Riflessioni sulla lingua, 2 inediti di Nino De Vita

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Nino De Vita

Riflessioni sulla lingua, 2 inediti di Nino De Vita

… e la gallina,
Tornata in su la via,
Che ripete il suo verso…

G. Leopardi

In un recentissimo intervento sulla poesia italiana contemporanea, Franco Buffoni ha parlato della «caduta libera della poesia dialettale» (F. Buffoni, Dialogo con Franco Buffoni, in L’Ulisse, Rivista di poesia, arti e scritture, 17 – Mappe del nuovo. Percorsi nella poesia contemporanea, p. 58). Colpisce il dato che, pur partendo da un resoconto limitato alla compilazione dei Quaderni di poesia contemporanea, accende un’altra riflessione sulla lingua e i suoi presunti destini. Forse lo “spostamento” linguistico è un indizio del mutamento prospettico che, sul piano concettuale, è stato espresso più e più volte e che è sotto gli occhi di tutti, riassumibile in un termine utilizzato dal filosofo francese Jean-Luc Nancy: mondializzazione. La mondializzazione, intesa in termini di arte e linguaggio, «ha, dunque, l’incarico di attestare il mondo in quanto mondialità che toglie, allontana, o sottrae, tanto l’unità di un cosmo o di un mondo-oggetto (di una “natura”), quanto di un mondo-soggetto (una “storia”)» (J. L. Nancy, L’arte di fare un mondo, in Prendere la parola, Moretti&Vitali, Bergamo, 2013, p. 203). Per questo, a mio avviso, il dialetto, rischiando l’estinzione, è l’esempio macroscopico di una resistenza testimoniale, l’ultimo baluardo di un approccio “storico” del soggetto che si dispone frontalmente rispetto al mondo. La visuale (non la visione!) collaterale nel dialetto è impossibile proprio a causa della sua pregnanza testimoniale, nella tensione resiliente che si oppone a una scomparsa. Il dialetto guarda negli occhi un mondo che non si guarda ma si pertiene. Richiamando ancora Buffoni: come «Il soggetto: è il soggetto – quello che “mi detta dentro” – a far sì che si possa scrivere in modi tanto diversi. Personalmente non sono né un fautore della sparizione dell’io […], né un fautore della presenza dell’io» (F. Buffoni, Dialogo con Franco Buffoni, cit., p. 63), così il dialetto, è il dialetto con la sua specificità localizzata, in qualche modo separata, a far sì che si possa scrivere “per altri versi”. L’ibridazione, di cui si parla anche nell’intervista più volte citata, è un fenomeno che riguarda più le lingue nazionali che, a loro volta, sembrano prendere la strada del dialetto, laddove la “mescolanza”, dovuta anche agli spostamenti antropici oltre che alla possibilità di accesso “multilinguistico” per mezzo della rete, sostituisce ogni “purezza”, cioè il residuo archeologico della lingua. Andrei più a fondo: se qualunque lingua è, in “potenza”, residuo, allora non si tratta soltanto di lasciarsi andare all’ascolto del soggetto ma anche rapprendersi nella sua “forza” di valutazione: «Si tratta del valore che non dipende da alcuna proiezione, ma dalla forza della valutazione per la quale il “soggetto” è esso stesso dentro al suo “progetto”, ma non a titolo di “pro” della proiezione: a titolo di “gettar-si” dentro, o meglio di “essere-gettato” dentro» (J. L. Nancy, L’arte di fare un mondo, in Prendere la parola, cit., p. 200).
Viviamo il tempo dell’ibridazione, è vero, ma solo in termini di potenzialità che è possibilità di non utilizzo di un sistema (nel nostro caso, linguistico). Il non-utilizzo di una lingua nazionale, e la non-scelta di un linguaggio “retrocesso” come il dialetto, non è più azione ideologica ma è il modo di trascinare, come direbbe Jean-Cristophe Bailly, «il paese al di là di sé, rendendolo in qualche modo infinito», cioè non originario, eppure ugualmente “testimoniale”. La “caduta” del dialetto, allora, è la “caduta” della lingua nella sua, questa sì “eterna”, divisibilità. In tal caso, è impossibile definire una lingua se non per preconcetti nazionalistici o accademici – che vogliono dire “il russo, il cinese, il giapponese”, se non l’etichettatura delle potenzialità che la lingua offre? «La partizione (partage) delle lingue è la condizione del linguaggio: gli idiomi sono i limiti sui quali si apre il silenzio, sempre che non si tratti di glossolalia. Neanche la poesia può rientrare in un’assegnazione di stampo quasi nazionalista o identitario in generale (in base, per esempio, al nome dell’autore)» (J. L. Nancy, Il sistema, ieri e oggi, in Prendere la parola, cit., p. 151).
Mi piace concludere questa piccola riflessione, prima di passare ai testi “dialettali”, gentilmente concessi dal poeta siciliano Nino De Vita, con un breve estratto dallo Zibaldone che ci parla di quella “varietà” indispensabile, perché effettiva, che il linguaggio possiede, il senso dell’alterità che attiva il divenire, l’esistente, nello scambio tra soggetto e mondo:
«La gran libertà, varietà, ricchezza della lingua greca, ed italiana, (siccome oggi della tedesca) qualità proprie del loro carattere, oltre le altre cagioni assegnatene altrove, riconosce come una delle principali cause la circostanza contraria a quella che produsse le qualità contrarie nella lingua latina e francese; cioè la mancanza di capitale, di società nazionale, di unità politica, e di un centro di costumi, opinioni, [2127] spirito, letteratura e lingua nazionale. Omero e Dante (massime Dante) fecero espressa professione di non volere restringere la lingua a veruna o città o provincia d’Italia, e per lingua cortigiana l’Alighieri, dichiarandosi di adottarla, intese una lingua altrettanto varia, quante erano le corti e le repubbliche e governi d’Italia in que’ tempi. Simile fu il caso d’Omero e della Grecia a’ suoi tempi e poi. Simile è quello dell’Italia anche oggi, e simile è stato da Dante in qua. Simile pertanto dev’essere assolutamente la massima fondamentale d’ogni vero filosofo linguista italiano, come lo è fra’ tedeschi. (19. Nov. 1821.)», aggiungo solo che l’ibridazione tanto discussa, non ha altro valore se non l’accoglienza del diverso, fuori dal concetto di confine nazionale, perché ognuno di noi è già confine.

