Le narrazioni (a cura di Daniele Greco) – Marco Belpoliti, “Primo Levi di fronte e di profilo”, Guanda, 2015

belpoliti

Marco Belpoliti

di Daniele Greco

Leggendo Primo Levi di fronte e di profilo
(Marco Belpoliti, Guanda, 2015)

Primo Levi di fronte e di profilo_Sovra.indd

 

«Primo Levi si è sempre opposto a chi leggeva le sue opere testimoniali, in particolare Se questo è un uomo, come opere letterarie: non è un romanzo, ripeteva. Ma al tempo stesso voleva essere uno scrittore, sapeva di esserlo» (p. 355).
Al centro esatto di quest’ultimo lavoro di Marco Belpoliti, Primo Levi di fronte e di profilo (Guanda, 2015), si trova una considerazione decisiva per provare a guardare in modo corretto all’opera di uno degli scrittori che più di altri ha fatto comprendere il Novecento dei conflitti e di quell’abominevole esperimento che sono stato i lager nazisti.
Nelle oltre 700 pagine di cui si compone il libro, Belpoliti traccia uno degli studi più ricchi e completi sulla vicenda intellettuale e biografica di Levi analizzando una mole imponente di documenti: romanzi, racconti, poesie, fotografie, recensioni, bibliografie, interviste, letture, traduzioni, saggi, spogli lessicali delle singole opere.
Il ritratto che ne esce è quello del “poliedro-Levi” (p. 16), cui Belpoliti si dedica da decenni, rielaborando e riscrivendo molti dei suoi testi per consegnare, più che un saggio tradizionale, “un dizionario, un’enciclopedia (…), un’«opera aperta»” (p. 16) che il lettore può leggere liberamente.
Colui che nel 1948 pubblica con De Silva Se questo è un uomo, dopo l’iniziale rifiuto di Einaudi – l’editore che in quegli anni inseguiva la forma del romanzo – è un uomo della borghesia torinese, di ottime letture, che si è laureato in chimica nel 1941 e nel 1944 è stato deportato ad Auschwitz.
Il suo esordio – afferma Belpoliti – è scritto “in una lingua straniera” (p. 119), che eccede il mero valore testimoniale e sentimentale, di molti altri testi coevi sulla shoah, e rigetta i temi dell’innocenza o della colpa delle vittime, del sacrificio o della loro sacralità (p. 121). Lo sguardo di Levi è fin da quel momento quello dell’ “etologo”, dell’entomologo (p. 123), dello scienziato che scruta come l’animale-uomo abbia potuto concepire e realizzare la deportazione di milioni di suoi simili nei campi di concentramento.
Non è un caso, pertanto, se dopo la conclusione del dittico della guerra, avvenuto nel 1963 con La tregua, alcuni critici e lettori si sono sorpresi della scelta di Levi di pubblicare dei brevi racconti di argomento scientifico e fantascientifico. Storie naturali (firmato con lo pseudonimo di Damiano Malabaila), Vizio di forma, Il sistema periodico segnano un passaggio decisivo nella produzione di Levi, il quale vuole fare emergere le sue doti di scrittore e pensatore onnivoro, di chimico prestato alla letteratura o di scrittore prestato alla chimica.
L’elaborazione del proprio sistema intellettuale, la cui griglia interpretativa lo avrebbe portato a concepire uno dei libri più importanti per capire a fondo il XX secolo, I sommersi e i salvati (Einaudi, 1986), passa attraverso queste prose.
La ricerca di una “congiungente, un meticciato fra le mie due attività (di chimico e di scrittore)” (p. 253) è finalizzata a pubblicare, ne Il sistema periodico, dei racconti che hanno come titolo il nome degli elementi della tavola di Mendeleev e il cui pretesto della chimica, che è il linguaggio della materia, serve a indagare, attraverso la letteratura, qual è il linguaggio della vita.
Ecco come una rilettura de I sommersi e i salvati alla luce dell’intera produzione di Levi e del libro di Belpoliti consentono di cogliere come Levi soppesi, misuri, analizzi al microscopio la natura umana, tra l’aspetto emerso – razionale, sociale e umano – e il fondo sommerso – cieco, irrazionale e animalesco – che sono sempre inestricabili. Colui che si è sempre percepito autore ibrido, un centauro della letteratura, che ha cercato di riunire nei suoi lavori queste due sfere d’interesse, ha lasciato in eredità un modo nuovo di guardare alla realtà che è il cuore del libro di Belpoliti.
Quale migliore lascito dell’opera leviana, segnaliamo nel libro la sezione intitolata “Lemmi” in cui, alla fine di ciascun capitolo, si analizzano le parole-chiave dell’alfabeto leviano (Lager, Tedeschi, Treno, Fantascienza, Ibrido, Animali, Antisemitismo, Chiaro/oscuro, Zona grigia, Memoria, Suicidio…).
I “lemmi” sono la tavola periodica di Levi, ricostruita da Belpoliti, la mappa sulla quale inseguire la multiforme attività di un protagonista del Novecento al quale restituire la centralità che merita, quella di essere stato uno scrittore completo e di prima grandezza e troppo a lungo considerato solo un “testimone”.

Le narrazioni (a cura di Daniele Greco) – Giuseppe Goisis, “Le cento care. Variazioni nel tema”, Musicaos, 2015

giuseppe-goisis-__-e1446059286183

Giuseppe Goisis

di Daniele Greco

I racconti di Giuseppe Goisis

giuseppe-goisis-le-cento-care-variazioni-nel-tema-musicaos-editoreGiuseppe Goisis, bergamasco di Verdello, è attore, registra teatrale, direttore artistico della “Compagnia Brincadera”, scrittore, ed ha pubblicato da poco la raccolta di racconti Le cento care. Variazioni nel tema, Musicaos editore, settembre 2015. Prima del suo ultimo lavoro aveva già all’attivo due romanzi e una raccolta di racconti con case editrici quali Pequod, Baldini e Castoldi, Greco & Greco, oltre a svariate prose pubblicate in volume.
L’approdo alla Musicaos editore, la casa editrice fondata e diretta dallo scrittore, critico e poeta Luciano Pagano, testimonia la prosecuzione del suo percorso di operatore culturale, che vuole indagare anche con la scrittura narrativa le vite irrisolte, le inquietudini personali e gli enigmi di quel teatro cangiante e multiforme che è la vita quotidiana.
Tra le storie di cui si compone il libro, c’è quella dell’ex carcerato che cerca lavoro, lo trova in una compagnia teatrale e in tournée, come tecnico, tra la Norvegia e l’India, scopre che l’arte non coincide per niente con l’idea astratta di fantasia e creatività, ma semmai con la “possibilità di scoprire ciò che già c’è negli essere umani” (Uccelli di terre straniere, p. 14).
Al polo opposto, rispetto a questa emersione alla luce, c’è il nascondimento, la maschera, cui lavora la protagonista del secondo racconto (Makeup52), una truccatrice professionista, ingaggiata da un’associazione benefica, che deve insegnare ai propri pazienti a celare l’avanzata del male, attraverso la cosmesi.
Ancora sotto la cifra del nascondimento è la vicenda di Rosario – forse il racconto più bello e denso – in cui morte e vita legano le vicende di due amici. Giosuè, che perde il padre investito da un’auto, di notte, proprio fuori dal bar nel quale era solito recarsi ogni sera Tobia (un ludopatico con problemi di alcolismo, amico di Giosuè), il quale dei suoi rientri sbronzo a casa non ricordava mai nulla.
In poche pagine Goisis scrive un testo in cui il mistero per la morte del padre di Giosuè resta solo sullo sfondo e, al suo posto, prevale l’inesorabile procedere della vita, con tutti i suoi fraintendimenti, gli ostacoli – come nelle pagine grottesche della tumulazione del feretro – e quel dramma degli equivoci, che rende palese l’intima lontananza dei due amici.
In Matrioska, invece, domina la cifra kafkiana dell’assurdo e del grottesco che vede una famiglia benestante perdere possesso della propria dimora per non avere saputo opporsi alle macchinazioni della governante e a dei misteriosi furti in casa. La sconfitta della razionalità e della logica avviene a vantaggio della potenza malefica del caso, che condurrà i padroni della villa a vivere in una tenda da campeggio nel giardino della propria casa.
L’ultimo racconto, prima del testo teatrale finale, è ambientato in un Sudamerica sanguinario in cui i piani della vita e della morte si confondono nel Remanso – una grande discarica di vivi e morti – in cui lavora Maria, colei che mettendo in ordine quello che resta di cadaveri, scheletri e resti umani, ricorda le atmosfere del Pedro Paramo di Juan Rulfo.
Dalla Norvegia a una corsia di ospedale, dalla bassa bergamasca al sudamerica, fino al palco da cui la parola promana sempre uguale e sempre diversa, i luoghi in cui Goisis ambienta i propri racconti costituiscono senza dubbio la sua geografia interiore di artista e uomo di teatro: quel paesaggio fatto di uomini e storie dalle quali trarre il momento subliminale, lirico, evocativo, ma anche assurdo e grottesco, che possa avere il valore di una testimonianza universale.
In questo senso è esemplare l’ultimo brano della raccolta, Eroi, che è anche un testo teatrale della Compagnia Brincadera, e che vale come la dichiarazione di poetica del suo autore. Il mondo, sembra dirci Goisis, assomiglia a tutti questi “eroi” che nel corpo a corpo quotidiano con le proprie contraddizioni diventano emblematici del modo in cui ciascuno, nella propria vita, dovrebbe accogliere il caso, custodire gli imprevisti ed essere indulgente verso i propri errori. A ben vedere – ma forse ce ne dimentichiamo troppo spesso – tutti tratti che dovrebbero accomunarci, delineando il ritratto di cosa significhi restare umani.

