IN GENERE RITUS di Andrea Ponso – Giuseppe Genna, “Io sono. Studi, pratiche e terapia della coscienza” (Il Saggiatore, 2015). Una lettura “in genere ritus”

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Angela Detanico e Rafael Lain, Pulsar, 2011. Animación, blanco y negro, loop

di Andrea Ponso

IN GENERE RITUS – Giuseppe Genna, Io sono. Studi, pratiche e terapia della coscienza. Una lettura in genere ritus

io-sonoSarebbe troppo semplice ridurre questo lavoro, fin dall’inizio di questo tentativo di analisi, ad una sola parola, la più comune e insieme imprendibile: Ecco. Questo sarebbe tutto, vertiginosamente e limpidamente tutto. Ma non sarebbe coerente con la fatica e il lavoro che comporta il cercare di sintonizzarsi continuamente all’altezza di questo avverbio. Proverò quindi, per sommi capi, ad attraversare questo saggio, in vista di un ritorno a questo suo cuore vivo e irradiante, attraverso alcune angolazioni anche di tipo teologico e rituale, per mettere alla prova queste ultime e me stesso, senza la pretesa di catturare e com-prendere riduttivamente la portata del saggio in questione.
Si pone da subito, mi pare, un problema tipicamente rituale, quello della relazione tra immediatezza e mediazioni. È chiaro che il denudarsi dei saperi è una pratica che non può essere ingenua, ma “semplicissima” sì, in tutta la sua difficoltà. Tutto questo sembra richiamare ad un tipo di pratica in cui tutte le varie dialettiche a sfondo dualistico (in pratica legate, sia positivamente che negativamente alla edificazione o distruzione, il che è la stessa cosa, della coppia oppositiva soggetto/oggetto) non vengono agonisticamente lavorate (sarebbe ancora un agone troppo e troppo poco “occidentale”, legato all’io e non al sé) ma, in qualche modo, disinnescate proprio attraverso le loro mediazioni: qualcosa di simile, se non sbaglio, all’hos me paolino.
Ad un primo livello, per capirci – poiché siamo comunque nella mediazione dei linguaggi e quindi costretti, ma forse ad un livello superiore anche liberati, a lavorare dal loro interno – potremmo dire che si tratta non di superare le mediazioni per andare all’immediato ma, piuttosto, di usare le mediazioni in una modalità che potremmo dire “inoperosa”, come culmine e fonte insieme dell’immediatezza coscienziale pre-categoriale (culmen et fons è precisamente la formula usata dai padri conciliari per il documento relativo alla liturgia, “Sacrosanctum Concilium). Ma, come abbiamo detto, anche questo è un modo di “dire” e non di praticare (e, tuttavia, al livello al quale si tende, anche la contrapposizione tra dire e praticare dovrebbe spegnersi): se tutto l’essere (non inteso in senso ontologico classico) è coscienza, allora le stesse mediazioni sono semplicità della coscienza – mentre opporvisi non sarebbe altro che, a seconda della pratica in atto, o uscire dalla coscienza (cosa per altro impossibile), o prenderle con la gratuità di un gioco, di un in-ludus che abbraccia positivamente anche l’illusione, che illusione non è mai. L’antipredicativo è ancora una modalità di dire, ma possiamo forse farne uso per disattivarne il pericoloso blocco – indietro verso il passato o in avanti vista del futuro – nell’intellettualizzazione propria del concetto.
Tutto questo porta ad una “delusione” che, tuttavia, non è mai ritiro o rifiuto dell’in-ludus, del grande gioco immobile e cangiante insieme della metafisica come concretissima e imprendibile presenza dell’io sono. Questa de-lusione è necessaria per non e-ludere il nodo fondamentale di questo lavoro, vale a dire la coscienza. È una delusione che spoglia, ma senza la falsa pretesa di una nudità come purezza e, quindi, come miraggio o idolo della realizzazione. Potremmo dire che, per certi versi, ci troviamo non di fronte ad un idolo della conoscenza ma, piuttosto, ad una icona: questa icona è precisamente, se ho capito bene, l’io sono, dove le varie prospettive linguistiche ed epistemologiche, e tutto quello che cade sotto il dominio delle mediazioni dei codici, non è altro che il nostro continuo cambiare di prospettiva e di posizione, una motilità che riguarda il soggetto nel suo osservare da diverse posizioni e punti di vista la stessa “icona”-io sono, sentendosi guardato con amore e compassione e guardando con amore e compassione. Come se, da soggetti, ci permettessimo nient’altro che una “vacanza” nella vacuità dei molti punti di vista della conoscenza, pur rimanendo, in fondo, sempre “a casa” come io-sono.
Vorrei ora soffermarmi, per qualche appunto, sulla parte relativa alla testualità che, dal mio punto di vista e dalla mia prospettiva, sembra essere in qualche modo ricapitolativa dell’intera pratica proposta nel saggio, agganciandosi a quella concretezza testuale in cui avviene l’auspicato abbandono dei saperi e una sorta di resa che, tuttavia, rimane concretissima – incarnata, potremmo dire, nella praxis testuale, proprio nel momento dell’emergenza del vuoto in potenza e presenza, che si fa sentire e percepire come accade, da una prospettiva cristiana, nel momento massimo della kenosi, nell’abbandono e nel grido extralinguistico e tuttavia interno al linguaggio e alla tradizione, del Cristo in croce. Questo grido, infatti, che ha una precisa indicazione testuale e di tradizione, proveniente dai salmi, come precisa citazione dell’evangelista, riesce a far passare dentro al linguistico ciò che da sempre “incombe” nella narrazione evangelica, dandole forma e trapassandola in ogni istante: qualcosa di simile, per certi aspetti, a quello che troviamo nella lettura dell’opera di Lovecraft fatta dall’autore. La kenosi che qui si intende risulta difficile da comprendere anche all’interno della fede, perché va a intaccare e a smembrare ogni sicurezza soggettiva, riaprendo quello spazio fondamentale di silenzio tra la domanda e la risposta che è precisamente il ritmo e l’interruzione testuale ed extratestuale insieme del credere: si tratta di un problema di “essere” intenso in senso ontologico classico, che né l’uomo cristiano né il suo Dio possiedono. In questo senso della ritmica interruzione, di quello spazio bianco e vuoto che non è altro che conciliazione con la morte e con la propria finitezza, mi pare che Simone Weil abbia colto il cuore del problema quando ha scritto che «ciò che rende l’uomo capace di peccato è il vuoto; tutti i peccati sono tentativi di colmare dei vuoti», e che «la religione, in quanto fonte di consolazione è un ostacolo alla vera fede, e in questo senso l’ateismo è una purificazione» (S. Weil, Quaderni, voll. 4 e 2, Adelphi, Milano 1985). In questo senso, restare nella sicurezza del proprio io soggettivo, rifiutando la finitezza come luogo della rivelazione è rifiutare la rivelazione stessa perché Dio ha rivelato precisamente questa finitezza come grazia, di contro alla presunzione della divinizzazione dell’ego dell’uomo: «la rivelazione di Dio è la vulnerabilità della carne». Ma c’è di più, c’è un qualcosa di talmente inudibile all’ascolto “religioso” consueto della kenosis, qualcosa di talmente spiazzante per l’ontologia occidentale, da portarci verso una pratica metafisica che, mi pare, anche in questo saggio viene delineata: nell’impotenza kenotica, infatti, non solo Cristo ma anche il Padre è vincolato alla finitezza e alla morte; anche Dio viene svuotato di ogni attributo, fino a diventare silenzio e vuoto, fino a rivelarsi in questa presenza vuota e carica dei possibili non pre-vedibili: «Dio ha abbandonato Dio. Dio si è svuotato. Queste parole racchiudono a un tempo la Creazione e l’Incarnazione con la Passione» (S. Weil, ibid.). Ed è questo il punto in cui si deve deporre ogni pre-visione e ogni ri-cordare, ogni gestione del sacro puramente linearizzante e “narrativa”: la fede, ricorda A. Neher, è «un campo d’azione infinito», privo di mete e di confini, dove «le cose non sono il riflesso di una realtà che le circonda o le illumina dall’esterno, ma sono soltanto se stesse, accartocciate nell’abbandono e nella nudità del loro proprio essere» (A. Neher, L’esilio della parola, Marietti, Genova 1997, pp. 200-219).
Ma è precisamente, mi pare, nella tragedia greca che troviamo la stessa forza alla sua origine sempre in atto, rileggendola oggi a partire dallo “zero” holderliniano. In qualche modo, infatti, la tragedia greca usa la rappresentazione contro la rappresentazione se, per rappresentazione, si intende la divisione “spettacolare” tra spettatore e scena: essa, infatti, essendo di natura rituale, diventa una macchina in cui non si può non entrare direttamente, diventando l’azione stessa e condividendone lo sparagmòs in un processo di frammentazione e dispersione che abbraccia tutto tramite la funzione dionisiaca – come, tra l’altro, dovrebbe accadere nel rito, e senza dimenticare che la tragedia greca era un rito. Dioniso, allora, non è altro che l’in-ludus, quello stare nel gioco in maniera non riduzionistica attraverso quell’eccedenza, quella “sporgenza” che non è “fuori” ma proprio al centro e dentro. Vale la pena, a questo proposito, citare per intero questo passo:

