti in modo rocambolesco Anna, Salvato, Marcella, Cunca e un insospettabile outsider non è soltanto una “satira di un certo ambiente liberal del tempo” (cfr. Jole Fiorillo Magri, Invito alla lettura di Manlio Cancogni, Mursia, 1986) perché tratteggia i miti, i sogni, le fantasie dell’immaginario giovanile dell’epoca e racconta in maniera universale – come è riportato, in modo efficace, nel segnalibro allegato alla prima edizione Feltrinelli – l’eterno dissidio che esiste tra “l’incanto e il rimpianto della bella gioventù” e “l’aspro impegno a denunciare l’aridità, la fondamentale carenza d’amore del secolo”.
Secondo questa chiave di lettura, il personaggio di Anna, antipode in tutto e per tutto all’irregolare e scapestrato Salvato, è un vero e proprio alter ego femminile di Cancogni, il quale crea un’eroina testarda, caparbia, autarchica e intransigente, capace di non lasciarsi condizionare in alcun modo dalla sfrenata vita parigina che le procurava una vera e propria insofferenza. Anna è una “parigina” suo malgrado, che riesce solo alla fine delle sue peripezie a tornare a Fiumetto, in Versilia, tracciando in modo inconsapevole la parabola del suo autore: quella di chi, dopo avere girato per il mondo da Parigi a Roma, da Milano a New York, alla fine è tornato a quel nucleo di storie e emozioni uniche e irripetibili del teatro naturale della propria infanzia. Il buen retiro in cui, nonostante le gioie e i lutti di un’esistenza lunghissima, Cancogni ha potuto vivere per molti anni in compagnia dell’amata moglie Rori tra il mar Tirreno, da un lato, e le alpi Apuane, dall’altro, e dove adesso riposerà per sempre.
Manlio Cancogni. Giornalista e scrittore (Bologna 1916 – Marina di Pietrasanta 2015). Collaboratore di giornali e periodici (fra cui L’Europeo, Il Mondo, L’Espresso), soprattutto con servizî e inchieste sulle condizioni politico-sociali e sul costume di varî paesi, a cominciare dall’Italia, è stato direttore, per alcuni anni a partire dal 1967, de La fiera letteraria.
OPERE:
Ha pubblicato varî racconti e romanzi in cui a un caustico spirito d’osservazione e a un vivo senso del “documento” si accompagna una sottile vena lirico-elegiaca: La carriera di Pimlico, 1956; L’odontotecnico, 1957; Una parigina, 1960; Parlami, dimmi qualcosa, 1962; La linea del Tomori, 1965; Azorin e Miró, 1968; Il ritorno, 1971; L’amore lungo, 1976; Il latte del poeta, 1977; Perfidi inganni, 1978; Nostra Signora della Speranza, 1980; La coincidenza, 1984; Quella strana felicità, 1985; Il genio e il niente, 1987. Con lo pseudonimo di Giuseppe Tugnoli ha pubblicato Adua (1977) e Al sole di settembre (1980). La successiva produzione di C. ha continuato ad essere caratterizzata dal suo sguardo documentaristico e puntuale sulla realtà descritta, ma lo stile giornalistico e asciutto è arricchito da un orientamento più intimista e riflessivo: di questa produzione, i titoli più recenti sono L’impero degli odori (2001); Gli scervellati. La seconda guerra mondiale nei ricordi di uno di loro (2003); Sposi a Manhattan (2005); Caro Tonino (2006); L’ultimo viaggio di Mussolini (2008), raccolta di articoli scritti da C. per L’Espresso nel 1957; La sorpresa. Racconti 1936-1993 (2009); La cugina di Londra (2011); Toro delle meraviglie (2012); Così parlò Carpendras (2013); Tutto mi è piaciuto (2013); il testo autobiografico Il racconto più lungo (2014).
(Fonte: Enciclopedia Treccani).
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