Le narrazioni (a cura di Daniele Greco) – Gilda Policastro, “Cella”, Marsilio, 2015

gilda_policastro

Gilda Policastro (Foto di Dino Ignani)

di Daniele Greco

Leggendo Cella di Gilda Policastro
(Marsilio, 2015 – 174 pp., € 17)

cellaNelle pagine di questo breve romanzo abita una voce femminile – quella della protagonista – che, poco alla volta, sotto forma di un monologo articolato in cinque capitoli, conduce nel gorgo in cui è caduta la sua vita.
Il mondo della protagonista è un vicolo cieco che emerge poco alla volta, perché se all’inizio sembra solo quello della donna sedotta e abbandonata da Giovanni – uomo politico e medico –, più avanti diventa quello di una donna la cui marginalità è assoluta, estromessa com’è non solo dalla vita privata e pubblica del suo uomo, ma anche da quella della figlia.
«Cella. Dario e Elena mi chiamano così, l’ho scoperto origliando. Rimangono chiusi in camera per ore, busso giusto per segnalare che vado in giardino, rispondano al telefono, se squilla. Perché mi chiamano Cella, chiedo al cane. Forse perché sto chiusa in casa, perché non vado al di là del cancello, tranne che per la spesa, le necessità. O forse perché amo un uomo che in cella, in effetti, dovrebbe finirci, anche se nessuno ha ancora trovato il modo. La colpa non coincide con la punizione quasi mai. Sarebbe bello se la sofferenza avesse quel risarcimento. Lui mi ha lasciata e ora paga. Invece a rimanere dentro, sconfitta, sono io. Cella» (p. 82).
Colei che era stata l’amante di Giovanni – da questo legame era nata Elena – è la donna che inizia il suo memoriale, anni dopo, riportando alla luce “il mondo di prima”, quello antecedente la nascita della figlia, e in cui la storia furtiva con l’uomo – che aveva già una moglie e un figlio, Dario – credeva potesse condurre da qualche parte.
Che Giovanni sia il prototipo dell’uomo che esercita il suo potere di fedifrago e pervertito attraverso il possesso, l’umiliazione e l’abbandono, è un dato di fatto. Meno evidente è, invece, la scoperta che custodisse il segreto di avere curato anni prima una terrorista e per questo fosse dovuto fuggire, facendo perdere le tracce di sé.
Ignorando la reale natura del suo uomo e il legame che la terrà legata a filo doppio anche al figlio di costui, Dario, il resoconto di Cella rivela quanto la donna si fosse allontanata dalla vita vera, inseguendo le false rappresentazioni della stessa.
Lo snodo di questo monologo è nella parte centrale del romanzo, quando il memoriale di Cella si colloca al tempo in cui nella sua casa entra Liliana Vigas, l’ex terrorista che Giovanni aveva curato anni prima. Prima di scomparire definitivamente, Liliana lascerà – chissà se volutamente o per sbaglio – un diario in casa di Cella. In queste pagine si leggono le confessioni di Lia, al tempo in cui la politica extraparlamentare e la lotta armata avevano rappresentato tutto quanto la vita significasse per lei. Il ritratto di Liliana diventa un doppio del dolore di Cella: lo specchio in cui guardare al proprio dolore e, forse, il momento a partire dal quale proprio la protagonista può cercare di rimettere ordine agli eventi della sua vita.
Policastro in esergo riproduce una frase di Roland Barthes – Tutto ciò che mi impedisce di abitare la mia tristezza, mi è insopportabile – che ritrae in maniera nitida il dolore della protagonista del romanzo. Toccherà al lettore nella ricostruzione di questo magma di sensazioni e emozioni fare proprie le parole universali di Cella e trasformare il dolore in conoscenza.

Le narrazioni (a cura di Daniele Greco) – “Un ritratto di Frank Bascombe ”

richard-ford-cropped

Richard Ford

di Daniele Greco

Un ritratto di Frank Bascombe
Il protagonista della nota serie dei romanzi di Richard Ford

Immaginate un aspirante scrittore diventato, suo malgrado, cronista sportivo; un uomo sposato e con tre figli, che si separa dalla moglie dopo la morte del primogenito, Ralph. Trasformatelo in colui che decide di acquistare la casa della ex, diventando accidentalmente un agente immobiliare della costa del New Jersey (almeno finché un uragano non spazzerà via gran parte di quei luoghi). Avrete un individuo all’apparenza privo di alcuna particolarità: ordinario, normale, con una vita che procede all’insegna di una parziale rassegnazione. Un nostro simile, quindi, la cui esistenza dominata dal caso ha preso una direzione imprevedibile. Rendete un simile tipo umano il personaggio principale di quattro romanzi straordinari e otterrete il Frank Bascombe di Sportswriter (1992), Il giorno dell’indipendenza (1996), Lo stato delle cose (2006) e Tutto potrebbe andare molto peggio (2015), pubblicati da Feltrinelli.
Dopo Sportswriter, in cui Bascombe racconta come abbia abbandonato le proprie velleità letterarie per ripiegare su una carriera da giornalista sportivo, Il giorno dell’indipendenza (da adesso, GDI) conduce in una fase della vita che egli chiama il Periodo di Esistenza:
«La parte che viene dopo la grande lotta che ha portato alla grande esplosione, il tempo della vita in cui qualunque cosa ci influenzerà “in seguito”, ci influenza realmente, un periodo in cui avanziamo più o meno autonomi e felici, anche se possiamo scegliere di non parlarne o di non ricordarlo in seguito» (GDI, p. 105).
Le vicende che occupano i giorni precedenti l’indipendence day 1988, mostrano come Bascombe voglia ridefinire i rapporti coi propri figli, con la compagna Sally, con la ex moglie, col suo nuovo mestiere di agente immobiliare e con il lutto, sempre presente, del figlio Ralph. Qualcosa però non va, perché la sua buona fede, frammista a una eccessiva indolenza, lo portano a vivere delle avventure drammatiche che lasciano irrisolti i nodi cruciali della sua vita. Anzi, come nel caso del ferimento del figlio Paul, lo mettono sotto una cattiva luce proprio davanti alla ex moglie: un episodio decisivo che sancisce l’inettitudine di Frank e lo porta dal Periodo di Esistenza al Periodo di Permanenza.
La scrittura di Ford è piana, asciutta, intrisa di un realismo che offre uno sguardo lucido e profondo, ma anche disperato, e si realizza per mezzo di numerosi anticlimax, che trasformano un sassolino in una frana ed esemplificano i fallimenti e le sconfitte dei suoi personaggi. Quello che preme a Ford non è rimettere in ordine le tessere di queste vite mancate, ma mostrare in modo quanto più autentico possibile la cecità cognitiva del personaggio Bascombe che, nel vagolare tra le gesta passate e presenti, si avvede delle sue manchevolezze solo dopo che gli eventi lo hanno sommerso.
Ne Lo stato delle cose (SDC) è il 2002. Bascombe è ormai consapevole di dare di sé l’immagine cristallizzata di qualcuno la cui vita non ha più niente da dire e in cui domina un atteggiamento da sconfitto (Periodo di Permanenza). Egli ha una nuova compagna (Sally), è stato operato per un tumore alla prostata, si occupa di volontariato e ha scelto di rinunciare a cercare nel passato la propria innocenza perduta.
«A volte pensiamo che per poter andare avanti nella vita dobbiamo prima sistemare tutto il passato (…). Ma non è vero. Non arriveremo mai da nessuna parte, se fosse così» (SDC, p. 121).
Anche in questo caso, però, le ore che precedono il giorno del Ringraziamento, trasformano l’ordinarietà della vita di Bascombe in una tempesta emotiva.
L’incontro con l’ex moglie (Ann) non è senza conseguenze, così come non lo è la notizia che Sally ha ritrovato il suo primo marito – lo credeva disperso – il quale va a vivere per qualche tempo sotto il tetto di Bascombe.
Il colpo finale, però, arriva nelle pagine forse più belle dell’intera tetralogia di Ford, quando Bascombe, ubriaco ai tavoli di un bar, legge un opuscolo per agenti immobiliari in cui si celebrava il collega Chick Frantal (che aveva superato la morte del figlio ed era tornato a vendere ancora più immobili di prima). Questo episodio porta Frank a pensare al proprio figlio Ralph in un modo nuovo, rimettendo in discussione ogni cosa di sé.
«Tutti questi anni e strategie impegnati ad adattarmi, ad affrontare il mondo, a conviverci, a patteggiare con lui per poterci star bene – la mia svagatezza dopo il divorzio, il lungo periodo iniziale della mezza età, la nostalgia, il mio essere un variabilista, lo stesso Periodo Permanente –, adesso non mi sembrano più forme di accettazione, come credevo prima, ma forme di timorosa non accettazione, le mie maschere del riso e del pianto che indosso per negare il fatto che, come il povero Chick Frantal, anche mio figlio non ci sarà mai più in questa vita che tutti noi arriviamo a conoscere fin troppo bene» (SDC, pp. 399-400).
L’autoinganno di Bascombe era stato guardare erroneamente alla morte del figlio come al filo rosso tra i pezzi della sua vita, e non piuttosto al filo da spezzare per superare il lutto e accettarsi per quello che era sempre stato:
«Un venditore di case usate e un reietto, niente di più. È sconvolgente osservare quanto viviamo vicini a certe sgradevoli intuizioni su noi stessi, e pure quanto la nostra continua ignoranza della realtà renda possibile tanta parte della vita” (SDC, p. 448).
Superata la tempesta emotiva, l’ultimo Bascombe di Tutto potrebbe andare molto peggio, si trova davanti alle conseguenze di una tempesta reale: l’uragano Sandy che nel 2012 ha distrutto molte località della costa del New Jersey.
Ford scrive quattro episodi in cui Bascombe si ritrova davanti il collega di un tempo, che lo porta a vedere le case distrutte dall’uragano; una donna che un tempo abitava nella casa in cui adesso vive Frank; Ann, l’ex moglie, che si è ammalata di Parkinson; infine, un vecchio amico che, prossimo a morire, contatta Frank solo per togliersi dalla coscienza il rimorso di non avergli mai detto di essere andato a letto con Ann. Tutti episodi che un tempo avrebbero minato le fondamenta della vita di Bascombe, ma che ora sembrano finalmente ridimensionati.
Senza sminuire l’ultimo volume che contiene delle pagine molto dense, si ritiene che la clausola migliore per il congedo da Bascombe sia da ricercare nel finale de Lo stato delle cose, che consegna l’eroe di Ford alla grande letteratura contemporanea.
Sono le ultime pagine, quelle in cui l’autore tramite il suo alter ego pronuncia la più cristallina dichiarazione di poetica per un uomo che ha attraversato un’esistenza ricchissima di accadimenti e, lungi, dal sentirsi un fallito, forse verrà ricordato proprio per averci fatto dono di uno dei più autentici e umani modi di stare al mondo:
«Ancora una volta mi sono sentito attirato fuori, con i pantaloni arrotolati ai ginocchi e una vecchia felpa verde, scalzo, fino a dove la sabbia zuppa e brillante mi risucchiava la pianta morbida dei piedi e l’acqua spumosa correva a cingermi le caviglie in una stretta. E ho pensato fra me e me, lì in piedi: questa è la necessità. Questa è la battuta in più: vivere, vivere, vivere fino in fondo» (SDC p. 548).