«Che accade fuori da Dioniso? Nulla. Dioniso, che Segal determina come “dio del personaggio e della finzione tutta”, è anche ciò che appare esternamente a Dioniso, ciò che apparentemente non è invasato da Dioniso. Qui interviene la giustezza di una definizione che vede nella tragedia una mimesis totale. Non si esce da Dioniso, come noi, vivendo, non usciamo dalla vita. Il passo metafisico che la tragedia compie e fa compiere è proprio relativo all’estensione semantica del termine “vita”: per chi è immerso in una comprensione metafisica del mondo, con tutti i risvolti iniziatici impliciti, la vita equivale alla sensazione di essere, e non c’è momento in cui si sia fuori dall’essere – anche se muore il corpo e l’identità psichica, non si è fuori dall’essere, pur non essendo persona, ma essere inqualificato, pura sensazione di essere. […] Discutendo della potenza dionisiaca che si incarna nella ritualità orfica, in questo percorso iniziatico che si fonda proprio sullo sparagmòs dionisiaco a cui viene sottoposto Orfeo che, smembrato, continua a cantare roteando la testa […], Colli rileva come “l’apollineità di Orfeo è più sapienziale, quindi sorge non soltanto da un’antitesi, ma anche da un legame con Dioniso”. Le apparenze narrate da Orfeo, il mito stesso che configura rapporti tra deità, altro non sarebbe che l’espressione della potenzialità finzionale presieduta dalla forza dionisiaca: letteralmente un’allegoria, una narrazione infinita che assomma storie di storie per significare l’infinità del non dicibile, e tuttavia mondana, praticabile: cioè l’ineffabilità dell’estasi che porta a esperire, a essere l’ineffabile».

Su quest’ultimo richiamo all’allegoria, poi, bisogna ricordare che essa, anche secondo la tradizione greca prima e patristica poi, per non parlare di quella ebraica, è esattamente questa capacità di fare spazio al non dicibile in uno spazio o testualità “pubblici” – non contro ma dentro un contesto di opinione dato o già compreso:

«La definizione di allēgoría […] parte dalla forma verbale da cui […] proviene la parola allēgoría cioè: állo-agoreúō. Questo permette di accostare il verbo a un campo semantico che richiama un’assemblea, un luogo di adunanza, una piazza pubblica (agorá). C’è perciò, nella radice del termine, una nota spiccata di pubblicità da contrapporre a qualche altra cosa (állo) dai connotati completamente diversi […] In questa definizione, il verbo sēmaínō diventa necessariamente un indice puntato verso l’alterità. Cosicché l’espressione hétera dè sēmaínōn potrebbe essere tradotta “dando nascostamente il segnale dell’alterità”. Il significato ultimo dell’intera frase potrebbe allora essere reso così: Si chiama propriamente allēgoría un trópos che implica un segnale nascosto di alterità di senso, rispetto alle cose che va dicendo in piazza o pubblicamente» (G. I. Gargano, Il sapore dei Padri della chiesa nell’esegesi biblica. Introduzione a una lettura sapienziale della Scrittura, San Paolo, Cinisello 2009, p. 100).

È quello che dovrebbe accadere nel testo e nel rito, per riuscire a sperimentare quel vuoto vivo dell’ecco, della presenza coscienziale dell’io sono non più concepito come soggettività ristretta all’io ma come partecipazione all’antipredicativo che, in ambito religioso-antropologico, può avere anche l’etichetta del sacro, mentre il “santo” sarebbe la sua estrinsecazione storico-narrativa. Ed è precisamente nella fondamentale anfibologia di queste due componenti che dovrebbero svilupparsi anche il rito e la liturgia; quest’ultima, infatti:

«pur mantenendo i tratti della comunicazione linguistica e culturale, è attrezzata per un metodico sconcerto del mondo ordinario per accedere a un originario pre-linguistico, che si sottrae. Per questo ha due nature, secondo il criterio teandrico che la costituisce. […] Quando l’a-priori della presenza del cogitatum alla cogitatio comincia a compromettersi nelle sue infinite modalizzazioni con la percezione e comincia a farsi sentire come emozione del sacro, allora si è di fronte a una specifica Erlebnis, che tende sempre più a venire a linguaggio nelle mitologizzazioni delle culture e delle tradizioni religiose. È a questo livello che il rito gioca la sua posizione strategica perché, a differenza di qualsivoglia altro linguaggio, fa da ponte tra il “protopensiero” indicibile e il detto mitico-religioso» (Roberto Tagliaferri, Sacrosanctum. Le peripezie del sacro, EMP, Padova 2013, p. 324).