Gianluca D’Andrea


2 inediti di Nino De Vita

ADDINI
(Galline)

’U STRALLÀSCITU

Sti cusuzzi chi ggìranu, ri notti,
nichi p’attornu ô lumi,
trùzzanu, cci nni sunnu
nna tàvula sminnati,
abbruciati pi ddintra
ô tubbu.

’A ciamma stava
ferma. Si l’ammicciavu
cchiù nchiccu m’addunavu
ammeci chi trimava.

Vinni una straquatina
ru puddaru. Vuciaru, svulazzaru
l’addini – carcariau
quarcuna – e si zzitteru.
Stesi, allarmatu, ’a testa
aisata ri nno libbru,
a sèntiri.

E arreni ddu strallàscitu,
’i vuci ri l’addini.
Mi cafuddai annunca
pi ffora.

’A porta ru puddaru era attangata.
’Un vitti vurpi e mmancu
bbaddòttula fuìri.
P’addabbanna
ra rriti, l’addini ( aisi
un peri – accura – e ’u posi; e ddoppu, tisa,
l’àvutru) araciu chi
muvìanu.
Currì a pigghiari ’u lumi,
nna cucina e turnai.
Tirai ’u firriggiaru.

Dda stramera chi cc’era
ri pinni stravuliati.
Avia un’addina ’a testa
ascippata. Sbizziati
ri cca, ri dda, ri sangu
’n terra….

Onnumani me’ matri
spinnau l’addina morta e ’a fici a bbroru.
Eu, pi ddavanti ô piattu
chi purtau, mi mussiavu.
“ ’Un cci pinzari” rissi
me’ patri. “ ’Un cci pinzari.
Mancia, ch’è bbonu, mancia, ’un cci pinzari ”.
E ddoppu, seriu: “E pènzacci”
mi rissi.

