di Daniele Greco
Artur Schnitzler, La signorina Else, Adelphi, 1988
di Daniele Greco
Artur Schnitzler, La signorina Else, Adelphi, 1988
di Daniele Greco
Samuel Beckett, L’innominabile, Sugar, 1960
di Daniele Greco
Luciano Bianciardi, La vita agra, Rizzoli, 1962
Trainspotting Poster by Parpa © (Fonte: DeviantArt)
UNDERCORNER – Rubrica per giovani lettori (Trainspotting – di Irvine Welsh)
Trainspotting è uno di quei libri che lasciano un segno indelebile nella nostra anima, uno di quei libri che è difficile dimenticare e che, in modo peculiare, diventano parte integrante del nostro essere.
La trama è semplice, quanto cruda, quasi impossibile da riassumere rendendo giustizia alle pagine scritte.
Non credo che Trainspotting sia un romanzo nel senso più tradizionale del termine, piuttosto una sequenza di pensieri e di riflessioni, di ricordi mischiati ad allucinazioni.
Non ci ritroviamo davanti ad una trama lineare né a capitoli numerati, bensì ad episodi scollegati, brevi racconti, legati da intermezzi denominati “Dilemmi del drogato” (numerati, almeno quelli, ma comunque in maniera discontinua, come se fossero parte di un libro che viene sfogliato svogliatamente).
Perfino nella struttura ritroviamo quella confusione, quell’apparente assenza di costanza che va in realtà a marcare i confini della monotonia, la stessa da cui i nostri protagonisti cercano di scappare trovando un rifugio nella droga e negli eccessi.
I nostri “amici” fanno parte di una delle tante combriccole di Edimburgo, nello specifico nel quartiere di Leith.
Chi ha più voce all’interno del romanzo è Mark, anche detto Rent Boy, ragazzo in affitto. E’ l’unico di cui conosciamo la famiglia e una fetta di passato e che ci fa indovinare la ragione del suo essere “trainspotter”. Per Welsh non è importante cosa abbia spinto i ragazzi a cominciare a bucarsi ma quanto essi provino, invano, a smettere. E’ proprio Rent il più determinato ad uscire dall’amata casa gestita dalla Madre Superiora per entrare nel circolo borghese fatto di tv e poltrone comode e lussuose, il cui squallore è la causa scatenante della sua dipendenza e di cui riesce a cogliere la misera monotonia e al contempo l’irrangiungibile tranquillità.
Spud, invece, a sua volta eroinomane, è il più debole del gruppo. Anche se, probabilmente, “debole” non è il termine più calzante.
Debole è colui che soccombe, colui che non ce la fa. Ogni personaggio di Trainspotting è debole. Perfino Begbie, che non si droga e che recita la parte del duro è debole, forse proprio il più debole, ma quello che sa nascondere meglio la sua debolezza, dietro un muro rosso sangue che puzza di alcool. Ma si può dire che Spud sia il meno meschino, il più ingenuo.
Sick Boy è, invece, il donnaiolo che non può mai fallire e che imprigiona con il suo sguardo da cerbiatto ogni donna che desidera. È uno stronzo, Sick Boy. Ma forse meno di quanto ci lascino pensare i suoi racconti.
È pur sempre umano e gli riesce impossibile, davanti alla morte in culla di quella che sapeva essere sua figlia, ricordare di essere l’alter-ego di Sean Connery.
Poi c’è Tommy, lo sportivo biondo che ha tutto ciò che si possa desiderare ma che, preferendo un concerto di Iggy Pop a Lizzy, la sua fidanzata, vedrà il suo mondo frantumarsi in mille pezzi e si lascerà cadere a sua volta nel temibile limbo dei drogati.
Irvine Welsh entra nella mente di ognuno dei suoi personaggi e dà voce a quello che vi trova, senza modificare un singolo verbo.
È anche questo che rende Trainspotting uno dei romanzi più crudi che io abbia mai letto: l’assenza totale di filtri.
Pur essendo il primo libro (e il più fortunato, grazie anche al film di Danny Boyle) dello scrittore, non vi è ombra di quel pudore e quella timidezza che è facile trovare in chi è agli esordi.
È difficile restare estranei durante la lettura del libro, astenersi dall’integrare alcune espressioni ricorrenti nel proprio linguaggio, è una condizione che dobbiamo accettare se vogliamo godere a pieno di ciò che la storia ha da comunicarci.