E dico “dovrebbe” perché, anche nel rito liturgico, come nell’estetica, la rappresentazione o “la visione del tragico sembra avere sormontato la prassi del tragico” (p. 273). E non è un caso, mi pare, che l’autore, con l’aiuto di Benjamin, vada a cercare questa problematica distanza e questo distacco tra rappresentazione e prassi del tragico proprio nei “morality play” del medioevo cristiano, per approdare poi all’emblematico romanzo di Roth che proprio da queste rappresentazioni prende il titolo, Everyman, individuando al suo interno anche i sintomi di una tensione al tragico mascherata e continuamente disattivata; del resto, lo stesso Kerényi ha dimostrato che, in origine, doveva esserci stata una sostanziale continuità del culto dionisiaco anche nella commedia (Kerényi, Dioniso, Adelphi, Milano 2011, p. 304 ss.).
E, in questo senso, mi azzardo a far notare che lo obskené, lo spazio vuoto che sta “dietro”, abita invece sempre silenziosamente anche ogni frammentazione ritmica del testo e dell’azione: esso, nella pratica, è veicolato non attraverso la rappresentazione diretta, ma mediante l’oralità e le voci, i suoni e i rumori che vengono poi resi linguisticamente accessibili tramite il racconto; e che questo obskené ha la medesima radice della kenosis cristiana. Sono questi due punti che segnano la difficoltà fondamentale delle pratiche di scrittura e rituali che, invece, di solito, usano le mediazioni della rappresentazione e della pluralità dei linguaggi contro l’immediatezza che le mediazioni testuali e rappresentative dovrebbero rendere attive come presenza; una presenza che, anche nella fede, non può che essere quella kenotica come apertura tragica ai possibili e all’in-potenza.
In fondo, potremmo leggere tutto questo anche nella famosa parola che parla al profeta Elia, in quel “qol demamàh daqqàh” in cui daqqàh, che di solito è tradotto con “sottile”, deriva dal verbo daqàq che significa ridurre in grumi, frantumare, smembrare – ma anche l’inscindibilità ritmica di voce e silenzio, poiché questo termine sembra unire insieme demamàh e qol, appunto la voce e il silenzio, in un significante che non si piega mai completamente alla presa dei significati. Eppure, a seguire l’analisi del romanzo fatta in questo saggio, esso è ancora, con gran parte dell’estetica occidentale, in una situazione che, per continuare ad usare la narrazione biblica relativa ad Elia, ci perde nel frastuono difensivo dell’io come soggetto contrapposto dualisticamente e agonisticamente al mondo e agli altri soggetti, in una violenza o in una resa depressiva che ricorda appunto la lotta di Elia contro i falsi profeti di Baal, senza interruzione. La situazione di stallo e di crisi, in cui il tragico non viene più esperito ma solo rappresentato, è descritta in questi termini:

«Questa coappartenenza al tragico inteso modernamente stipula un patto tra il sé e la psiche, che è l’identità, patto che lascia fuori la realtà, la quale viene percepita in maniera assolutistica: o come cornucopia vitale a cui attingere o come assenza necessitata che induce dolore. In ogni caso, questo patto che costituisce il “narcisismo trascendentale” ha un nome: attaccamento. È un attaccamento alla propria identità (corporea, emotiva, psicologica), che rigetta la prova di realtà in quanto la realtà propone la morte e l’avvicinamento all’estinzione identitaria. Si configura così un rovesciamento totale della parabola confessionale esplicitata nel “morality play” Everyman, laddove la Morte domanda all’individuo, che non viene trattato in quanto semplice individuo, di dismettere l’attaccamento a se stesso, alle proprie conquiste materiali ed emotive e psicologiche. La parabola di Everyman 1485 è l’esatto opposto di quella che sembra (e non è) parabola Everyman di Philip Roth».

Come accade al profeta Elia, si dovrà attraversare lo smembramento anche della propria forza e delle proprie armi, quella contrapposizione agonistica che rinforza l’io e quella chiusura disperata e immunitaria che lo richiude in un deserto privo di distacco e di vero silenzio. Al culmine della sua parabola Elia dovrà paradossalmente riconoscere qualcosa di ben diverso, che in qualche modo lo relativizza come soggetto e lo libera dalle identificazioni solamente identitarie ed egoiche: dovrà imparare dalla mutezza e dal silenzio, proprio da una mutezza simile a quella dell’idolo di Baal che era rimasto muto durante l’agone. In quel “qol demamàh daqqàh” risuona silenziosamente anche la pace sotterranea di un altro smembramento biblico, di uno sparagmòs presente nella dinamica testuale di Qohèlet – in cui l’hevel è davvero radicale e coinvolge tutto, compresa la voce che lo dice, non verso il nichilismo, ma verso quell’in-potenza dinamica che ritroveremo in Bartleby. Qualcosa di simile, mi pare, è espresso in queste parole:

«laddove l’azione aristotelica conduce a un’esperienza della coscienza intesa come senso di essere al di là delle qualificazioni psicologiche, nel moderno e contemporaneo l’azione è al servizio dell’esplorazione della coscienza psichica, per quanto “segreta, interiore, interessante” e soprattutto “legata all’individuo”. Dioniso si interra a favore di un’unità monadica astratta: non è più l’individuo in quanto apparenza che è il punto di partenza di un percorso teso a raggiungere il distacco da ciò che appare reale ed è illusorio; è invece l’individuo come dato primario e ultimativo, che sarebbe eternamente concreto, se non intervenissero il dolore e la morte, che comunque non ne mettono in dubbio la consistenza ontologica».

Anche in Qohèlet si attraversano tutte queste contraddizioni e impuntature, con una capacità ludica liberante, in cui ogni frase, appena pronunciata, si cancella continuamente, si smembra in quell’hevel che solo da una prospettiva moderna può essere tradotto con “vanità” in senso moralistico: tale ricaduta morale, infatti, è precisamente il frutto di quello che in questo saggio viene stigmatizzato, vale a dire la fissazione riduttivistica sull’individuo come qualificazione psicologica, “interiore”, egoica. Non è un caso, forse, che lo stesso nome Qohèlet possa essere interpretato, nell’ebraico biblico, come un’azione e non solamente come nome proprio identitario: quella che chiama e raduna tramite la voce le membra sparse all’ascolto della sua parola orale – e questo radunare è contemporaneamente e sempre anche uno smembrare, un disperdere tragico e liberante a un tempo.
E non c’è, dentro al percorso accidentato di ostacoli su cui l’hevel/vento di Qohèlet si abbatte, qualcosa di simile al fischio non simbolizzabile di Giuseppina del racconto di Kafka analizzato in questo saggio? Scrive a proposito di quel “fischio” e di quel “canto” Genna:

«Cosa accade qui? Ogni resistenza, ogni ostacolo sortisce l’effetto che l’emissione del suo indifferenziato e potenziale si intensifichi. Qui siamo all’incrocio (che per la filosofia occidentale moderna è tale, mentre non lo è affatto: non è un incrocio, non c’è differenza) tra essere e divenire. […] Il divenire è ciò che offre resistenza all’emersione dell’essere nel divenire, cioè offre un ostacolo alla persistenza della sensazione di essere, che è il potenziale indifferenziato, da cui emerge qualunque cosa sia, configurandosi. E più la renitenza aumenta, più gli ostacoli si fanno duri da superare, più il divenire si intensifica – più la possibilità di avvertire l’essere si intensifica. Non è l’abilità di Giuseppina che intensifica il canto: la resistenza è un’occasione di fronte alla quale si offre un’intensificazione della Cosa, del non simbolizzabile – del suono dei suoni».