LO SCHIAMAZZO. Queste cosette che girano, di notte,/ piccole attorno al lume,/ sbattono contro il vetro, ce ne sono/ sul tavolo ferite,/ bruciate dentro/ il tubo.// La fiamma stava/ ferma. Se la guardavo/ più fisso mi accorgevo/ invece che tremava.// Giunse uno starnazzare/ dal pollaio. Vociarono, svolazzarono/ le galline – qualcuna/ chiocciò – e si zittirono./ Rimasi, allarmato, la testa/ sollevata dal libro,/ ad ascoltare.// E di nuovo quello schiamazzo,/ la voce delle galline./ Mi precipitai allora/ fuori.// La porta del pollaio era serrata./ Non vidi volpe né/ donnola fuggire./ Dall’altro lato/ della rete, le galline (alzi/ un piede – attenta – e lo poggi; e dopo, tesa,/ l’altro) lente che si/ muovevano./ Corsi a prendere il lume/ nella cucina e tornai./ Spostai il chiavistello.// La massa che c’era/ di penne sparpagliate./ Aveva una gallina la testa/ staccata. Gocce/ di qua, di là, di sangue/ per terra….// L’indomani mia madre/ spennò la gallina morta e la fece in brodo./ Io, davanti al piatto/ che portò, tentennavo./ “Non ci pensare” disse/ mio padre. “Non ci pensare./ Mangia, che è buono, mangia, non ci pensare”./ E dopo, serio: “E pensaci”/ mi disse.

°

’A PERPÈTUA

Ma chi putiti viatri
capiri, mancu vi
passa p’a ciricòppula,
socch’éni chi l’addina,
nnall’ariuni, facia.
Jittava ncapu un ciancu,
addizzava e abbuccava
nnall’àvutru, caria
e si susia; nnavanti
jia, pu nnarrè, firriava
pi ntunnu, sdivacava
aggabballaria, pi
morta.
Ma ’unn’era morta.
Abbiava e truppicava
nna nnenti, tummuliava,
s’abbaffava. Rapia
’u bbeccu, addumannava
acqua, chi sacciu, l’aria pi campari…

Ciccinu, c’u bbiccheri
ri perpètua nne manu
“Aggàrrala” mi rissi
“chi cci nni ramu ancora
tanticchia. Vegna, aggàrrala,
ràpicci ’a vucca, aiùtami”.
“E no” cci rissi “làssala.
Mi sentu tramazzatu, ’a testa cci haiu
nnacquariata… ’Unn’u viri
comu si mazzulìa.
Prima chicchiriddiava,
ora è làccana, è foddi,
nfuscata, pari chi
cci fìciru una cosa
tinta, chi fa, chi vvoli,
è senza sicuranzia,
scamina, cci havi ’u trèmulu,
scancedda. Signuruzzu
portala tu a dunn’havi
a gghiri…”

Ciccinu m’ammicciau,
schifiànnumi pi tuttu
ddu ranni mutuperiu
ri palori ch’avia
rittu.
“ Cu mmia ’un mmeni cchiù
a gghiucari” mi rissi
“picciriddu ngangà”.

IL VINO VECCHIO. Ma che potete voi/ capire, nemmeno vi/ passa per la testa,/ quello che la gallina,/ nel cortile, faceva./ Sbandava su di un lato,/ si drizzava e abbatteva/ sull’altro, cadeva/ e si rialzava; avanti/ andava, indietro, girava/ attorno a sé, crollava/ con le zampe in aria, come/ morta./ Ma non era morta./ Si avviava e incespicava/ su niente, stramazzava,/ si accovacciava. Apriva/ il becco, domandava/ acqua, che so, l’aria per campare…// Ciccino, con il bicchiere/ di vino vecchio in mano/ “Afferrala” mi disse/ “che ce ne diamo ancora/ un poco. Avanti, afferrala,/ aprigli la bocca, aiutami”./ “E no” gli dissi “lasciala./ Sono confuso, la testa ho/ smarrita… Non lo vedi/ come si dibatte./ Prima chiocciava,/ ora è floscia, è pazza,/ senza la ragione, pare che/ le abbiano fatto un/ maleficio, che fa, che vuole,/ non ha più certezza,/ vaga, è presa dal tremito,/ il cammino sconosce. Signuruzzu/ portala tu sulla sua/ via…// Ciccino mi fissò,/ disprezzandomi, per tutta/ quella quantità/ di parole che avevo/ detto./ “Con me non vieni più/ a giocare” mi disse/ “bambino appena nato”.