Ford Book

Le narrazioni (a cura di Daniele Greco) – “La miracolosa follia di Omar Sivori”

omar-sivori

Omar Sivori

di Daniele Greco

“La miracolosa follia di Omar Sivori”

Un ricordo del fuoriclasse italo-argentino al quale è dedicato il romanzo di Salvatore Bruno L’allenatore (Vallecchi, 1963) e che il 2 ottobre del 2015 avrebbe compiuto 80 anni.

Tra le dediche più singolari a un romanzo italiano del ‘900, quella di Salvatore Bruno a Omar Sivori ne L’allenatore acquista un particolare valore proprio a ridosso di quello che sarebbe stato l’ottantesimo compleanno del campione di Juventus e Napoli. In una rarissima intervista rilasciata da Bruno a un periodico – il settimanale «Successo» – l’autore del romanzo rispose come segue a chi gli chiedeva perché avesse deciso di dedicare il libro proprio a Omar Sivori:
«Perché mi è piaciuta l’idea, ma anche perché con quella dedica ho sperato di suggerire al lettore un’accettabile interpretazione del nucleo più significativo sul quale ho cercato (preteso) di accentrare la “storia” del mio libro. Ne L’Allenatore io tento di definire, nella loro realtà più ambigua e complessa, alcuni dei miti della società contemporanea e le condizioni d’un uomo alle prese con questi miti: tra i quali indubbiamente c’è anche il calcio. Ora io penso che Sivori sia il personaggio più emblematico del mito calcistico, che prende in modo così emotivo e più serio drammatico di quanto non si creda soprattutto quelli della mia generazione. Ma c’è di più. Nel mondo del calcio, Sivori è un campione eccezionale, nel senso che è una specie di sopravvissuto. Ha una personalità che lo fa essere un isolato, un solitario, quasi un Narciso per necessità: come il mio personaggio. In altre parole, c’è una sorta d’incapacità, d’impossibilità a uscire da sé, a liberarsi di se stesso che è comune sia al protagonista dell’Allenatore sia al carattere indipendente di Sivori e che spesso gli viene rimproverato come egocentrismo, egoismo. (…)»[1].
Oltre a dedicargli il romanzo, Bruno negli anni scrisse diversi articoli, firmati col proprio pseudonimo di giornalista sportivo (quello di Romano Salvadori) ispirati proprio alla grandezza del talento di San Nicolás. Il più bello tra questi fu pubblicato nel dicembre del 1961 sul mensile dell’Eni, «Il Gatto Selvatico», diretto allora dal poeta Attilio Bertolucci. Con questo si coglie l’occasione per ricordare un campione unico del calcio mondiale e anche un piccolo e curioso frammento della nostra recente storia letteraria.

Daniele Greco


dedica-sivori

La miracolosa follia di Omar Sivori[2]

La grandezza dell’oriundo ormai da cinque anni juventino sta nella sua capacità di rimanere libero e di dare nello stesso tempo un apporto entusiasmante alla riuscita del gioco: la sua freddezza, la sua eleganza, la sua felicità di realizzazione riescono a rendere le partite in cui egli è impegnato imprevedibili e appassionanti.
Quando nell’estate del ’57 arrivò a Torino da Buenos Aires ingaggiato dalla Juventus e si conobbe la cifra del suo ingaggio (centottanta milioni, allora cifra record) si levò un’ondata d’indignazione. «Centottanta milioni per un calciatore, è uno scandalo» scrissero molti giornali. I dirigenti juventini si trovarono davanti un ragazzetto piuttosto tondo tutt’altro che alto che ostentava una folta zazzera di capelli neri e si mordeva il labbro con denti radi. Si guardarono perplessi. Era quello il più grande attaccante del calcio argentino, il superasso che aveva fato spendere alla squadra tanti quattrini? Sembrava uno scugnizzo nella versione di un cineasta americano. «Ma ha poco più di ventun anno» cercò di giustificarsi Carletto Levi, un industriale torinese residente in Argentina che aveva combinato l’acquisto.

La negazione del gioco moderno

La prima volta che si presentò a Torino per un allenamento, Sivori fece tre piroette sulla palla e tirò il fiato. «È fuori allenamento» disse Carletto Levi, «poche settimane fa gli hanno tolto le tonsille». Cominciò il campionato, la Juventus vinse le prime partite ma di Sivori i tecnici scrissero: «È la negazione del calcio moderno impostato sulla collaborazione tattica e tecnica dei singoli. Non è un calciatore ma un saltimbanco, un giocoliere da circo e un gigione un narciso un egoista, vuol fare tutto da solo». Sivori gironzolava per le vie di Torino, scuro in viso e si mordeva sempre le labbra da scugnizzo. «Non riesce ad ambientarsi, soffre di nostalgia» diceva Carletto Levi «vedrete come cambierà ora che gli arriva la madre dall’Argentina». Arrivò la madre dall’Argentina, la Juventus continuò a vincere, era prima in classifica, ma tutti parlavano del classico Boniperti e dell’altro straniero della squadra, il gallese John Charles, un ex pugile alto un metro e novanta che i tecnici giudicavano «giocatore potente razionale essenziale funzionale altruistico». Di Sivori non parlava quasi nessuno. Era come se non fosse in campo, (toccava il pallone raramente) pareva un estraneo, un intruso capitato lì per sbaglio. Spesso sbadigliava.
«La faccenda ve la spiego io» disse un giorno Carletto Levi, «quello non si regge in piedi. Non vedete che casca per la stanchezza e il sonno?».
E spiegò che in Argentina Sivori era abituato a fare dell’atletica una volta la settimana e ad alzarsi a mezzogiorno. «Invece qui lo fate venire allo stadio la mattina prima delle dieci, concluse Carletto Levi, e gli fate fare atletica e ginnastica, atletica e ginnastica tutti i giorni…».
Sivori ottenne il permesso d’alzarsi tardi e di allenarsi a modo suo.
Fu allora che fece vedere per la prima volta il «boomerang» e un altro giochetto che i ragazzini sempre presenti sul campo chiamarono «dei mille colpi di seguito». Sivori sedeva per terra e, lanciato in alto il pallone, si metteva a colpirlo prima col piede destro poi con la fronte e poi col piede sinistro: continuava in quel modo per cinque-dieci minuti senza che il pallone toccasse mai terra. Sempre piede destro, fronte, piede sinistro, mentre i ragazzini (esaltati) gridavano: «È radiocomandato, guardate, è radiocomandato!». Per il giochetto del «boomerang» Sivori chiamava due dei soliti ragazzini che gli stavano sempre vicino ad ammirarlo e se li metteva qualche metro davanti uno a destra e l’altro a sinistra, poi dava un calcetto al pallone, un piccolo calcio morbido che sembrava una carezza col piede, e il pallone andava verso i ragazzini ma quando quelli stavano per prenderlo, toccarlo, cambiava improvvisamente direzione senza che nessuno lo toccasse, girava svolazzando intorno ad essi e come un boomerang tornava docilmente indietro a posarsi sul piede proteso di Sivori che attendeva.