Non c’è storia in Qohèlet, nemmeno quella tipica del popolo d’Israele, presente quasi in tutte le narrazioni bibliche; e non c’è nemmeno Dio, potremmo dire, come accade anche nel Cantico, e nessun altro dei temi fondamentali e fondanti su cui si regge la costruzione propriamente religiosa della visione. Come non c’è storia nell’altro personaggio analizzato da Genna, il Bartleby di Melville. Il “personaggio vuoto” incrocia queste narrazioni senza mai linearizzarle richiudendole in una storia e in una sicurezza. Dunque, non c’è “storia” ma, come direbbe Qohèlet, “vento di vento” e presenza attiva del vuoto come azione e pratica narrativa – non c’è in realtà una “presa di posizione” perché tutto è travolto da quel vento/hevel, compreso il “personaggio”/voce che lo porta al linguaggio, ma da una posizione che è anche fuori dai linguaggi, quella appunto dell’azione e del gesto che convoca e della voce orale che fluisce e, solo successivamente, viene fissata nel testo per liberare e smembrare anche quello; una potenzialità, quest’ultima, incarnata nella famosa frase dello scrivano di Melville – I would prefer not to – che potrebbe essere avvicinata certamente all’aleph ebraico ma, ancora di più, a quella pausa vivissima e vuota che segna il ritmo dei salmi, il selah:

«La vicenda è la durata attiva del divenire di un personaggio vuoto: la vicenda è la narrazione (non il semplice racconto) che emerge quando in scena entra un personaggio vuoto. Essendo il personaggio vuoto una tremula e soltanto apparente configurazione del totale regime di possibilità di configurazione, la vicenda ne è il rappresentante narrativo: è la potenza della narrazione che sembra racconto e invece è enunciazione di un accadere, di uno stare per, immanente al mondo, di una potenzialità di senso mai richiudibile nel simbolico, mai riconducibile a una psicologia […]»

Per arginare questa potenza, certo, i redattori biblici hanno inserito, non a caso, sia Qohèlet che il Cantico in una tradizione che li vede come opera di Salomone, emblema su tutti della conoscenza e della saggezza. Ma anche questa mossa, se da un lato sembra andare contro al personaggio vuoto, per un altro ci dice che proprio al culmine dei saperi occorre abbandonarli:

«Deporre i saperi, ma non la consapevolezza degli stessi, è un’opera di svestimento che in prima battuta può apparire umiliante e scandalosamente illegittima, per un “io” occidentale. E tuttavia è un’operazione da compiersi, se si intende esporre la naturalezza della prassi metafisica come occasione di terapia».

Ecco.

Silvia Bre – Poesie da “La fine di quest’arte” (Einaudi 2015)

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Sebastián Piñera mostra il biglietto scritto dai 33 (fonte Wikipedia)

Silvia Bre – La fine di quest’arte (testi scelti)

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Ecco la notte, ciò che ti oltrepassa
e ti lascia dove non sei
dentro un altro dominio
dentro un altro.

Solo un gallo ancora muto che non vedi
è più che mai il suo canto
nell’aperto di un’idea, in un’alba
che viene e viene tanto che ti svegli.

*

Entierro

Dal 5 agosto al 13 ottobre 2010
trentatré minatori sono rimasti sepolti
nella miniera San José di Copiapó (Cile).

 

Fiore che si depone
ai propri piedi
e con il collo piegato dai raggi
devasta tutte le scene,
ecco che noi sorgiamo
eloquenza della pena
incatenati
dove l’aria sovverte il respiro
in archi tanto acuti che si muore
e la caduta è libera di cominciare.

Estamos bien nella terra che ci mangia
per atroce diritto, la radice da cui siamo
fuoriusciti di testa dentro il tempo
violento del cielo
quello del glicine
che si torce un braccio alla volta tra i sibili
e sale lungo le bianche sere
sulle notti, finché sboccia
crollando azzurro nel suo aprile.
Qui è nero, s’inala attesa
ed è una festa di ubriachi
estasiati dall’umido della vena gonfia
suoi globuli
a ristagno nella quinta essenza
al bordo di tutte le vite.
Che storia godere da vivi la fama dei morti:
ogni momento sta naturale nella sua purezza
come piombato in un emblema d’oro
ogni parola pesa il suo giusto
che è miracoloso –
ha nevicato in tutti noi oggi
perché qualcuno ha bisbigliato neve.
I nostri giorni adesso
sono vostri, son tornati da voi
i lontani –
noi ci accostiamo insieme
al denso cuore che rallenta
un’ala profumata leva le mani dalle facce
e sotto resta l’occhio
la nuda qualità che ci è propria
ci siamo noi nella povera luce.
Estamos bien qua sotto
come bambini nella disobbedienza
con questo senso che nel cervello
dorme e si sveglia al fondo
di un silenzio minerale –
il nome che ci detiene urla da solo
tatuato sui muri.
Nell’antro stretto il pensiero s’incurva
tanto vicino ai corpi da sembrare
uno specchio che ci osserva
è come se quello che diciamo
fosse ciò che prega d’esser detto
per rimanere intorno
come una stagione –
uno splendore minimo incendiarsi
allucinati non troviamo altro
lampi
dell’estate in un sudario.
Pare impossibile a quelli che eravamo
e ancora spostano i piedi scorticati
calmi nella memoria della terra
amandone la forma con le mani.
Noi cambiamo.
A turno uno veglia
ripara nella solitudine la tana
più insicura, la figura del vivere
mentre si sfalda teneramente, mentre
il fuori arriva. E molti dormono
tuffati nel guscio aperto
dove i mondi si urtano uno con l’altro
come all’ombra di un sole.
L’aria che ci respira è inesauribile.
Così lontani non torneremo mai –
ci riusciranno altri
quelli che stanno muti in fila per salire
sradicati come gli esuli, gli spaesati
i nati appena

*

La poca la povera cosa
si mette davanti, s’imposa
come una donna nascosta
in un velo da sposa.

E io maledetta che ho scelto
la sua parte, quel buio senza ritegno
in cui cadere,
la fine di quest’arte.

*

Quell’attimo d’agosto
dura ancora
la camminata l’arco
di un passare solitario
sulla città che scintillava
dietro i gas

la vita si era sciolta
dalle parole
tutta ferita
si trascinava via
ugualmente –
un male ce non smette
con cui si paga un po’ di conoscenza
una più chiara percezione del reale.

*

Lo si sa sempre
che verrà un momento
– è già qui in agguato è sotto è dentro –

in cui il disordine l’avrà avuta
vinta a tutto campo
senza neanche un superstite

un abc, un qualunque fondamento
generale, un solo gesto.

Ma forse anche le cose come stanno
hanno un ordine

tanto più vasto
da uscire dall’inquadratura

da non entrare mai
in nessuna mente

così il massimo di reale combacia
con l’astrazione pure

come quando la notte
essere e non essere
niente
si equivalgono.

*

So,
lie there, my art.

W. SHAKESPEARE
—-The Tempest

 

Ma se quelli raccolti intorno a un fuoco
i rapiti da una così lontana cosa da non essere lì
se quelli che sono qui perché son corsi
dietro un’immagine che li ha trapassati
prima di andarsene
e dunque noi che sentiamo le voci
venire dalla note
con le nostre parole e altri accenti
il loro insieme barbaro che sa le storie delle pietre
degli oceani
noi tradotti in un luogo sconosciuto per essere lacune
d’altri luoghi
segreti vivi che si pentono di non poter tacere

aaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaalba ti alzi
aaaaaaaaaaaacos’hai da raccontare che non sia
quello che porti nelle tue cellule di sole.