Nino De Vita è nato a Marsala nel 1950, dove vive e lavora. È autore di “Fosse Chiti” (Milano, 1984) e della trilogia pubblicata da Mesogea composta da “Cutusìu” (2001), “Cùntura” (2003) e “Nnòmura” (2005). Nel 2011, sempre con Mesogea, è uscito “Òmini”, il suo quarto libro in dialetto (Premio della Giuria Viareggio-Rèpaci 2012). È autore anche di diverse raccolte di versi pubblicate in edizioni a tiratura limitata. Riconosciuto come una delle voci più interessanti e rigorose della poesia contemporanea, nel 1996 ha ottenuto il Premio Alberto Moravia per la letteratura italiana, nel 2002, il Premio Mondello “Ignazio Buttitta”, nel 2004, il Premio Napoli e, nel 2009, il Premio Tarquinia Cardarelli per la poesia. Nel catalogo dell’Editore Orecchio Acerbo di Roma tre suoi racconti per ragazzi: “La casa sull’altura” illustrato da Simone Massi (2011), “Il racconto del lombrico” illustrato da Francesca Ghermandi (2007) e “Il cacciatore” illustrato da Michele Ferri (2006).

LINEA MERIDIONALE: “Uno stupore quieto” di Mario Fresa, Stampa, Azzate (VA) 2012

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Mario Fresa

LINEA MERIDIONALE: Uno stupore quieto di Mario Fresa, Stampa, Azzate (VA) 2012.

uno-stupore-quietoLa poesia vive la dimensione della soglia, avviene quando l’alterità – il mondo, un oggetto, una persona, una voce, ecc. – si fa strada dentro l’individuo, quando questa alterità e il soggetto s’incontrano nello scambio reciproco che la scrittura in versi fissa nel momento in cui accade.
Nella “nientificazione” dell’identità, che è l’attimo liminale della relazione, vive la poesia di Mario Fresa (nato a Salerno nel 1973, ha pubblicato: Liaison, 2002; L’uomo che sogna, 2004; Alluminio, 2008) della quale Uno stupore quieto è l’ultimo tassello.
Gli episodi della riformulazione di questa esperienza della soglia, fondante quanto sfuggente, sono le quattro sezioni del libro: i movimenti, quasi l’impostazione musicale, della prima, Storia di G., aprono a un panorama onirico, per cui il riconoscimento del soggetto è delegato alla sua fame di nominazione. Il racconto, anzi, è scandito da una volontà etica, difficilmente raggiungibile, i cui indizi sono rintracciabili in figure connotate da aggettivi che spesso si ripetono nella trama dell’intera operazione. Si passa, così, dall’«astuzia viperina» (Metamorfosi I, p. 15, v. 6), dalle «striscianti/espressioni» (Ibid., p. 15, vv. 15-16), «il mefitico barbiere» (Metamorfosi IV, p. 20, v. 22) della prima sezione, allo «stupore quieto» (Questo corpo disossato, quasi irreale, p. 31, v. 7) della seconda, Titania. Le minacce oscillatorie degli accostamenti tradiscono la tensione morale che guida la narrazione in versi di Fresa. Il tentativo d’apertura espressa dal respiro ampio del verso dilatato, prosastico appunto, è corredato, come abbiamo già notato, dalla ricchezza degli attributi che si muovono alternando, a una visione negativa dell’esistente, l’altezza di un desiderio di miglioramento, una matrice ideale:

Così mi scuoti e mi risvegli, vedi, proprio adesso che piangevo e
resistevo al minaccioso assillo – fatto così, ricordo: zanne ricurve,
e poi due ali portentose; e minuscole, pericolose frecce –
che già si rovesciava, piano, sopra il dorso tormentato dalla luce.

(p. 29)

Titania – la regina delle fate, nel plausibile richiamo al Sogno di una notte di mezza estate, cioè alla dimensione onirica cui facevamo riferimento, o meglio, al sonno e alla veglia da cui si dipartono le atmosfere inquiete del libro, nell’alternanza tra buio del profondo e luce affiorante – potrebbe essere la poesia, anzi, l’idealizzazione della poesia come gesto inafferrabile, oppure consunto:

Questo corpo disossato, quasi irreale,
che un tempo chiamavamo meraviglia
e perfezione, adesso divenuto
come un osceno guscio
abbandonato, in un istante, con una fredda
crudeltà, con uno strano
stupore quieto.