Diventiamo anche noi degli eroinomani, sentiamo ogni granello di angoscia posarsi sulla nostra schiena, ogni richiesta di aiuto sembra giungere alle nostre orecchie, chiara come se fosse vicina.
Ci ritroviamo catapultati in una realtà che vorremmo quasi non esistesse, accorgendoci di quanto sia vicina, di quanto sia facile varcare il confine.
Non riusciamo a condannare i protagonisti per le loro scelte, proviamo empatia nei loro confronti, eppure siamo consapevoli che tendere loro una mano sarebbe inutile.
Ma quello che rende veramente unico Trainspotting è la presenza, per nulla velata, dell’elogio delle doti dell’eroina agli occhi dei tossicodipendenti. Non abbiamo infatti la visione di un disagio provocato solo dal dolore, quello che più spaventa è l’ossessione.
La maniacale ricerca di un piacere assoluto e onnipotente, un attimo di vita, la ricerca di un’estasi, di una elevazione rispetto agli altri. Eppure, questo mondo di dannati riesce ad esercitare un fascino malato, viscerale, al quale non è difficile soccombere.
Non è il momento della “botta” che ci viene presentato come un inferno, bensì quello posteriore, quello dell’astinenza.
Sudore, dolore, allucinazioni, urla, cantilene che sembrano non avere fine, sensi di colpa, fantasmi… e l’unico modo per uscirne è andarsene, per sempre, senza fare più ritorno.
E’ questo che farà Rent, sceglierà la vita lasciando indietro tutto e tutti, un atto di egoismo assoluto e tradimento, per assicurarsi un futuro, un posto fisso in quel mondo borghese e agiato che tanto credeva di odiare ma al quale, in realtà, aveva sempre ambito.
Ma sarà quella vita di lunga monotonia che Mark sogna, abbastanza da eguagliare quell’estasi provocata dall’eroina e tanto elogiata nonostante le sue conseguenze?
Trainspotting merita un posto d’onore nella lista dei miei libri preferiti. Era da tanto tempo che volevo leggerlo e avevo molte aspettative, che non sono rimaste insoddisfatte.
Molti vorrebbero che la realtà contenuta in questo romanzo non esistesse, altri si rallegrano di non farne parte, altri ancora sputerebbero addosso ad ogni singolo personaggio se solo ne avessero l’occasione. L’unica cosa che io posso dire di aver provato, durante la lettura del libro è stata una grande empatia. Non so per altri, ma per me è il sentimento più umano di fronte a situazioni del genere. Perché, per quanti sbagli si siano fatti nella vita, nessuno merita di rimanere prigioniero in un inferno o di trovare un cadavere nella culla al posto della propria figlia, nonostante ritrovarsi ad affrontare i risultati del degrado, una volta usciti dal mondo di fantasia che la droga aiuta a costruire, sia un ovvio effetto di una totale mancanza di attenzione per tutto ciò che non sia la dose giornaliera di eroina. Consiglio anche il film di Danny Boyle, dalla meravigliosa colonna sonora, che mantenendosi abbastanza fedele al libro riesce a tradurre la percezione che si ha del film attraverso una fotografia e delle scelte stilistiche molto particolari.
Quella di Trainspotting, seppure scritta più di venti anni fa, è una storia che si può ancora dire attuale. Come previsto, le droghe sono cambiate e la sessualità ha abbattuto ancora tanti tabù.
Eppure, per quanto ci possiamo ripetere il contrario, è cambiato ben poco.
E non potremo, ancora una volta, trovare nessuno a cui dare la colpa.
Charlotte Westenra
di Daniele Greco
Ricardo Menéndez Salmón, Bambini nel tempo, Marcos y Marcos, 2015
di Daniele Greco
Claudio Piersanti, Il ritorno a casa di Enrico Metz, Feltrinelli, 2006
Nico Orengo
di Gianluca D’Andrea
Nico Orengo: una poesia da Cartoline di mare (1999)
Lo spruzzo che leva
la roccia trascina il
granchio sott’acqua
vicino alla stella marina:
è l’inizio di una cruenta
mattina.
Postilla:
La poesia “lieve” di Orengo ha bisogno di pochissimi segnali. L’apparato verbale ridotto non fa che sottolineare la necessaria precisione del nome. Precisazione, allora, che tenta di alleviare il dileguarsi di un mondo, quello della natura (Maria Corti lo rileva nella prefazione al libro da cui il testo presentato proviene) di cui a noi viventi non resta che certificare la mancanza.