Le narrazioni (a cura di Daniele Greco) – Paolo Zardi, “XXI secolo”, Neo edizioni, 2015

zardi

Paolo Zardi

di Daniele Greco

Paolo Zardi, XXI secolo, Neo edizioni, 2015

xxi-secolo-paolo-zardiNel racconto di Paolo Zardi, “L’amore reclinato”, pubblicato per l’antologia La vita sobria. Racconti ubriachi (Neo edizioni, 2014, a cura di Graziano Dell’Anna), il protagonista si ritrova all’improvviso da solo, lasciato dalla moglie scappata con un altro e, nella nuova condizione forzata di single, si ritrova nell’inferno di serate alcoliche trascorse da solo o con amici che non sanno fare altro che parlare di soldi e di lavoro. In una pagina memorabile il protagonista, imbesuito dai superalcolici e alla ricerca di una parola umana di consolazione da parte degli amici, subisce la sfrontatezza di uno di questi che, ignorandone la sofferenza e mostrando tutta la propria anaffettività, non trova niente di meglio che suggerirgli il nuovo business nel quale gettarsi a capofitto: quello della coltivazione dei funghi.
A partire da questo tema, l’epifania della disumanità dilagante di questi nostri tempi, il nuovo e più complesso romanzo di Paolo Zardi, XXI secolo (Neo edizioni, 2015), tenta di raccontare la vita di un uomo che di mestiere fa il rappresentante di depuratori d’acqua, ha due figli e vive in una provincia italiana, di un lontanissimo XXI secolo, sempre più fiaccato, desolato e apocalittico. Qui la classe media è quasi del tutto scomparsa e al suo posto si trovano delle consistenti masse di sottoproletari abbandonati a loro stessi, in quelli che un tempo erano quartieri residenziali, fatti di villette a schiere o palazzine moderne.
Fin dalle prime pagine, all’uomo accade di dovere fare i conti con l’ictus che colpisce Eleonore, la moglie, riducendola in coma. Da questo momento il marito tenta di tenere insieme i pezzi di una famiglia che rischia di sfasciarsi per sempre, anche perché alla malattia della donna si aggiunge la scoperta di un telefono cellulare che conteneva le prove evidenti dei tradimenti della moglie.
Ritratto con uno stile rapido ed essenziale, il protagonista del romanzo è un uomo anacronisticamente di buon senso, una sorta di sopravvissuto, la cui unica colpa è quella di ragionare per categorie che appaiono desuete. E una di questa categorie, forse la più importante del romanzo, è la memoria.
Nel tentativo dell’uomo di cercare a ritroso i dati empirici del suo fallimento di marito, la memoria finisce sul banco degli imputati. Il viaggio alla ricerca delle amicizie della moglie, prima, della sorella gemella di colei e della loro famiglia austriaca, dopo, non è un nastro da riavvolgere per ritrovare la prova tangibile di una crisi di coppia sottovalutata. La memoria è una costruzione arbitraria, che sottostà a quel continuo e proustiano “plagio di sé stessi”. E l’uomo, infatti, finirà per maledire proprio questo tentativo di afferrare una causa o una colpa, perché avrebbe dovuto solo guardare dentro sé stesso e non fuori, per decrittare la “storia che si era raccontato per anni”.
C’è una pagina in cui Zardi, nella finzione del romanzo, attribuisce al marito di Eleonore la ricerca in internet di alcune informazioni sui danni irreversibili, nella moglie, all’emisfero sinistro del cervello e all’area di Broca. Attraverso questa spia intertestuale, Zardi sta camuffando nell’opera le sue notevoli competenze di autentico scrittore, che possiede una profonda conoscenza scientifica. Nella fattispecie, con questo espediente – si veda il riferimento esplicito anche al caso clinico di Phineas Gage – egli allude tra l’altro alle scoperte in campo neuroscientifico del celebre neurologo e saggista Antonio Damasio, l’autore di L’errore di Cartesio (Adelphi, 1995).
Se Damasio ha chiarito i meccanismi di correlazione tra emozione e ragione, che hanno tolto il primato al cartesiano cogito ergo sum; l’intenzione ambiziosa del romanzo di Zardi è quella di mostrare come ci stiamo condannando a vivere in un mondo disumano e brutalizzato, in cui persistiamo a dimenticare – come il dostoevskiano uomo del sottosuolo – cosa siano la vita vera, le passioni e i desideri.
Gli anticorpi allo sfacelo sono a un passo da noi, ma a patto che li si sappia riconoscere non nel chiacchiericcio del proprio cervello, il quale conduce molto spesso a una ottundente cecità cognitiva, ma in tutto ciò che genera quell’afflato emotivo che persiste a renderci ancora umani. Come accade nel finale dolente del libro che, senza svelare nulla, è il momento più alto della presa di coscienza del protagonista.

IN GENERE RITUS di Andrea Ponso – Per una auto-critica radicale: Elia scanna i profeti di Baal

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Gaspard Dughet, Il sacrificio di Elia sul Monte Carmelo contro i falsi profeti di Baal – Vita dei profeti Elia ed Eliseo (affresco delle navate della Basilica di Ss. Silvestro e Martino ai Monti, 1646-1651)

di Andrea Ponso

IN GENERE RITUS – Per una auto-critica radicale: Elia scanna i profeti di Baal

C’è un luogo comune, frequentato e promosso anche all’interno della religione cristiana, che andrebbe sempre riletto e criticato: è quello del “distacco” e del “silenzio”, del “ritiro” dal mondo e dai contesti in cui si opera. E dove operiamo, in fondo, anche quando siamo ben dentro la nostra quotidianità di vita e di lavoro, di opera e di creazione, se non in un immenso testo narrativo con le sue regole, i suoi blocchi identitari e le sue coordinate spazio-temporali? Sono i nostri luoghi familiari, le nostre convinzioni, le nostre relazioni con gli altri e con il tessuto-textus che ci costituiscono in gran parte – un luogo domestico, certamente, ma che non può mai essere addomesticato fino in fondo e, soprattutto, non può esserne addomesticata l’alterità che accade, volenti o nolenti, al suo interno.
In una prospettiva biblica tutto questo viene ampiamente confermato: sono i contesti familiari e generazionali, feriali e di lavoro, i luoghi dove passa e abita insieme l’alterità divina incarnata. Non c’è nessuna “purezza” come distacco nel senso consueto e riduttivo del termine in questa presenza: essa, piuttosto, pur abitando fino in fondo la nostra consuetudine di vita, ne diventa, a volte anche con violenza, una istanza estremamente critica – fatta di un estremismo tanto forte, a volte, proprio nella difficoltà di essere percepito. Eppure, fin dal principio della creazione, noi troviamo che il maggior aiuto donato all’uomo è qualcosa o qualcuno che gli sta di fronte e contro come alterità: mi riferisco in particolare a Genesi 2, 18 che, letteralmente dall’ebraico, suonerebbe “non è bene che l’uomo sia solo: gli farò un aiuto contro” – ma già molte traduzioni cancellano questa alterità e questo paradosso dell’aiuto contro, in nome di una “similarità” che spesso ha causato false visioni di uguaglianza, del tutto diverse dalla vera relazione, proprio invocando la retorica dell’alterità.
Da questa giusta prospettiva biblica viene la forza e il travaglio di una trascendenza che agisce, se la si lascia agire e non la si imbavaglia con il moralismo e la finta bontà, anche dentro le consuetudini di tutti i giorni e, aggiungiamo noi, di tutti i testi e di tutte le opere. L’opera, in questo senso, sarebbe precisamente lo spazio in cui lasciare che l’alterità sia davvero un aiuto contro, e così la critica, sia essa interna al fare stesso della creazione estetica, sia essa esterna e proveniente da un altro. È interessante notare che anche una delle primissime definizioni di “allegoria” come metodo esegetico in transito dalla cultura greca pagana a quella dei padri della chiesa, va in questa direzione di comparsa dell’alterità dentro un contesto di opinione dato o già compreso:

«La definizione di allēgoría […] parte dalla forma verbale da cui […] proviene la parola allēgoría cioè: állo-agoreúō. Questo permette di accostare il verbo a un campo semantico che richiama un’assemblea, un luogo di adunanza, una piazza pubblica (agorá). C’è perciò, nella radice del termine, una nota spiccata di pubblicità da contrapporre a qualche altra cosa (állo) dai connotati completamente diversi […] In questa definizione, il verbo sēmaínō diventa necessariamente un indice puntato verso l’alterità. Cosicché l’espressione hétera dè sēmaínōn potrebbe essere tradotta “dando nascostamente il segnale dell’alterità”. Il significato ultimo dell’intera frase potrebbe allora essere reso così: Si chiama propriamente allēgoría un trópos che implica un segnale nascosto di alterità di senso, rispetto alle cose che va dicendo in piazza o pubblicamente» (G. I. Gargano, Il sapore dei Padri della chiesa nell’esegesi biblica. Introduzione a una lettura sapienziale della Scrittura, San Paolo, Cinisello 2009, p. 100).