(p. 31)

Proprio la poesia si fa tramite tra vita reale e ideale; in quel «corpo disossato, quasi irreale, / che un tempo chiamavamo meraviglia / e perfezione…» (vv. 1-3) è potenzialmente verificabile la metamorfosi dell’esistente; la resistenza di un gesto che non vuole cedere al nulla, risvegliando nello “stupore” la “quiete”, il giaciglio di una stabilità, un’appartenenza nonostante il disorientamento. Sì, è la ricerca di una “domesticazione” attraverso il linguaggio, il ritorno a una casa dell’essere (la nostalgia) perché «Anche scendere dal letto è un un’incredibile sfida agli eventi» (Balletto, 5., p. 72). Ricordiamo che la poetica della “dispersione”, la trasmutazione del genere poesia in racconto di una biografia da ricostruire, è alle origini della ricerca di Maurizio Cucchi, un riferimento evidente per Fresa che, infatti, si muove sulla scia dell’oscillazione tra realismo e visionarietà come il suo maestro. Forse anche per questo, la carica idealizzante di Fresa a volte è smorzata dalla disillusione ironica, anche questa cara a Cucchi: «… Giuseppe/ sciabatta, sbadigliando, tra la cuccuma e il lavandino» (Giuseppe, in M. Cucchi, Poesie 1965-2000, Mondadori, Milano, 2001, p. 87, già in Le meraviglie dell’acqua, Mondadori, Milano, 1980); mentre in Fresa possiamo leggere: «In una casa dagli ampi spazi bianchi, bada, ci riconosceremo/ subito, d’istinto (facendo niente, però)» (Ma dove sono sparite?, p. 37, vv. 2-3).
Nonostante i debiti appena emersi, il desiderio, l’anelito, che caratterizzano pienamente la poesia di Fresa, riappaiono e determinano le potenzialità di uno stile che si fa sempre più autonomo – si riporta per intero il componimento da cui era estratta la precedente citazione, perché occorre rilevare la pertinenza dell’accumulo di infiniti ottativi, nella parte centrale, che hanno la funzione di lasciare immaginare, a chi legge, l’azione come un compito ancora fattibile:

Ma dove sono sparite?
In una casa dagli ampi spazi bianchi, bada, ci riconosceremo
subito. D’istinto (facendo niente, però).
Sì, dolce impresa, sì. Forse sapremo.
Per quell’inverno ingombro di curiosi
avvistamenti – poco dormire, lavare continuamente;
pulire il già pulito – pensando solo a sé;
oppure infantilmente,
carezzare il delicato, finissimo tessuto…

Dopo tutto ho visto te, perfino in questa
gonfia, buia discesa.

(p. 37)

L’oscillazione costante tra mondo reale e dimensione onirica, inoltre, a volte si trasforma in agone e deforma ulteriormente la visione, fino all’emersione grottesca di figure mostruose. L’aspetto del grottesco è un altro segnale importante che, se spinto oltre l’attenuazione ironica, potrebbe aprire a un quadro immaginifico più ampio e autonomo:

Invece giù, più in basso… niente paura, nessun affanno. Più facile ordinare
con la mente le molte forme oscene immaginate, e in aggiunta la visione
degli orribili parenti (smorfiosi, pavidi, molesti: li ho tutti qui, di fronte:
nessuno che si decida, saggiamente, a sparire, a fuggire…).
Nella testa, invece, un ricorrente rovistare
di suoni sbilanciati, di tic ingovernabili:
orologi pulsanti, ben caricati, fino a scoppiare;
vetri rotti; sirene gracidanti: e altre piccole esplosioni,
spasimi acuti, membra contratte, incredule.
Le bianche tane dei segreti incontrollati, compresi poco, anzi niente.

(p. 40)

La terza sezione, Una violenta fedeltà, ci presenta un poemetto in prosa (Convalescenza) in sette atti, in cui i quadri si susseguono esacerbando la visionarietà delle prime sezioni:

6.