Chi ha seguito il magistero della Corti è disposto a una nominazione chiara e consapevole di un’appropriazione, che può farsi possibile, della realtà, per accostamento: delicato e implacabile il nome sfiora il fenomeno e lo perde in un contatto che esplicitandosi conduce alla successiva scomparsa. Questa modalità operativa ha trovato un interprete in Orengo – il poeta adombrato dall’attività di romanziere e giornalista, morto prematuramente e anche per questo da riscoprire – ed ha un riflesso considerevole nell’evoluzione poetica di un altro autore che a quel magistero ha prestato profonda attenzione e che, forse, ad oggi, ne è il miglior interprete: Fabio Pusterla.
Le Cartoline di mare di Orengo sono un reperto che documenta e conserva la possibilità per il linguaggio di raggiungere il mondo gradualmente, attraverso un percorso d’osservazione e conoscenza che aspira ad abbattere le diffidenze per realizzare una maggiore empatia. Certo il mondo di Orengo si è sfaldato davanti ai nostri occhi e non ci resta che assorbire la mutazione, ma questo non deve allontanarci dalla responsabilità dell’apertura, a quel “diverso” che è ulteriore possibilità e conformazione. Certo, oggi la fabula pare immergersi nel buio di onde ben distinte da quelle marine – elettromagnetismi in fibra ottica, guide d’onda dielettriche al virtuale che si realizza – ma la “vecchia ed eterna” storia dei nomi, in questo scenario, può sempre dirci «l’inizio di una» non tanto «cruenta» ma sicuramente “altra” «mattina».
di Daniele Greco
Pier Vittorio Tondelli, Camere separate, Bompiani, 1989
di Francesco Torre
INSIDE OUT
Regia di Pete Docter.
Usa 2015, 94’.
Distribuzione: Walt Disney.
Riley ha 11 anni ed è l’unica figlia di una classica coppia borghese WASP americana, in trasloco dal Minnesota a San Francisco. Niente auto, robot o animali parlanti accolgono il suo arrivo, nessun supereroe accompagna le sue avventure. Nel suo orizzonte narrativo, solo sprazzi di ordinaria vita di città: una nuova scuola, gli allenamenti di hockey e la nostalgia della vita di un tempo. In compenso, però, dentro il suo cervello succede di tutto. Lì, le emozioni primarie influenzano ogni azione, guidando di fatto il destino della bambina. In tutto sono cinque e hanno le sembianze di colorati pupazzi digitali: Gioia, Tristezza, Rabbia, Paura e Disgusto. Osservano il mondo attraverso gli occhi di Riley come se fossero all’interno di una navicella spaziale, e manipolano ogni reazione tramite una pulsantiera, non sempre in modo consensuale. Ovviamente, entro i confini della mente della piccola non sono gli unici abitanti. Intorno a loro c’è un intero paesaggio di pensieri e ricordi fluttuanti, esperienze consegnate alla “sala di controllo” sotto forma di palle da bowling. Alcune di esse devono essere preservate e difese più di ogni altra cosa: sono le memorie centrali, e sono queste – sostiene il film – a costruire la personalità di un essere umano.
Pregevole per dettagli visivi, composizione delle inquadrature e scelte di découpage (un vero e proprio montaggio delle attrazioni), l’incipit di “Inside Out” si muove sinuosamente quanto disinvoltamente tra forma e contenuto, significati e significanti, gestendo nella maniera più trasparente possibile l’enorme mole di informazioni fornite e seminando opportunamente tutti i germi di un futuro percorso di affabulazione. Si potrebbe dire, utilizzando una metafora, un coloratissimo arcobaleno dentro un intricato labirinto, in cui però non si ha mai la sensazione di sentirsi perduti. Il primo pianto subito dopo la venuta al mondo? Ecco l’apparizione di Gioia che porta un sorriso. Un pericolo dietro l’angolo? Nessun problema, c’è Paura che sorveglia. E quando la mamma propone i broccoli? Disgusto farà le barricate. Perché le emozioni ormai anche nel rinnovato immaginario Disney si trovano nel cervello, mentre al cuore, organo vintage, non rimane che un ruolo da comprimario in un cortometraggio (“Lava”, proiettato prima di “Inside Out”) utile solo a fare da antipasto per il piatto principale.