In fondo, è quello che accade anche nello spazio operativo e pubblico del rito come messa in crisi continua di tutte le acquisizioni religiose e anche di fede: esso non consolida i segni e i dogmi se non attraverso una loro continua e vivificante destrutturazione il cui motore è, in fin dei conti, quello che la teologia chiama “riserva escatologica”, vale a dire quell’impossibilità di catturare in un significato, in un dogma o in un segno la pienezza del senso della rivelazione.
Una lettura troppo spiritualizzata delle dinamiche di fede rischia sempre di perdere la concretezza grumosa e a volte anche violenta di tale alterità che si dovrebbe lasciar parlare nell’opera e nella fede. Ci si rifugia in un silenzio che pare accettare ogni cosa senza giudicare; la famosa “sospensione del giudizio”, in questo senso, è un puro e impossibile idealismo, che non fa bene a nessuno, né in campo estetico né in quello della fede.
L’esempio più significativo, tra i molti che si potrebbero citare dalle Scritture, mi pare quello legato alla storia del profeta Elia e al suo udire quella “voce di silenzio sottile” che sarebbe il dire e la relazione con il Signore. Elia è la figura del profeta radicale, capace di contrapporsi a tutto e a tutti, creando tensioni e sangue, tanto da essere bandito dal regno d’Israele; è il profeta che sfida i finti profeti di Baal vincendo, e che poi li massacra in un mare di violenza e di sangue … eppure, come molti esegeti hanno notato, Elia è un personaggio tragicamente “avvolto dall’ironia di Dio” perché poi lui stesso si lascerà convertire dal silenzio. Dopo la lotta contro gli idoli di Baal che, nella sfida, rimangono muti, l’ironia paradossale di Dio spinge Elia, nel momento in cui è abbandonato e disperato, fuggiasco e senza terra, “sotto a un ginepro isolato”, soccorso da un corvo, disperato non solo per se stesso, ma anche per il suo popolo e le sue opere – “io non sono migliore” (1Re 19, 4) – , a comprendere proprio attraverso il silenzio, per certi aspetti simile alla non risposta degli idoli di Baal, il senso e Dio che parla e si manifesta: “qol demamàh daqqàh“.
Se proviamo ad analizzare questa frase nel testo ebraico, ci rendiamo conto che non è niente di “spirituale” e privo di attrito, e che il suo “rumore” ci è quasi impercettibile perché interrompe ogni nostra rappresentazione, anche la più buona, non solo quelle violente e impregnate di sangue del profeta. Le parole ebraiche dicono: “qol demamàh daqqàh“. Daqqàh, che di solito è tradotto con “sottile”, deriva dal verbo daqàq che significa ridurre in grumi, frantumare; inoltre, lo stesso termine sembra unire insieme demamàh e qol, la voce e il silenzio. In questo ironico e concretissimo paradosso l’opera di Elia e la sua stessa vita mutano profondamente.
Ma questa “voce di silenzio sottile” era forse da sempre presente – solo che, nel frastuono e nelle dispute, viene dimenticata. Certi silenzi ci sfuggono, anche per lo zelo della propria critica giusta; e certi idoli li idolatriamo troppo, anche se in negativo, contrapponendoci ad essi senza comprendere il frastuono della nostra battaglia. Ma è una battaglia che va comunque affrontata, a costo di rimanere soli con un corvo e il niente della propria vita, a costo del fallimento e dell’abbandono di tutti quelli che formano il tuo “popolo”. Non è forse anche la critica estetica, come ogni altra, sempre pericolosamente viva solo in questo limite? Forse Elia, dopo tutta la sua vicenda, tornerebbe a lottare contro le torme immense dei profeti di Baal, ma con un punto di vista diverso, con un’azione più dura e dolce insieme. Se la critica non è radicale e non tocca in maniera bruciante anche la voce da cui proviene, non è critica e non è vita. Ed è una critica che mi assumo totalmente, nel mio piccolo, perché ogni critica è sempre prima di tutto rivolta a se stessi, è quell’aiuto contro di Genesi. Ricordo sempre queste parole di Gregorio Magno:

«Oh, come è duro per me questo che dico, perché parlando così colpisco me stesso. La parola di Dio mi costringe a parlare. Non posso tacere e parlando ho una grande paura di ferirmi. Parlerò, affinché la parola di Dio risuoni anche contro di me per mezzo mio» (Homiliae in Ezechielem prophetam).

Gianni D’Elia – Poesie da “Fiori del mare” (Einaudi 2015)

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Giancarlo Cazzaniga, La luce, dalla luce, nella luce (2006)

Fiori del mare – Nota di Gianluca D’Andrea

«J’ai plus de souvenirs que si j’avais mille ans»

C. Baudelaire

Memoria, ritorni ai luoghi e ai tempi di una storia privata che si poteva illudere di appartenere a valori morali condivisi. Scene immaginate e compiute attraverso un paesaggio reale ma sfumato, di continuo, nel ritmo disteso su tonalità note, in qualche modo rassicuranti (endecasillabi e strofe e suoni in funzione di un gusto del classico ma affranto dall’incomprensibilità – o il rifiuto? – del presente. Ma è proprio la forza cantilenante del ritmo a congiungerci col sogno del ritorno: nostos e noia, ma anche accensioni di un’umanità che nelle parole del poeta emergono, ogni tanto, dalla dispersione che tempo e spazio (una volta Storia e Natura) sempre producono.