Veniamo al cuore dell’esplosione. I pensieri si tingono di un colore imprevisto e allora, di sorpresa, ci viene voglia di leggere tutte le poesie della famosa signora Harms, e poi noi due, mulinando le braccia nel vortice dell’aria come boxeurs ansiosi, colpiamo a lungo, con feroce insistenza, quei tuoi nemici androidi che si sono parati qui, davanti ai nostri occhi: dopo la lotta, abbiamo poi raccolto, per vanità, l’augusto tripudio delle due donne compiacenti, affacciate – poco timidamente – dal terzo palco del teatro; e senza perdere altro tempo, siamo tornati subito nei nostri boschi per ricucire, con precisione, le vesti dalle pieghe cascanti e per curare la febbre delle ruvide parole che i zelanti suggeritori hanno voluto dipingere, per una specie di violenta fedeltà, sopra i muri del tuo amato camerino.

(p. 49)

I Romanzi, che danno il titolo all’ultima sezione, palesano, considerando l’origine del genere (cioè, nel Medioevo, scritti in prosa e in versi di avventure eroiche in margine alla storia o puramente d’invenzione), la volontà di Fresa di riagganciarsi al racconto di gesta (o di gesti), per cui il soggetto, nello slancio poematico, ridiventando “cantore”, si fa mezzo di trasmissione, testimone di eventi. Eventi esposti sotto un’ottica deformata che si attiva nella ricerca febbrile di un senso, che si dibatte per arginare la scomparsa, in una lotta che tende all’estroversione del gesto poetico, alla sua forza ri-creante:

Ritratto di Ammiraglio

4.

Ora giochiamo e facciamo, guarda, che io sono un Ammiraglio
dalla bella marsina
dal bel mantello e dai bei ricci lunghissimi
che poi ci rivediamo dopo le insidie della guerra che poi tu dalla finestra
mi saluti e poi alla fine mi accogli silenziosa e poi mi
sali sulle ginocchia e muovendoci ad arte sulla poltrona, qui…

Ma chi mi salverà, pensavo, quasi piangendo;
chi mai mi salverà da queste mani
che hanno smesso di capire, da queste mani che si fanno più fragili
e più esperte, più dolci e più cattive?

(p. 70)

La potenza affabulatrice rinviene, l’immaginazione sembra aprirsi su un campo di accostamenti inediti, in cui i personaggi sono figure allegorizzanti del dissidio tra il tentativo raziocinante di fissare il senso dell’esistere e l’impulsività che scardina ogni certezza momentanea; la trasformazione che non si arresta (ricordiamo che il primo movimento della raccolta s’intitola Metamorfosi):

Ritratto di Ammiraglio

3.

Il suo odore di crema pianissimo finisce sulla mia bocca stia tranquilla io non sono tranquillo; si può cercare con l’amore deve cercare di ricordare che i sentimenti domani ho la consegna degli indumenti alla lavanderia e poi scade perfino la bolletta che i sentimenti possono, purtroppo, mutare; cioè possono, diciamo, trasformarsi.

Ma tu mia cara
devi avere pazienza non possiamo rimanere
sempre gli stessi e poi chi dice come siamo veramente?
Cosa dicono perdìo le nostre mani che si fanno
più fragili e più esperte, più dolci e più cattive?

(p. 69)

Uno stupore quieto, infine, riesce a comunicarci che il mondo è ricreazione perpetua e che la parola poetica contribuisce a ridefinire gli statuti del cambiamento. Così, la stessa finzione, essendo coessenziale al reale, può divenire trasposizione del ricordo, attivando un’allerta che segnala ogni possibile, e sempre imminente, disorientamento:

«La primavera, l’estate ed il fecondo autunno, e l’iracondo inverno, si sono scambiate le livree; e il mondo sbalordito non più dai lor prodotti distingue le stagioni. E questa progenie di malanni nasce dal nostro conflitto, dal nostro dissenso».

(W. Shakespeare, Sogno di una notte di mezza estate, Atto II, Scena I).