Faccia da scugnizzo

Fu in Inghilterra, un mercoledì sera durante una partita amichevole di metà settimana, che a Sivori venne riconosciuta per la prima volta in Europa la qualifica di grande giocatore. Gli inglesi avevano gremito lo stadio di Leeds per ammirare e applaudire il loro idolo Charles: preparato grandi cartelli di saluto invocando il suo nome e chiamandolo «King John». Ma finirono coll’ammirare e coll’applaudire soprattutto il piccolo Sivori dalla faccia di scugnizzo che faceva ammattire gli avversari ridicolizzandoli e segnava gol impensati, mai visti su un campo di foot-ball del Regno Unito.
A un certo punto Sivori si avvicinò a una delle macchine da presa (la partita era trasmessa per tv) e fece un numero speciale, dedicato ai telespettatori. Attirò tre avversari davanti a sé: allungò il piede tre, quattro volte senza mai toccare nulla e dimenò le anche, sembrava un passo di mambo. Il pallone era sempre fermo al suo posto e gli avversari lo guardavano imbambolati, non si decidevano a muoversi. Quando toccò finalmente la palla, Sivori fece un mezzo giro su se stesso e, i tre avversari che aveva davanti restarono alle sue spalle, inchiodati per terra (li aveva «infilati» uno dopo l’altro in pochi attimi) mentre lui se ne andava danzando col pallone e faceva ciao con la mano alla telecamera. In Italia il «grande Sivori» scoperto dagl’inglesi si vide due settimane dopo contro il Milan a Milano. Quel giorno (era il 20 ottobre 1957) pioveva e il campo di San Siro era come una risaia. Acqua e fango bloccavano il pallone, i giocatori non riuscivano a smuoverlo da terra, sembrava di piombo. Finché non si vide Sivori alzare delicatamente la palla dal pantano (pareva che al posto del piede avesse un grosso cucchiaio) e farla volare spedita verso i compagni. Aveva inventato il sistema di far correre il pallone, di rendere più vivace e veloce il gioco. I più bravi delle due squadre cercarono subito d’imitarlo. Poi compì il suo capolavoro. Da terra (dov’era caduto supino) sollevò di nuovo la palla e, dopo averla tenuta incollata al piede, la mandò, la gamba sempre tesa, a posarsi in un angolo della porta dove non poteva fermarla nessuno. Fu quello l’unico gol della Juventus, il decisivo, che permise alla squadra bianconera d’uscire imbattuta dal campo di San Siro e di consolidare il primato in classifica fino alla conquista del suo decimo scudetto.

Fuori di ogni schema

Questa è solo la storia di come il grande Sivori argentino è diventato grande anche per noi italiani. Il resto lo sapete tutti, ormai è il calciatore più popolare della penisola, uno dei più popolari del mondo, goleador inimitabile ha vinto altri due scudetti con la squadra (in tutto tre in quattro stagioni), è diventato un punto di forza della nazionale azzurra segnando otto gol in sole cinque partite (uno a Bologna contro l’Irlanda del Nord, uno a Roma contro l’Inghilterra, due a Firenze contro la sua vecchia squadra l’Argentina, quattro a Torino contro Israele) e tutti sono concordi nel dire che lo sarà anche in Cile ai campionati del mondo della prossima primavera, ai quali (per la prima volta nel dopoguerra) l’Italia partecipa da protagonista.
In questi cinque anni che Sivori è stato da noi (e che si è maturato) molti, più volte hanno tentato di definirlo, tentando paragoni con altri assi del calcio mondiale, Pelé, Puskas, Suarez, cercano di stabilire se è «più grande» di loro o se non lo è affatto. E il tentativo è sempre fallito perché inutile, assurdo. Gli altri «grandi del calcio» rientrano sempre in uno schema: possono rappresentare il meglio dello schema; ma la loro personalità, anche se spiccatissima, è sempre condizionata dal meccanismo «sociale» della squadra, del calcio di squadra. Per tutti vale questa regola, ma non per Sivori. Che è il calciatore più singolare, unico, «anarchico», che abbia mai calcato i campi di foot-ball. L’azione, il gioco degli altri nasce (e poi lo perfezionano, lo illuminano con la loro classe) necessariamente dal gioco della squadra, non possono prescindere. Sivori invece sa creare gioco dal nulla, da se stesso; in un gioco sociale come il calcio egli sa fare (anzi preferisce fare), gioco assolutamente individuale: perciò è fuori d’ogni schema; questo, secondo molti, potrebbe essere il suo limite, specialmente ora che le partite di calcio diventano sempre più il risultato di temi corali preventivamente studiati, preparati.
Ma qui sta la grandezza di Sivori: riesce a rimanere «libero», a non «inserirsi» e dare nello stesso tempo un apporto positivo, anzi entusiasmante alla riuscita del gioco, dello spettacolo calcistico. Riesce soprattutto a esaltare la sua classe solo rovesciando gli schemi convenzionali del gioco.
Seguitelo, se vi è possibile, durante una sua tipica azione. A differenza degli altri calciatori, lui «cerca» gli avversari. Va incontro ad essi (all’opposto di come si deve fare nel calcio) per meglio orchestrare la sua azione: se ne serve, li strumenta. Sembra sempre, quando s’incunea in un nugolo di gambe «nemiche» che in area di rigore tentano d’ostacolarlo, che conservi il controllo del pallone per caso, per fortunati rimpalli sui piedi altrui: invece i piedi degli altri servono a Sivori da «sponda», vi butta contro il pallone apposta come se fossero cose passive al suo servizio, poi lo riprende e lo fa rimbalzare contro un altro piede «strumentato», tutto questo in pochi metri, a volte in poche decine di centimetri. E sempre con una freddezza, un’eleganza, una felicità di realizzazione impensabili. Davvero, se il calcio ci riempie ancora qualche ora della domenica, lo dobbiamo alla sua miracolosa follia.

Romano Salvadori


NOTE

[1] G.V. (molto probabilmente GIANCARLO VIGORELLI), L’immagine di un Narciso moderno, «Successo»novembre 1963.

[2] ROMANO SALVADORI, La miracolosa follia di Omar Sivori, dicembre, «Il Gatto Selvatico», p. 35.

Le narrazioni (a cura di Daniele Greco) – Il romanziere Roth

roth

Vincenzo Mantovani, Il romanziere Roth, «Il Mondo», 18 agosto 1965, p. 8

di Daniele Greco

Verso il Nobel 2015

Da molti anni a questa parte, a ridosso dell’assegnazione del Nobel per la letteratura, salta sempre fuori il nome del grande escluso: lo scrittore Philip Roth, la cui opera continua a non convincere i giurati dell’Accademia di Svezia.
Proponiamo un articolo del 18 agosto 1965, pubblicato sulle pagine de «Il Mondo» e intitolato Il romanziere Roth, in cui Vincenzo Mantovani – tra i suoi più assidui traduttori – recensisce Letting go (1962), il primo vero romanzo di colui che fino a quel momento era conosciuto per essere il fortunato e contestato autore della raccolta di racconti Goodbye, Columbus (1956).
Pubblicato da Bompiani solo nel gennaio del 1965 col titolo di Lasciarsi andare, e mai più ristampato, il romanzo di Roth è un grosso volume di quasi settecento pagine che, pur non essendo tra i suoi migliori romanzi, venne apprezzato da critici e scrittori come Alfred Kazin, Irwing Howe e Norman Mailer. Lo stesso Mailer non esitò a definire esile la struttura del romanzo, scorgendo però qualcosa nello stile dell’autore che lo avrebbe reso davvero un grande romanziere se solo, come recitava il titolo, avesse deciso finalmente di “lasciarsi andare”.