Gianni D’Elia – Fiori del mare (testi scelti)

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Presenza

E lo sguardo, lo sguardo dato,
ridato e distolto di quella
bambina, per cui tu non sei che uno
dei tanti avventori del pianeta,

in una sera ormai non più estiva,
ai tavolini di un bar pizzeria
dove la gente mangia, passa, e se ne va…
E verso il mare camminando, alla riva

dei tuoi giorni sorpresi ormai
soltanto sorpresi, senza un’intuizione,
colpiti così da un poco d’avara emozione,
vuoi dirmi in una carta, – in lei,

in te, resterà?…

*

Lontano

Cosa c’era di bello in questa vita,
ormai fuggita dalla sala buia?…
Oh, pena, abbandono, furia tradita…
Parlavano nel bar, amico e amica,

con le specchiere e con le piante finte…
Parlavano un amore, amico e amica,
più doloroso dell’amore ed era,
era l’amore un poco folle e mite…

Confuso anche l’amore a lite,
ma quanto mite lite era nel cuore
di non saperlo dire: lira ed amore
d’amore ed ira e smanie altrove unite…

*

Fiore del mare

O un senso oscuro, di parole illuso,
chiare, come ciuffi d’aria gelida;
qui, dove il mare steso un panno azzurro
sbatte a un filo; qui, dove l’erba

verde segue muri serpeggiando e
volti d’ossido gassano i passanti;
quel senso strano che ci prende,
a volte, di passare sulla terra,

sotto il cielo, solo una volta,
di non poterlo dire o tacere;
come un fiore silente sulla sponda,
stordito dal brusco delle riviere,

nel profumo che spuma, pensosa onda,
la sua fragile presenza, dalle ere…

*

L’onda dei morti

Questi corpi spiaggiati, tra i bagnanti
delle coste e delle isole famose,
ci ricordano che arrivano i migranti,
il mar dei vivi, sull’onda più atroce…

Mediterraneo, sei tu la gran tomba
di questi fiori, che l’Africa cuoce
al sole di guerra e fame profonda,
gettati dalle barche e dalla croce…

Le ragazzine rom urtano i pasti,
le sieste delle belle e riunte spose,
gli yacht alla fonda e i grandiosi fasti
degli ebbri ricchi e delle troie in pose…

Onda dei morti, alla pietà non basti…
Gentile Estate, spuma tra i cadaveri,
ondeggia per ognuno che veniva
con la speranza gelata nei baveri,

cullali dolcemente alla deriva,
accompagnali Tu all’ultima riva…

*

Fiori del mare

Quante volte, passando tra i rifiuti
su questa striscia tra rotaie e mare,
abbiamo visto e nominato, muti,
le cose del deserto passeggiare…

Al brusio delle onde, i gabbiani, il monte,
la riva lucida e obliqua all’andare,
la luce di foschia sull’orizzonte,
la ghiaia di conchiglie, e il suo cricchiare…

Che oggetti d’uso, abbandonati e folti,
un pettine, una ciabatta, un flacone,
quanti fiori di plastica sepolti,
stampi di stelle, per quei giochi al sole…

Fiori del nostro mare, aspro e gentile,
confesse brame, memorie imbandite,
urbane schiume di una storia ostile,
di un gran sogno sconfitto in mille vite…

Raccoglie il flâneur i resti di molti,
testa di manichino, efebo fiore,
se si cammina alla resa dei conti,
mare sommerso da un mondo che muore…

Com’è votiva, quest’arte che muove
sul verdazzurro che spumeggia fondi,
cogliendo a volte, già fatte e scolpite,
le forme ardite dei sogni profondi…

Tra la risacca di legge smarrite
dopo ogni burrasca, sotto i due Monti,
come trincee rialzate, in gomme trite,
ecco natura e storia, strette e unite

nella sordina, che ci culla e intride
verso le ripe degli arcani mondi,
tra il nero asfalto e la scarpata gialla,
dove profuma l’arenaria d’alga…

Tra le cataste delle mareggiate,
tronchi e rami, grandi ossa sbiancate,
anche noi ci sentiamo in riva all’Ade,
cose tra cose, strappate e buttate…

Oh, soltanto in questa musica viva,
sul pentagramma delle crespe sciolte
come solchi di marea contadina,
trovano pace le note sconvolte,

se niente è dolce come l’andar vano,
stupiti da ogni bello a fior di mano…

*

La Poesia

-Ma a cosa serve, poi, la Poesia?…
-Oh, Lei, Penelope d’un lungo disfare,
a tessere la tela in empatia,
a sentire, a pensare, e più a filare,

fissando il mare, l’orecchio alla via,
cantando, nell’attesa più esiziale,
a fare e a rifare l’ordito d’eufonia,
celandone la trama più essenziale…

Oh, Lei, la dolce strega Poesia,
può fare a meno, sì, di chi fa a meno
di Lei, in questo Barnum di follia,
nel grande vuoto e frastuono del pieno…

Fragilità e potenza d’animale,
titania scienza, tecnica impotenza,
incubo al carbonio, shock nucleare,
minaccia e guerra a tutta l’esistenza…

Non Rosa altera, ma Lima severa,
l’umanità ritrova la sua scía
contro la forza e l’idiozia dell’Era,
perché s’affini il gusto al giusto, e sia…

Oh, luminosa inerzia di Sirena,
Lei, Rima canora dell’ecceità,
con l’onda che rema fino alla rena
la musica, che soli e insieme si fa…

Ricomincia così, la Poesia,
in quel lento riandare per la strada,
nello stupore e nella gran magia
d’ogni comune e più vuota giornata,

nell’umile baleno della via,
nell’arso dubbio, che si fa eresia…
Lei viene a visitarci nella sera
come una madre dal bacio leggero,

lasciandoci nel cuore che dispera
il fior del verde e l’ascolto del vero…
Ma nel Regno di Prosa, che qua impera,
sempre più lenta ormai si dà la Rosa,

ebbra costanza, nella notte nera,
il vino di Orfeo nel libro posa…
Stessa veduta, che il pittore vuole,
la dipinge il poeta con parole,

schiuma l’avanguardia, onda la tradizione,
pensiero, ardore, arte, rivoluzione,
pure se impazza la Restaurazione
e non ci resta che la Traduzione,

il verso scandito dall’emozione,
dal nome al mondo, sì, dal mondo al nome…

*

La tristezza d’Italia

Quando scende la sera sull’Italia,
e ci pare che mai quieta tristezza
possa essere disgiunta dalla varia
antica nostra servitù e bellezza,

questa sera dei secoli s’impania
allo scuro fulgore dell’altezza
delle piante sui tetti, oltre l’aria
di lavoro finito e d’infermezza…

Per sempre questo senso di bassezza,
di Video e Casino, Duce e Papalia,
tra nuovo fascismo e vecchia immoralia,
Teatro, Ospedale, Caserma, Mal’aria…

Tristezza e collera, doppio che si specchia,
quando dentro di te senti l’Italia,
mai popolo, mai patria, sottofondo,
splendido luogo e faziosa contrada,

genio di pochi e stoltezza di fondo,
Gran Circo dei Furbi e dell’Egolatria…
Così, si va dentro l’indaco fondo,
scordando la bruttezza che ci latra,

tra la noia e il pericolo profondo,
oh economia politica ladra,
mentre dalla finestra sul tramonto
la sera accesa è notte sull’Italia,

e vien la cara brezza della Baia,
l’Ave struggente dell’aria ternaria…

*

Dal boccaporto

Contro il grigio dell’aria, il nero velo
di catrame d’altane, è l’asfaltato
manto che sale, dalle strade al cielo,
dove batte il lampo del volo grato…

La luce scocca con l’ala di bianco,
che frulla veloce come il pensiero,
passando nell’aria grigia un incanto,
che si rinnova, di sorpresa, intero…

Di caro nella vita c’è nient’altro
che questo stare a lato del mistero,
quando mutato in slancio è il triste canto
di natura e di storia, pari al vero…

Il volo d’un piccione batte il pianto
su questa barca di mansarda al cielo,
dove sottocoperta, sgrondi od arda,
andando avanti e indietro nella stanza,

seduto o disteso, ammazzo il mio Evo,
per l’infinito, che ci gela e avvampa,
qui, dal boccaporto del luminello,
questa lente del cosmo e del cervello…

E come fissa, dietro a grigie sbarre,
sempre lo stesso quadro il carcerato,
ecco, al tramonto, quel rosso da estrarre,
il fuoco vivo al nostro preso stato…