Gianluca D’Andrea
(Maggio 2014)

Daniela Pericone: Testi da “Il caso e la ragione”, Book Editore, 2010

Carteggi Letterari - critica e dintorni

daniela_pericone Daniela Pericone

il caso e la ragioneProponiamo alcuni testi tratti dall’ultima raccolta di Daniela Pericone (1961), poetessa calabrese che vive e lavora Reggio Calabria. Laureata in Scienze Politiche, svolge, nell’ambito dell’Associazione Culturale Anassilaos, un’intensa opera di promozione artistica e letteraria. Con liriche e recensioni è presente in varie riviste culturali e antologie poetiche. Ha pubblicato i volumi di poesia Passo di giaguaro (2000, Premio “Domenico Napoleone Vitale), Aria di ventura (2005) e Il caso e la ragione (2010).

Buona lettura.

A MORSI

Mentre mordevo la vita
un dente si spezzava,
mi chinavo a raccogliere
il pezzo mancante
e con dita maldestre
rinsaldavo quello
che era stato un incisivo,
ma che ora somiglia
a un insulso canino
la cui natura animale
mostra solo il ringhio

e la vita se la ride
del mio morso a mezz’aria.


GRAFFI

Siamo graffi di ossidiana
meteoriti che collidono
solo attimi si sfiorano
scagliati contro cosa chissà dove.


STRATEGIA

Strategia…

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Angelo Maria Ripellino – testo e commento

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Angelo Maria Ripellino

di Gianluca D’Andrea

Se entro, cambiano súbito discorso,
io, canna odorosa di una lontana estranía,
hanno occhi di vetro, abominevoli fòssili,
turbati nella loro ciurmería.
Gole quadruplicate dall’axungia,
sacchi di stabbio in vesti di broccato,
ceffi tinti di stibio, malsanía,
stanno formando un governo di coalizione,
un concistoro grifagno e impagliato.
Se entro, cambiano súbito discorso,
io, grido angosciato di donna nel suo primo parto,
mi guardano come alimenti flemmatici,
borse di viscidi pesci, turgori da infarto,
babbuini eteròcliti, loschi batràci,
frégola che nasconde putridume:
soffocheranno il mio grido, il mio fiato,
mi metteranno a cardare montagne di piume.

(da Sinfonietta, 1972).


Più reale del reale, perché vero, tutto nuovo e rinascente, nessuna iterazione, nessuna stanchezza. In un testo il cui tema è il malessere del soggetto nei confronti del circostante (composizione chiusa al dialogo, centrata), in entrambe le parti in cui è strutturato, si leggono le contrapposizioni e il disgusto giudicante di un io che si autodefinisce «canna odorosa di una lontana estranía». Definizione che enfatizza la, a volte necessaria, distanza, per cui il poeta non si trova partecipe del male ma al contrario colpito da esso, nel raggiro dell’estraneità a un’idea di giustizia pertinente solo all’uomo. Non essendo presente un bersaglio reale, occorre leggere, nelle intenzioni del poeta, l’assolutizzazione del messaggio, perciò il raggiro è uno dei presupposti plausibili dell’alterità come esistente, non specificata in un quadro descrittivo. L’unità dello stesso esistente è crepata dalla «malsanía», da un malessere che può ripercuotersi su tutto, accadere, per questo il soggetto della parola ha il dovere di denunciarne la presenza nella sua constatazione. L’accumulo d’improperi inusuali, giocati sull’oscurità etimologica, sull’uso dotto e rielaborato dei termini, aumenta il distacco del poeta, ma il testo intenta uno scontro frontale col lettore, mostrando la richiesta dell’ascolto, anzi imponendola. All’io «canna odorosa» subentra, nella seconda parte, l’io «grido angosciato di donna nel suo primo parto»: una volta chiarito da quali «impurità» si prendono le distanze, occorre ristabilire il contatto e la scelta di Ripellino cade sull’origine, sul dolore netto che apre alla nascita, in contrasto bruciante con la mala-natura dei «babbuini eterocliti». Tutto il testo è una metafora dello scontro tra io e quella zona di alterità rappresentata dalla «malsanía», la deformazione e l’impurità del malessere, laddove il versante della spontaneità nascente agisce da contraltare positivo. La scenetta teatrale e allegorica, edificante, si conclude con l’immagine del poeta condannato a un supplizio la cui inutilità è correlativa al soffocamento della voce poetica («soffocheranno il mio grido, il mio fiato») a causa di un male, che oltre la sua verifica continua, non può essere estirpato.

(Marzo 2014)