Daniele Greco


Vincenzo Mantovani, Il romanziere Roth, «Il Mondo», 18 agosto 1965, p. 8

letting-go-2Nel recensire i cinque racconti e il romanzo breve dello scrittore americano Philip Roth pubblicati nel 1959 col titolo Addio, Columbus in un volume che si aggiudicò uno dei National Book Awards dell’anno successivo, sia Alfred Kazin su The Reporter sia Irving Howe su The New Republic si rifecero alle origini parzialmente ebraiche di questo giovanissimo scrittore (aveva allora 26 anni) per sottolineare l’aspetto più nuovo e significativo della sua opera: un distacco, un allontanamento dalla tradizione ebraica com’era stata vista e sentite nei libri di Henry Roth (Call it Sleep) e Norman Frichter (Coat Upon a Stik), per imboccare una strada poco battuta che non si sapeva ancora bene dove conducesse.
«Anche gli scrittori più dotati e profondi tra gli ebrei» notava Kazin «tendono a scrivere amore e odio, ferocia e infelicità, come se fossero meri simboli della profondità e della portata della esperienza ebraica. La cosa insolita, l’impresa di Roth, consiste nel localizzare l’io contuso e arrabbiato e non assimilato – l’ebreo come individuo, non l’individuo come ebreo – sotto il baldacchino dell’ebraismo». Secondo Kazin si trattava di una grossa novità, poiché tra gli ebrei che scrivono di altri ebrei «l’appello alla natura umana come tale, all’individuo nella sua complessità umana e solitudine di mera creatura umana, è meno comune dei grandi temi collettivi della vita ebraica di fronte all’oppressione». All’abbandono, al ripudio della tradizione fa dunque da riscontro, in Roth, una precisa scelta individuale: l’accento si sposta dall’ebreo come membro di una comunità religiosa che ancora lo vincola a determinati comportamenti, responsabilità, scelte immorali, all’ebreo considerato come membro di una più vasta comunità, quella americana, in cui la voce del sangue s’è affievolita fino a diventare quasi impercettibile, gli obblighi della religione non sono più sentiti come imperativi, i legami della solidarietà di casta e di razza sono venuti meno. Roth, per Howe, «è uno dei primi scrittori ebrei americani che non trova alcun sostentamento nella tradizione ebraica»; e questo a differenza di scrittori come il citato Henry Roth, Daniel Fuchs, Delmore Schwartz e Bernard Malamud, che hanno descritto anch’essi, e con asprezza, la vita della borghesia americana, ma ricavando i termini del loro attacco, in misura più o meno rilevante, dai ricordi d’infanzia e dalla vita familiare, insomma dai valori della tradizione. Ciò posto, si può anche accettare la conclusione alla quale giunge, non senza un’ombra di malinconia, il critico americano: forse «questo significa la fine di una tradizione, la conclusione di una parabola nell’esperienza degli ebrei americani».
In un suo vivace intervento a un simposio sul “contributo ebraico alla letteratura americana” (pubblicato in Italia sul Contemporaneo) Maxwell Geismar riprendeva e ampliava il discorso sul “problema ebraico” negli Stati Uniti. Trattando in particolare di Philip Roth, che definiva «l’ingegno migliore e più vasto tra i nuovi scrittori di cultura ebraica», Geismar lo inquadrava in quella «scuola del New Yorker» che aveva già denominato nel suo American Moderns la «scuola dei ragazzi saputi» (tenuta idealmente a battesimo da Henry James), notando però che ciò che contraddistingueva il giovane scrittore era il fatto che egli stava cercando di «evadere dal panorama formale, lindo e grazioso, con siepi ben potata e giardini jamesiani perfettamente ordinati del tipico mondo letterario del New Yorker, con le sue forme di dolore umano perfettamente controllate e, in ogni caso, educate e ambigue». I suoi primi raccontati, quelli di Addio, Columbus, erano «racconti brillanti, a volte commoventi, a volte molo divertenti, di un giovane scrittore pieno di capacità e di promesse». Li permeava, per Geismar, «una strana fusione di sentimento genuino, di rispetto per l’autentica tradizione ebraica più antica (…) e un tagliente disprezzo e una mordace ironia verso la nuova generazione di figure di ricchi assimilati, suburbani o “americani”».
L’uscita del secondo e (finora) ultimo romanzo di Philip Roth, Lasciarsi andare (1962)[1], di cui Bompiani ha appena pubblicato la versione italiana (a cura di Ettore Capriolo), è stata salutata da commenti interessati ma contrastanti. La storia s’impernia sulle peregrinazioni mondane di un ricco giovanotto di New York, Gabe Wallach, professore più per noia o vocazione che per bisogno, figlio di un dentista vedovo e rinomato il quale non chiederebbe di meglio che continuare a mantenerlo per il resto dei suoi giorni, che non sapendo darsi uno scopo nella vita dedica gran parte del suo tempo al servizio degli altri, riuscendo, con le migliori intenzioni di questo mondo, a distruggere una vita, a portare una coppia di amici poveri sull’orlo della follia, a invischiarsi in una lunga relazione con una donna divorziata il cui esito infelice, lungi dal maturarlo spiritualmente, lo spingerà a cercare ancora una volta scampo nella fuga.
Per Geismar Lasciarsi andare costituiva un netto passo avanti rispetto ai racconti, in alcuni dei quali, secondo il critico americano, si avvertiva con fastidio una specie di tour de force che subordinava il vero significato del contenuto al raggiungimento di un climax scaltro e vertiginoso. Il romanzo «era in varie parti molto buono; aveva scene, episodi e capitoli di grande bellezza», che per l’ottimo mestiere e la profondità dei sentimenti, gli ricordavano l’opera di William Styron. «Sotto l’elegante superficie del romanzo» proseguiva Geismare, «il contenuto ideologico è costituito dal contrasto tra la vecchia e la “nuova libertà” della vita accademica contemporanea». Eppure al romanzo mancava qualcosa, i brani più belli portavano a ben poco, i suoi personaggi, spesso così ben descritti, galleggiavano qua e là «come piccoli frammenti di atomi nel vuoto atomico, dove hanno perduto ogni forza». Perché? Philip Roth si era trovato alle prese con lo stesso problema di tanti altri giovani scrittori americani di origine ebraica, perché si era trovato di fronte allo stesso dilemma di tutti gli scrittori contemporanei, quelli che non hanno una causa radicale in cui credere e che, da Hemingway in poi, «si sono sentiti sempre più profondamente alienati, senza causa o ragione, (…) dal proprio paese e dalla propria cultura». Perché nel romanzo di Roth, insomma, per Maxwell Geismar «non vi è nulla da cui “lasciarsi andare”». Ecco il motivo per cui i suoi personaggi appaiono «vacui, irresponsabili, privi di radici e di valori: non hanno alcun peso umano, sociale e, di conseguenza, artistico».
Che non fosse tempo perso leggere «dieci pagine qualsiasi» di Lasciarsi andare (che nella versione italiana raggiunge le 696!) era pronto ad ammetterlo (su Esquire) anche quella linguaccia di Norman Mailer. Come romanzo, notava lo scrittore americano, critico feroce quanto altri mai, ma spesso molto acuto, dei libri dei suoi colleghi, «la sua strategia è sciocca, noiosa e debole. Ma lo stile, quantunque non eccezionale, è decente e a volte, nei dialoghi, quasi bello». C’è una certa cura dei particolari, un’atmosfera tranquilla, un’esposizione precisa e appropriata. «È come avere una relazione con una donna simpatica e piena di attenzioni, le ore passano senza che uno se ne accorga che le preoccupazioni dell’amante erano interessate e che si è semplicemente sciupata qualche stagione».
Nel romanzo di Roth, nota Mailer, accade ben poco. La moglie di uno dei professori, Libby, fragile eroina in eterna crisi di nervi, continua a essere se stessa dalla prima pagina all’ultima; il marito, Paul Herz, resta quello che era in principio, un uomo freddo, scostante e taccagno; e l’altro professore, il protagonista, ha un «piccolo esaurimento letterario». Quello che si poteva dire in dieci pagine, quello che Cecov e Maupassant hanno detto in cinque, Roth lo diluisce in settecento, e questo perché «è stato troppo attento a non farsi male durante il viaggio e perciò non si è tradito: non scava. Il romanzo» rincara Mailer, «schizza come una pulce d’acqua da una chiazza di polline all’altra, una serie di buoni racconti si accumulano per la strada, ma non nasce alcun romanzo». Par quasi che l’autore si sia deliberatamente sforzato di far sì che Lasciarsi andare resti «un’antologia di racconti strettamente collegati tra loro».
Dopo aver osservato che «la fatica di leggerlo diventa a lungo andare quasi deprimente come dovette essere quella di scriverlo», Mailer conclude la sua critica con un ammonimento: bisogna che nel suo prossimo romanzo Roth prenda partita, bisogna che si decida, ci dica finalmente con chi sta, bisogna insomma che «metta piede nel bordello», bisogna che si sporchi le mani e magari si rompa il naso, se non vuole essere ricordato come «Paddy Chayefsky dei ricchi». Non si poteva essere più duri di così con uno scrittore che sia Alfred Kazin sia Irving Howe avvicinano ripetutamente al Fitzgerald de Il grande Gatsby e del cui “tono” considerato la sua cosa più rimarchevole, il primo giunge a dire: «è acidulo, spietato, tenero, ma più che altro è giovane, vede la vita con un occhio fresco e divertente».