In questo senso, d’altra parte, scomodare Freud o Oliver Sacks potrebbe essere fuorviante, perché il mondo iperfunzionale messo in scena da Pete Docter, già autore di due eccellenti regie Pixar (“Monsters & Co.” e “Up”), non prende mai seriamente in considerazione l’idea di rappresentare la complessità dei processi mentali, né di operare al fine di una divulgazione delle principali acquisizioni delle scienze comportamentali e cognitive. Lo si comprende fin da subito, da quando cioè il film ci mostra il primo sguardo di Riley sul mondo e la conseguente apparizione di Gioia, già investita di un ruolo di leadership. Come poter pensare di “addomesticare” l’urlo di un bambino appena nato credendo che si tratti di una miscela di paura e rabbia? Quel pianto di fame di vita sta – per dirla in termini sinestetici – in un’altra tavolozza, assieme ad altre forze primordiali, all’istinto di sopravvivenza, al desiderio, all’affermazione di sé, a quel senso cosmico dell’infinito che attraversa ogni fase dell’infanzia. E nonostante i realizzatori ce la mettano tutta per adornare il film con rendering piacevoli e intelligenti, creando peraltro un interessante dialogo tra dentro e fuori, tra pensiero e azione e tra azione e reazione (con la compresenza di due linee narrative tessute come una ragnatela su due tronchi dello stesso albero concettuale), pure il mistero e la meraviglia della vita, gli slanci e gli abbandoni, la costruzione del senso di sé come pure della propria identità sessuale stanno costantemente fuori da ogni singola inquadratura, sostituiti da un più banale ménage di problem solving all’interno di un paesaggio interiore che include in maniera manichea la famiglia, lo sport, l’onestà, ma non – per esempio – la sorpresa o il disprezzo: forse che Caino non è mai stato bambino?
Una scena dal film INSIDE OUT
Se questo eccesso di semplificazione, unito ad un pervicace intento moralizzatore (che nei precedenti film di Docter era oggettivamente meno incisivo, seppur nella ristretta gamma di sfumature offerta dall’universo Disney), genera effetti disturbanti e destabilizzanti nei confronti di un pubblico più culturalmente inquieto, ideologizzato o meno, c’è anche da aspettarselo. Il film, d’altra parte, non fa mistero di rivolgersi ad un diverso target di riferimento, come dimostra la totale assenza di prodotti culturali nella vita esterna di Riley: l’unica connessione musicale della sua vita è rappresentata dal refrain di uno spot pubblicitario, e per tutta la durata della proiezione neanche per errore è possibile scorgere sullo schermo la copertina di un libro. Molto meno scontato, però, è che in una produzione con un tasso così elevato di massificazione a livello globale, debolezze concettuali si trasformino in difetti drammaturgici. Se è vero infatti che l’adozione del classico schema narrativo del “viaggio dell’eroe” (Gioia e Tristezza nella “Memoria a lungo termine di Riley” come Alice nel Paese delle Meraviglie o Dorothy nel Regno di Oz, o ancora Pinocchio nel Paese dei Balocchi, e potremmo continuare quasi all’infinito) consente di racchiudere un percorso ludico-formativo all’interno di un cerchio perfetto, con tutto il noto repertorio di alleati e nemici, prove e sacrifici, semine e raccolte, qui l’azione latita così tanto che sono necessarie lunghe digressioni – pure straordinarie dal punto di vista tecnico-stilistico e colte sotto il profilo artistico e del richiamo cinefilo – quasi del tutto inutili per il prosieguo delle avventure dei protagonisti (per esempio le sequenze nei mondi di Immagilandia e Cineproduzione Sogni). Quanto poi alla dimensione dei personaggi, costruire delle figure statutariamente così poco soggette a mutazioni e sfumature psicologiche (come fa Gioia ad essere triste? E come può Tristezza coltivare la felicità?) potrà rappresentare certo un limite per la costruzione di dialoghi e situazioni brillanti, ma c’è davvero da chiedersi come mai gli unici veri elementi umoristici arrivino solo nei rari momenti in cui usciamo dalla “sala di controllo” per prendere una vacanza dentro la mente dei genitori, dei coetanei o persino di un cane che attraversa la strada. Troppo attento alla funzione “didattica” e più ancora a quella commerciale (il merchandising, i parchi a tema, l’induzione al consumo indiscriminato), il film insomma dà la sensazione di perdere terreno proprio sul tema dell’autenticità, dell’universalità delle pulsioni emotive, dell’empatia (forse il vero marchio di fabbrica Pixar), elaborando in vitro un blockbuster che assomiglia più ad un esercizio di stile che ad una fabbrica di sogni.
di Daniele Greco
Leonardo Sciascia, Il contesto. Una parodia, Einaudi, 1971