Un regalo di compleanno – Inedito

Present

Nella terra si perde la moneta
nel laghetto, nei pressi del laghetto
giunsi per riposare
la mia fuga maratoneta.
Non oso ripetere come si svolse,
la curva s’attorse dell’infosfera
ed era sincera, la vicenda dell’uomo
col sorriso emoticon dell’ottantotto.
Contiamo ogni vent’anni e siamo nella stasi
che qualcosa avvenga nel laghetto
oltre il riflesso e la noia e il rischio
che la bomba fosse fagocitata
dall’altezza e nel tragitto information
highways per blastare e dissare
in eterno l’altro, ogni altro
utile per essere distrutto
mentre riposavi la moneta
nei pressi del laghetto.

Ad Andrea

Lo spettacolo della fine – XXXVII.

Lo spettacolo della fine – XXXVII.

La fine di un libro di parecchio tempo fa è la descrizione medico-scientifica del processo di dissoluzione di un organismo morto.

Morte in vita, niente di nuovo, ogni morto che cammina, ogni zombi, è in attesa di concludere il suo ciclo, chiudere il cerchio, tracciare la parabola della fine.
Ma il mio corpo finirà in cenere e poi nello spazio assoluto, nella non-fine di un tragitto immaginato.
Osservai emergere dall’orizzonte
un filo scabro che divideva il cielo,
la notte stellata, l’onda di luce
dondolò un attimo
e infine gli occhi percepirono
l’urto del buio. Una terza linea
incendiò il quadro fino ad assestarsi
in un riflesso nero-scarlatto.
A lato della capsula una capsula,
un riverbero, una figura.
Ma fu un lampo perché le orbite
spezzarono la tangenza momentanea
e casuale che fu sostituita dal trascinarsi lento
in direzioni opposte delle capsule, come la fine
di un rapporto consolidato
nella sua ineluttabile
incompiutezza.

Dentro le ombre per farne semi – Inediti per Stanza 251

Reinhard

Fotografia di Bärbel Reinhard

Allora comincerò con un altro disegno,
un’altra carta, ancora una leggenda

Franco Fortini

 

I. Mentre la pioggerellina sorda

«In pochi anni un lago», disse l’uomo.
Il fiato in nuvole di vapore,
mentre il faggio, che ne accompagnava gli argini,
radicava dentro una pianura
alluvionale. Lo raggiunse
un ticchettio, una voce, un raggio
grigio e vecchio di quarant’anni.
Nel duemilaqualcosa calcolarono
nel duemilaqualcosa arcipelaghi,
corolle alpine e sopra cembri
e alghe dai cembri.
Torbiere, schizzi fossili,
riflessi sul thread dell’acqua e della luce.
L’uomo pregò il dio dell’acqua e della luce
ma il lago non era più lì. C’erano lappole
e faggiole cristallizzate nelle fauci del cinghiale
e nel sangue. Mentre una pioggerellina
sorda attutiva la preghiera, dentro,
sempre più simili a barricate, i primi
tre acri d’informazione.

 

II. Aironi scuoiati in pianura

Ci sono aironi scuoiati in pianura
e cicisbei che gocciano come ghiaccioli,
annaspano in un riflesso trasudando.
Oltre quel punto in pianura si disegna
l’orbita di una caduta. La parallasse
dall’occhio del cicisbeo all’ombra del tiglio
si riverbera in giugno, poco sotto i 40.
Col suo corpo sfilacciato l’airone
si tuffa in un mare più grande
e il tempo passa. Poi riemerge,
apparato psicometrico, termometro,
per ricompattarsi dall’altro lato
della caduta.

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Note su “L’indifferenza naturale” di Italo Testa (Le Ali, Marcos y Marcos, 2018) su Nazione Indiana

Oggi su Nazione Indiana una mia nota a L’indifferenza naturale di Italo Testa (Marcos y Marcos, Le Ali, 2018)

l'indifferenza naturale

Note su L’indifferenza naturale di Italo Testa

 

di Gianluca D’Andrea

Lo sguardo è lenta costruzione […] la mente rumina le cose
le afferma per sottrazione

L’indifferenza naturale

 

L’ultimo libro di Italo Testa sembra attraversato da una carica metafisica che fa leva sulla sospensione. La parola si fa basilare, tocca il basso e l’umido di una terra di passaggio che solo in lontananza sembra fare risuonare paesaggi realmente attraversati dall’autore.