NOTA

[1] Il libro è stato pubblicato in Italia nel gennaio del 1965 non nel 1962 (n.d.c.).

 

Le narrazioni (a cura di Daniele Greco) – Ricardo Menéndez Salmón, “Bambini nel tempo”, Marcos y Marcos, 2015

salmc3b3n-e1442238655448

Ricardo Menéndez Salmón. Foto © Daniel Mordzinski

di Daniele Greco

La ferita, la cicatrice, la pelle.
Sull’ultimo romanzo di Ricardo Menéndez Salmón, Bambini nel tempo, Marcos y Marcos, 2015.

bambini-nel-tempoQuanti ancora non conoscono l’opera di Ricardo Menéndez Salmón dovrebbero correre ai ripari cercando di colmare questa imperdibile lacuna, magari iniziando proprio dall’ultimo suo libro intitolato Bambini nel tempo (Marcos y Marcos, 2015, traduzione di Claudia Tarolo).
Il quarantaquattrenne scrittore spagnolo ha concepito un “romanzo nel romanzo” in cui ogni storia entra poco alla volta in quella successiva, lasciando al lettore il gusto di scorgere, nel finale, dove vadano a collocarsi gli eventi letti in precedenza.
Suddiviso in tre capitoli – “La ferita”, “La cicatrice”, “La pelle” – il libro, a un primo livello di lettura, racconta tre infanzie: una di queste ferita a morte, una ricucita e cicatrizzata, infine l’ultima prossima a incarnarsi nel bambino che una donna incinta porta in grembo. Tuttavia, leggendo e rileggendo alcuni passi fondamentali, si ha l’impressione che quello dei “bambini nel tempo” sia un nobile pretesto letterario per l’indagine cui vuole sottoporci Salmón.
Nella finzione della fabula, il narratore che racconta le vicende è qualcuno che più di una volta si lascia andare a delle dissertazioni letterarie. Per fare due esempi: è colui il quale riassume in meno di due pagine – e con grande acutezza – lo splendido racconto di Raymond Carver, Una cosa piccola ma buona; o colui il quale, a proposito della scrittura letteraria, afferma che le opere di un autore sono il muro innalzato tra sé e il mondo per trincerarsi ai più.
Seguendo queste tracce – fortemente allegoriche – le tre infanzie diventano i mondi possibili concessi allo scrittore nascosto all’interno del romanzo, il quale rielabora una materia autobiografica; riscatta, attraverso l’invenzione pura, un’infanzia qualsiasi – che il lettore scopre non essere affatto “qualsiasi” –; infine, getta la maschera e si mostra come colui che, a distanza di anni, viene fuori dall’impasse personale in cui si trovava.
Molto simile, in questo, a uno di quegli autori che Enrique Vila-Matas ha celebrato nel suo Bartelby e compagnia, (Feltrinelli, 2002) – il romanzo-saggio dedicato agli scrittori che, come l’eponimo scrivano di Herman Melville, a un certo punto della loro carriera hanno “preferito di no”, hanno rifiutato di scrivere – il narratore ideato da Salmón ci mostra come la letteratura possa essere quello strumento capace anche solo per un istante di redimere una vita intera.
Questa possibilità, però, non è concessa a chiunque, perché lo scrittore è colui che conosce l’eventualità che i propri sforzi possano essere vanificati del tutto e, soprattutto, che egli possa venire dimenticato e ricacciato nell’oblio.
Solo coltivando il proprio deserto e il proprio isolamento può accadere di fare dono agli altri ed a se stesso del momento epifanico in cui, ad un passo dal baratro in cui si stava per sprofondare, si scorge di essere stati capaci di avere creato qualcosa di immortale.

(…) che la parola e l’immagine sono fallimento, sì, sono condanna, certo, sono sepoltura, senza dubbio, ma sono anche, sì, sono per sempre e da sempre, sì, sono, in ricchezza e in povertà, in salute e in malattia, in solitudine e in compagnia, sono state, sono, saranno sempre l’ultimo, l’unico, l’immancabile bagaglio.

Manlio Cancogni (1916-2015) – a cura di Daniele Greco

manlio-cancogni

Manlio Cancogni (2013)

di Daniele Greco

MANLIO CANCOGNI (1916-2015)

Una carriera lunghissima, una sterminata produzione narrativa e giornalistica, durata oltre settant’anni, che si è conclusa il 1 settembre 2015 a 99 anni.
Un ricordo di Manlio Cancogni attraverso la rilettura del suo primo romanzo, Una parigina (Feltrinelli, 1960) che cela molti motivi delle sue opere più mature e un piccolo segreto: un’amicizia letteraria finora sconosciuta.



una-pariginaQuando nel 1960 pubblica il suo primo romanzo, Una parigina, Manlio Cancogni è uno dei giornalisti italiani più apprezzati del suo tempo. Vive a Parigi, è corrispondente per «L’Europeo» e per «L’Espresso» (diretto da Arrigo Benedetti) e ha già pubblicato dei racconti tra i quali spicca Cos’è l’amicizia (Feltrinelli, 1958). Nel 1955 con Benedetti firma l’inchiesta sugli immobiliaristi romani, con un titolo destinato a fare la storia del giornalismo italiano: Capitale corrotta=Nazione infetta («L’Espresso», 11 dicembre 1955).

Da dove trae alimento il suo primo romanzo è presto detto: Una parigina racconta l’educazione sentimentale di Anna, una studentessa versiliese che sul treno per Parigi incontra Marcella – futura collega di studi – la quale cercherà di introdurla allo sfrenato e disinibito libertinaggio di un gruppo di amici. Tra questi spiccano Arrigo, detto il Cunca, e il protagonista maschile del romanzo, un nottambulo bohémienne che vive dalle parti di Saint Germain, tiranneggia le sue amanti, frequenta assiduamente il Cafè Deux Magots, ma in realtà è un giovane molto fragile che si chiama Salvato Piazza.
Quanti conoscono Cancogni sanno che alcune sue opere sono veri e propri “romanzi a chiave”, che celano personaggi realmente esistiti o suoi veri e propri amici. È il caso di Carlo Cassola, presente in «Azorin e Mirò» (uno dei racconti di Che cos’è l’amicizia), di Piero Gobetti in La gioventù (Rizzoli, 1981) e di Zdenek Zeman in Il mister (Fazi, 2000).
Salvato Piazza è stato modellato, infatti, su qualcuno che Cancogni, in quegli anni a Parigi, conosceva molto bene. Si tratta di un aspirante e impaziente scrittore, neanche quarantenne, originario di Presicce, in provincia di Lecce, che da poco muoveva i primi passi nel mondo del giornalismo e dell’editoria e – come mi rivelò al telefono lo stesso Cancogni nel 2011 – chiese con insistenza di essere assunto a «L’Espresso». Si tratta di Salvatore Bruno, l’autore del romanzo L’allenatore, del quale si è già parlato su (qui).
Ecco come Cancogni descrive Salvato:

«Occuparsi di se stesso, solo di stesso: ecco il suo male! Non gli riusciva mai di abbandonarsi con gioia e libertà. Il bisogno di affermarsi, che è un carattere della prima gioventù, lo divorava. Salvato lo capiva, s’arrabbiava con se stesso, e s’arrabbiava per essersi arrabbiato. (…) Assurdo bisogno di stare sempre avanti! A che scopo? Per dir cosa? Le ambizioni di Salvato erano illimitate, ma, come spesso accade, imprecise. Voleva essere tutto: il più bello, il più amato, il più bravo, il più ricco, il più forte; ma senza rinunciare al privilegio di sentirsi il più infelice fra gli uomini, e di accusare il destino. (…)
Salvato accusava della sua inesistente sfortuna la famiglia, il suo paese. Il padre, un piccolo agricoltore del mezzogiorno, alle prese quotidianamente con le difficoltà economiche e le rivalità paesane, non immaginava nemmeno la tristezza che s’accumulava nell’animo del figlio. (…)
Salvato non tornava volentieri a casa, odiava il suo paese, cui attribuiva la prima colpa delle sue sventure immaginarie.
Da ragazzo, quando l’avevano mandato a studiare a Bologna, Salvato s’era stupidamente vergognato della sua origine, e senza un reale motivo aveva chiesto di cambiare università. Era andato a Firenze. (Siccome Bologna è lungo la linea ferroviaria che sale direttamente dalle Puglie in Alta Italia, Salvato ci si sentiva come un soldato in avanscoperta; a Firenze, invece, con gli Appennini di mezzo, gli pareva d’essere più protetto» (pp, 105-107).

Come si evince da questo stralcio e dalle confidenze che mi fece anche l’ultima compagna di Bruno (la quale conosceva l’esistenza di questo romanzo, ma non ne ricordava il titolo) Salvato Piazza e Salvatore Bruno hanno molti tratti in comune, che confermano la profonda conoscenza che Cancogni aveva del suo collega, a tal punto da ritrarlo in maniera indelebile in quest’opera. Ad ulteriore riprova di questa amicizia, esiste anche una cartolina del 1958, firmata affettuosamente “Totò e Manley”, diretta a Romano Bilenchi, che oggi è conservata a Pavia tra le carte del Fondo Bilenchi.
Sul finire degli anni cinquanta e l’inizio dei sessanta, Bruno e Cancogni vivono per lunghi periodi a Parigi e, in più di una circostanza, scrivono dei pezzi taglienti in cui criticano in modo acuto la supponenza francese e il complesso d’inferiorità degli italiani verso i transalpini. Bruno definirà la Francia un «Paese di maestri elementari»; mentre Cancogni, a proposito di Jules e Jim di Truffaut, scriverà un articolo implacabile dal titolo «Tradimenti senza passione».
Una parigina – presente anche tra i libri della biblioteca di Bruno – nasce, pur con le dovute riserve che si devono a un’opera di finzione, dall’ironica perfidia del letterato Cancogni, che crea un antieroe privo di spontaneità, un nevrastenico, capriccioso e pieno di una parossistica smania di affermazione professionale e sentimentale: i tratti caratteriali che in tanti hanno sempre riconosciuto a Salvatore Bruno.
Tuttavia la loro amicizia s’interrompe alla metà esatta degli anni sessanta per almeno due ragioni. La prima, riconducibile a un episodio contenuto nella biografia intellettuale di Cancogni, Matelda. Racconto di un amore (Fazi, 1998), in cui l’autore ricorda un pranzo a Roma, da Cesaretto nel 1964 (in occasione dello spareggio scudetto tra Inter e Bologna), in compagnia di Bruno, Elio Pagliarani e Lamberto Pignotti, con i quali ebbe una discussione sulle proprie preferenze letterarie: Cancogni era decisamente lontano dalle idee e dal furore avanguardistico dei suoi interlocutori, già da allora membri del Gruppo ‘63. E a poco valse, a quel tavolo, la presenza di Bruno che non prese in alcun modo le difese di Cancogni:

«Con me c’era, ho detto, Salvatore Bruno, scrittore, giornalista, uomo intelligentissimo di umori aspri e violenti. Credevo di averlo alleato non foss’altro per ragioni di età e per il comune amore per il calcio. Ridacchiava. Il jeu de massacre ai danni del vecchio establishment non gli dispiaceva. Brutto segno. Del resto lo sappiamo: le rivoluzioni (e la neoavanguardia del ’63 pretendeva di farne una) vincono (in apparenza) non per virtù dei rivoluzionari ma per lo scetticismo, la debolezza e l’acquiescenza dei membri dell’ancien régime. E magari per le rivalità e i rancori che li dividono» (pp. 72-73).

La seconda ragione, invece, riguarda le fasi finali del Premio Strega del 1965 quando, dopo un testa a testa tra La macchina mondiale di Volponi e La linea del Tomori di Cancogni – alla prima votazione Cancogni era in netto vantaggio – la vittoria di Volponi determinò la fine di alcune amicizie, tra le quali quella con Bruno, il quale, sebbene non sia stato mai tra i giurati dello Strega, non si spese in alcun modo per il suo amico di un tempo.
Tra i libri meno letti e conosciuti di Cancogni, Una parigina è oggi un testo paradigmatico e da riscoprire perché anticipa al 1960 molti temi e motivi delle opere successive dell’autore versiliese, quali la costante e tenace ricerca di autenticità nei rapporti umani, la fuga da ogni conformismo – intellettuale e sentimentale –, infine, la predilezione per uno stile chiaro, conciso e cristallino, lontano da qualsiasi arabesco sperimentalista, che lo avrebbe reso un narratore sempre molto amato da suoi lettori.
Il legame che tiene uniti in modo rocambolesco Anna, Salvato, Marcella, Cunca e un insospettabile outsider non è soltanto una “satira di un certo ambiente liberal del tempo” (cfr. Jole Fiorillo Magri, Invito alla lettura di Manlio Cancogni, Mursia, 1986) perché tratteggia i miti, i sogni, le fantasie dell’immaginario giovanile dell’epoca e racconta in maniera universale – come è riportato, in modo efficace, nel segnalibro allegato alla prima edizione Feltrinelli – l’eterno dissidio che esiste tra “l’incanto e il rimpianto della bella gioventù” e “l’aspro impegno a denunciare l’aridità, la fondamentale carenza d’amore del secolo”.
Secondo questa chiave di lettura, il personaggio di Anna, antipode in tutto e per tutto all’irregolare e scapestrato Salvato, è un vero e proprio alter ego femminile di Cancogni, il quale crea un’eroina testarda, caparbia, autarchica e intransigente, capace di non lasciarsi condizionare in alcun modo dalla sfrenata vita parigina che le procurava una vera e propria insofferenza. Anna è una “parigina” suo malgrado, che riesce solo alla fine delle sue peripezie a tornare a Fiumetto, in Versilia, tracciando in modo inconsapevole la parabola del suo autore: quella di chi, dopo avere girato per il mondo da Parigi a Roma, da Milano a New York, alla fine è tornato a quel nucleo di storie e emozioni uniche e irripetibili del teatro naturale della propria infanzia. Il buen retiro in cui, nonostante le gioie e i lutti di un’esistenza lunghissima, Cancogni ha potuto vivere per molti anni in compagnia dell’amata moglie Rori tra il mar Tirreno, da un lato, e le alpi Apuane, dall’altro, e dove adesso riposerà per sempre.


Manlio Cancogni. Giornalista e scrittore (Bologna 1916 – Marina di Pietrasanta 2015). Collaboratore di giornali e periodici (fra cui L’Europeo, Il Mondo, L’Espresso), soprattutto con servizî e inchieste sulle condizioni politico-sociali e sul costume di varî paesi, a cominciare dall’Italia, è stato direttore, per alcuni anni a partire dal 1967, de La fiera letteraria.

OPERE:

Ha pubblicato varî racconti e romanzi in cui a un caustico spirito d’osservazione e a un vivo senso del “documento” si accompagna una sottile vena lirico-elegiaca: La carriera di Pimlico, 1956; L’odontotecnico, 1957; Una parigina, 1960; Parlami, dimmi qualcosa, 1962; La linea del Tomori, 1965; Azorin e Miró, 1968; Il ritorno, 1971; L’amore lungo, 1976; Il latte del poeta, 1977; Perfidi inganni, 1978; Nostra Signora della Speranza, 1980; La coincidenza, 1984; Quella strana felicità, 1985; Il genio e il niente, 1987. Con lo pseudonimo di Giuseppe Tugnoli ha pubblicato Adua (1977) e Al sole di settembre (1980). La successiva produzione di C. ha continuato ad essere caratterizzata dal suo sguardo documentaristico e puntuale sulla realtà descritta, ma lo stile giornalistico e asciutto è arricchito da un orientamento più intimista e riflessivo: di questa produzione, i titoli più recenti sono L’impero degli odori (2001); Gli scervellati. La seconda guerra mondiale nei ricordi di uno di loro (2003); Sposi a Manhattan (2005); Caro Tonino (2006); L’ultimo viaggio di Mussolini (2008), raccolta di articoli scritti da C. per L’Espresso nel 1957; La sorpresa. Racconti 1936-1993 (2009); La cugina di Londra (2011); Toro delle meraviglie (2012); Così parlò Carpendras (2013); Tutto mi è piaciuto (2013); il testo autobiografico Il racconto più lungo (2014).

(Fonte: Enciclopedia Treccani).