Sicuramente balugina una necessità di rinascita ma essenziale, appunto, o “naturale” come l’in-differenza cui il titolo introduce e che suggerisce una percezione ambivalente: «la vita che ignota fermenta dai fossi / in un’onda di calore svapora» (pastura, p. 16, vv. 5-6), o ancora «guarda la vita che anonima fermenta / il ritmo uguale dei giorni senza meta» (la lenza, p. 17, vv. 1-2). Ambivalenza che, almeno nei testi da cui gli estratti sono riportati, sembra inoltrarsi nella terra di mezzo di una nominazione franta, da un lato sentinella di una presenza che si appressa ma, d’altro canto, che s’immobilizza nel “non nominabile” “di un’assenza” (come è evidente nell’ultimo componimento del libro a p. 117).

Partendo da questi estremi, nella divaricazione di una cammino che si dipana per segnali e intermittenze, è possibile rintracciare ombre di presenza in una realtà indistinta, limacciosa, cui sembra destinato a ritornare ogni segno umano (e, nello specifico, la parola della poesia). Ogni documento, potrebbe “realizzarsi” in un’archiviazione indifferente, in un enorme “no-cumento” – questo il rischio che le capacità di archiviazione attuali immettono nel nostro vissuto se si dimentica la stratificazione “geologica” che i segni producono – ma la poesia indica la direzione di un recupero, per quanto disillusa, verso cui sembra muoversi l’opera di Italo Testa, incluso L’indifferenza naturale che sembra porsi in posizione “originaria” rispetto ai depositi e alle stratificazioni successive di La divisione della gioia, I camminatori e Tutto accade ovunque.

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Lo spettacolo della fine – XXXVI.

Lo spettacolo della fine – XXXVI.

Come un filo d’argento,
come un serpente con le sue squame,
la nube era sorta all’orizzonte.
Le strisce gialle sulle pareti metalliche
rimbalzavano un bagliore bianco
soffuso. Ero immerso nell’osservazione dei fatti, eppure i miei pensieri sognanti e dispettosi mi fecero immaginare presenze. Una donna, dai capelli arancioni intrecciati che rilasciavano sfumature brune e riflessi mutevoli, si sporse da una delle pareti. La sua camicia larga e svolazzante, di un bianco sgualcito, spiccava su una gonna lunga, ugualmente sgualcita e di un rosso brunito, quasi vinaccia.
I fiori degli anni scandiscono il tempo (almeno nei miei ricordi vetero-libreschi) e la donna era l’immagine di chissà quale desiderio antico. Si muoveva ripetendo un unico gesto: sporgendosi dalla parete, piegava il ventre e si fletteva in avanti, ruotando il volto verso la sua sinistra, volgeva lo sguardo e non guardava, non lasciava trasparire alcun obiettivo, perché era la proiezione di chissà quale mio desiderio.
Chiusi gli occhi e sentii il torpore invadermi. Mi lasciai avvolgere dall’abisso e sparii.
Al risveglio, la donna ormai fagocitata nel cunicolo della memoria, guardai il riflesso sulle pareti,
il biancore suscitava un’atmosfera
allucinata. Le strisce di cielo
si riunivano per sganciare
fuochi propulsivi,
un’unica prospettiva
(come nella scena celebre per quanto arcaica di “2001: Odissea nello spazio”)

che scomparve,
mentre il giallo e l’arancione
cadevano, mescolandosi
in una nebulosa
sempre più vibrante,
sinuosa, da cui si staccò
come un serpente
con le sue squame
un filo di vapore
dissolvendosi infine
in un ultimo bagliore
d’argento in un’aurora
mercuriale.