Le narrazioni (a cura di Daniele Greco) – Paolo Zardi, “XXI secolo”, Neo edizioni, 2015

zardi

Paolo Zardi

di Daniele Greco

Paolo Zardi, XXI secolo, Neo edizioni, 2015

xxi-secolo-paolo-zardiNel racconto di Paolo Zardi, “L’amore reclinato”, pubblicato per l’antologia La vita sobria. Racconti ubriachi (Neo edizioni, 2014, a cura di Graziano Dell’Anna), il protagonista si ritrova all’improvviso da solo, lasciato dalla moglie scappata con un altro e, nella nuova condizione forzata di single, si ritrova nell’inferno di serate alcoliche trascorse da solo o con amici che non sanno fare altro che parlare di soldi e di lavoro. In una pagina memorabile il protagonista, imbesuito dai superalcolici e alla ricerca di una parola umana di consolazione da parte degli amici, subisce la sfrontatezza di uno di questi che, ignorandone la sofferenza e mostrando tutta la propria anaffettività, non trova niente di meglio che suggerirgli il nuovo business nel quale gettarsi a capofitto: quello della coltivazione dei funghi.
A partire da questo tema, l’epifania della disumanità dilagante di questi nostri tempi, il nuovo e più complesso romanzo di Paolo Zardi, XXI secolo (Neo edizioni, 2015), tenta di raccontare la vita di un uomo che di mestiere fa il rappresentante di depuratori d’acqua, ha due figli e vive in una provincia italiana, di un lontanissimo XXI secolo, sempre più fiaccato, desolato e apocalittico. Qui la classe media è quasi del tutto scomparsa e al suo posto si trovano delle consistenti masse di sottoproletari abbandonati a loro stessi, in quelli che un tempo erano quartieri residenziali, fatti di villette a schiere o palazzine moderne.
Fin dalle prime pagine, all’uomo accade di dovere fare i conti con l’ictus che colpisce Eleonore, la moglie, riducendola in coma. Da questo momento il marito tenta di tenere insieme i pezzi di una famiglia che rischia di sfasciarsi per sempre, anche perché alla malattia della donna si aggiunge la scoperta di un telefono cellulare che conteneva le prove evidenti dei tradimenti della moglie.
Ritratto con uno stile rapido ed essenziale, il protagonista del romanzo è un uomo anacronisticamente di buon senso, una sorta di sopravvissuto, la cui unica colpa è quella di ragionare per categorie che appaiono desuete. E una di questa categorie, forse la più importante del romanzo, è la memoria.
Nel tentativo dell’uomo di cercare a ritroso i dati empirici del suo fallimento di marito, la memoria finisce sul banco degli imputati. Il viaggio alla ricerca delle amicizie della moglie, prima, della sorella gemella di colei e della loro famiglia austriaca, dopo, non è un nastro da riavvolgere per ritrovare la prova tangibile di una crisi di coppia sottovalutata. La memoria è una costruzione arbitraria, che sottostà a quel continuo e proustiano “plagio di sé stessi”. E l’uomo, infatti, finirà per maledire proprio questo tentativo di afferrare una causa o una colpa, perché avrebbe dovuto solo guardare dentro sé stesso e non fuori, per decrittare la “storia che si era raccontato per anni”.
C’è una pagina in cui Zardi, nella finzione del romanzo, attribuisce al marito di Eleonore la ricerca in internet di alcune informazioni sui danni irreversibili, nella moglie, all’emisfero sinistro del cervello e all’area di Broca. Attraverso questa spia intertestuale, Zardi sta camuffando nell’opera le sue notevoli competenze di autentico scrittore, che possiede una profonda conoscenza scientifica. Nella fattispecie, con questo espediente – si veda il riferimento esplicito anche al caso clinico di Phineas Gage – egli allude tra l’altro alle scoperte in campo neuroscientifico del celebre neurologo e saggista Antonio Damasio, l’autore di L’errore di Cartesio (Adelphi, 1995).
Se Damasio ha chiarito i meccanismi di correlazione tra emozione e ragione, che hanno tolto il primato al cartesiano cogito ergo sum; l’intenzione ambiziosa del romanzo di Zardi è quella di mostrare come ci stiamo condannando a vivere in un mondo disumano e brutalizzato, in cui persistiamo a dimenticare – come il dostoevskiano uomo del sottosuolo – cosa siano la vita vera, le passioni e i desideri.
Gli anticorpi allo sfacelo sono a un passo da noi, ma a patto che li si sappia riconoscere non nel chiacchiericcio del proprio cervello, il quale conduce molto spesso a una ottundente cecità cognitiva, ma in tutto ciò che genera quell’afflato emotivo che persiste a renderci ancora umani. Come accade nel finale dolente del libro che, senza svelare nulla, è il momento più alto della presa di coscienza del protagonista.

Le narrazioni: a cura di Daniele Greco – FULVIO ABBATE, “Roma vista controvento”, BOMPIANI 2015

fulvio-abbate-teledurruti-situazionismo-e

Fulvio Abbate

di Daniele Greco

FULVIO ABBATE, ROMA VISTA CONTROVENTO, BOMPIANI 2015

roma-vista-controvento-647341_tnCon Roma vista controvento (Bompiani, 2015) a Fulvio Abbate è riuscito quanto solo in parte capitò di fare, in vita, allo sfortunato Boris Vian: ritrarre in maniera enciclopedica, originale, e ironica la propria città d’elezione. Si può ipotizzare, infatti, che se Vian non fosse mancato così presto, avrebbe donato ai suoi lettori una edizione riveduta e ampliata del suo mitico Manuale di Saint-Germain des Pres – La Parigi degli esistenzialisti (Editori Riuniti, 1998).
Abbate aveva già pubblicato un libro simile anni fa, Roma. Guida non conformista alla città (Cooper, 2007), ma nelle 700 pagine del nuovo lavoro aggiorna e in parte riscrive i capitoli di un catalogo sterminato di leggende, quartieri, strade, portinerie, mode, tic, miti d’oggi, monumenti, architetti, maestri, artisti, letterati, sportivi, musicisti, cazzi celebri, bar, trattorie, premi letterari, attori, jeanserie, rivendite d’auto, ristoranti, negozi di modellismo, librerie, ex voto, graffiti, epigrafi, statue e tanto, tanto altro.
Nel suo penultimo libro, il romanzo Intanto anche dicembre è passato (Baldini & Castoldi, 2014), Abbate aveva composto la sinfonia del tempo perduto della sua famiglia, gli Abbate-Politi: palermitani trapiantati a Roma negli anni sessanta, che sono vissuti nel pieno del boom economico, consentendo al piccolo Fulvio di scorgere nella “città eterna” un mondo di sogno, che egli ha ritratto in maniera lirica e struggente. Ma è qualcosa da lasciarsi subito alle spalle, in Roma vista controvento, per seguire un percorso singolare che fin dal primo capitolo mette in chiaro le cose e, anzi, può valere come dichiarazione di poetica di quello che sarà il “punctum” di questo volume.
Se il Gustav von Aschenbach di Morte a Venezia lamentava il proprio esecrabile accesso alla città lagunare per mezzo del treno, dalla stazione –, “come entrare in un palazzo per la porta di servizio”, scrive Thomas Mann – anziché dalla nave e per mare, Abbate sceglie di farci accedere a Roma proprio dalla più celebre porta di servizio: il nastro trasportatore dell’aeroporto di Fiumicino. Ed è proprio lì dove un tempo le cronache hanno narrato dei controllori intenti a trafugare oggetti nelle valige – in un mix di pressappochismo e cialtronaggine che, superato il trafiletto di cronaca, non va oltre gli aedi orali dell’epica aeroportuale – che l’autore ritiene si debba iniziare a ragionare di quello che resta della presunta magnificenza della capitale.
Il suo mulino filosofico macina ogni aspetto materiale e immateriale della romanità, usando un registro apparentemente svagato, in alcuni tratti volutamente liquidatorio ed evasivo – a via del Corso, per dire, sono dedicate solo cinque righe, ma bisognerebbe leggerle per capire meglio – al solo fine di esercitare il fiero diritto a rifiutare qualsiasi forma di riconoscenza verso la città in cui egli ha iniziato a lavorare come critico d’arte, prima, e come giornalista e scrittore, poi. Anzi, se c’è un sentimento che pervade il libro è presto detto: è l’orrore e il disincanto di vivere una capitale che ha perso, o forse non ha mai avuto, lo slancio cosmopolita e colto di altre città europee.
Al lettore che da sempre magnifica la città di Roma – come è accaduto anche al sottoscritto, reo di credere che per le strade tra via Frattina, piazza del Popolo e via della Croce aleggiasse ancora il fantasma dell’amato scrittore di un solo libro, il Salvatore Bruno de L’allenatore –, a questo tipo di lettore toccherà l’agnizione per cui la bimillenaria Roma è sempre più straniera a qualsiasi forma di afflato artistico, ma, semmai, nella costruzione narrativa dell’autore, è diventata una miniatura, un diorama del provincialismo cinico e paraculo che, forse, riesce a superare i propri confini locali, ma solo per assurgere ad autobiografia dell’intera nazione.
E non è un caso se quanti riusciranno a salvarsi dalla acuta perfidia di Abbate siano semi sconosciuti o dimenticati ai più, come – per fare solo alcuni nomi – l’attore Antonio Trezza, il conduttore Massimo Marino, il fotografo Umberto Pizzi, l’architetto Renato Nicolini, il pugile Mario Romersi, il cantante Claudio Villa, l’artista Mario Schifano, il latinista e scrittore Luca Canali. Di costoro Abbate esalta la natura di veri e propri pezzi unici, scevri da qualsiasi contagio morale o estetico, dai barocchismi e dalle artefatte profondità di superficie del demi-monde romano, per i quali la conquista dell’originalità, dell’anticonformismo e del guizzo intellettuale non ha riguardato altro che non fosse l’autentica e sincera ricerca finalizzata a diventare – come diceva il filosofo – nient’altro che ciò che si è.