E pare d’essere sopra un vetrino,
cellula sotto l’occhio del destino,
nel viavai della cavia che, girando,
qualcuno va scrutando e sorvolando,

tra i barconi dei tetti, in un barchino,
sul Mar degli Anni, che non dà mai scampo…

 

IN GENERE RITUS di Andrea Ponso – “Kenosi” e fede nell’opera

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Ford Madox Brown, Gesù lava i piedi di Pietro (1852-56)

di Andrea Ponso

IN GENERE RITUS – Kenosi e fede nell’opera

Nel suo saggio più famoso A. Neher sostiene quanto segue:

«La società umana, dopo il Sinai (meglio dopo la creazione), tiene nelle sue mani le chiavi silenziose del suo destino […] Che al limite questo messianismo ebraico possa confondersi con l’umanesimo laico non deve assolutamente stupire […] Credere o non credere in Dio, tale questione non ha senso sullo sfondo di questo silenzio-sfida. Ciò che è essenziale è credere o non credere nell’uomo» (A. Neher, L’esilio della Parola. Dal silenzio biblico al silenzio di Auschwitz, Marietti, Genova 1997, pp. 200 e 233).

Ciò che è essenziale, insieme a questo, potremmo dire che vale anche per l’opera. Tale considerazione di Neher si incontra in un importante studio di Roberto Tagliaferri – Sacrosanctum. Le peripezie del sacro – in cui si cerca la relazione tra sacro e santo, tra antipredicativo e linguistico, tra immediatezza e mediazione storica. Questo equilibrio paradossale, per salvare sia la storicità che il sacro come alterità mai del tutto addomesticabile, è da rinvenire, secondo il teologo e liturgista di S. Giustina di Padova, in quello svuotamento che si apre attraverso tutta la storia della salvezza e che chiamiamo kenosi. Cercherò di seguire le intuizioni teologiche di Tagliaferri per provare ad applicarle anche alla creazione estetica.
La kenosi divina inizia fin dalla creazione: Dio, infatti, si svuota della sua potenza, si autolimita per lasciar essere l’uomo; mentre l’uomo è chiamato ad accettare questo autoritiro e questo silenzio di Dio, che, come vedremo subito, è dono e non castigo. Ma, per fare questo, la creatura ha bisogno di accettare pure il rischio della propria finitezza, la non coincidenza e l’alterità del divino: solo in questa non coincidenza viene preservata non solo la trascendenza di un Dio che, tuttavia, si autolimita per entrare in relazione con l’uomo, ma anche la libertà dell’uomo e della sua singolarità che, così, non viene fagocitata e violentata dall’onnipotenza di Dio. Non accettare questo rischio e questa libertà donata è, precisamente, il peccato “originale” o, meglio, “originario”, di ogni creatura. Come dice giustamente Tagliaferri:

«la morte del peccato è legata alla conoscenza strumentale, che anticipa gli esiti per eliminare i rischi […] il controllo anziché il rischio: ecco la tentazione! Voler ricostruire la parte mancante, ovvero il silenzio di Dio, non accettando di essere di fronte a quel silenzio in posizione di obbedienza arrischiata: ecco il peccato! L’hybris della colpa originale non sta solo nell’assolutezza del conoscere senza scarti simbolici, neppure nella libertà di interrogare il silenzio di Dio, ma nella fragilità a resistere a questo silenzio. Il rischio dell’uomo è di vivere con le risposte veritative concluse senza accogliere il rischio della libertà […] il peccato è allora lottare contro la finitezza perché le risposte hanno messo fuori gioco la domanda. Il credente è un ateo che ogni giorno si sforza di cominciare a credere. Il cristianesimo non può darsi come una religione delle risposte ma come la religione del Figlio che regge l’angoscia della domanda senza risposta. Il peccato è trasformare il venerdì santo nella domenica degli annunci non consentiti. Partire dalla resurrezione significa non prendere seriamente la finitezza perché si parte dalla risposta del Padre misconoscendo il rischio di Dio, che si è consegnato nel Figlio rinunciando alla sua onnipotenza. Il rischio di Dio è di essersi consegnato all’uomo» (R. Tagliaferri, Sacrosanctum. Le peripezie del sacro, EMP, Padova 2013, pp. 285-286).

Parole che trovano un’eco sconcertante e perfetto in quelle di S. Weil quando sostiene che, allora, «il nostro peccato consiste nel voler essere, e il nostro castigo è credere di essere» (S. Weil, Quaderni. Volume IV, Adelphi, Milano 1993, p. 248).
Sempre la Weil ci può forse aprire la via per una riflessione che tocchi anche l’accettazione dell’incarnazione e della finitezza delle opere, nel nostro caso estetiche, quando sostiene che “la religione in quanto fonte di consolazione è un ostacolo alla vera fede, e in questo senso l’ateismo è una purificazione”.
A me sembra che queste parole siano di una portata deflagrante anche per il lavoro artistico e di scrittura: considerare la propria opera, quando c’è, come “consolazione”, come attestazione della propria presenza nel mondo, come idolo a cui l’io si aggrappa per sfuggire alla propria costitutiva finitezza e così eluderla, sarebbe come, per la fede, fermarsi ai miracoli e alle sicurezze del “dopo” – che non sono date e comprensibili o usufruibili nella concretezza della storicità, che non possono essere anticipate. Quando invece si salta il silenzio e l’abbandono, quel ritmo salvifico di attesa e propriamente di fede, tra la domanda e la risposta, tra il grido dell’abbandono dell’intera opera del Figlio sulla Croce e il silenzio del Padre che non risponde, il rischio è sempre quello di non avere fede proprio nelle “opere” (non in senso paolino, qui, naturalmente) e nella finitezza come luogo della rivelazione di Dio e della libertà dell’uomo. Tornando alle parole di Tagliaferri:

«Gesù è il nuovo Adamo che ha retto l’urto della creazione, della finitezza e della morte di fronte a Dio con l’obbedienza della sua libertà. […] Gesù non ha prodotto una strategia di elusione della condizione umana e della morte, ma ha accolto la finitezza come esposizione al mistero del Padre. […] La kenosi, la finitezza, la morte non sono negative, diventano tali quando non sono accettate. La morte ci avverte che non siamo dei, ovvero che non vi è solo l’identità mimetica. Il peccato è non svuotarci della falsa divinità con cui siamo nati. Il vuoto della kenosi serve soltanto alla grazia» (R. Tagliaferri, op. cit., p. 292).

Il meccanismo “economico”, per certi versi buono e auspicabile, del funzionamento e, nel nostro caso, della fruizione estetica, che si basa sulla immediata ricerca di una “risposta”, di un riscontro e di una visibilità che confermi ciò che già immaginiamo di sapere – vale a dire la nostra capacità di essere creatori di opere valide o almeno degne di essere chiamate e trattate come tali – tende a ridurre l’arte e la scrittura a nient’altro che burocrazia distributrice di sicurezze e di attestati identitari e sociali, di contro alla nostra costitutiva insicurezza e benedetta inconsistenza, come lo stesso Tagliaferri dice di una forma di chiesa piegata sul voler dare risposte e significati al senso della vita: «La chiesa sostituendo il Figlio con il Padre diventa la prima burocrazia del senso della vita, dispensando soluzioni storiche definitive in nome di Dio, quando sarebbe chiamata semplicemente al ministero della vulnerabilità di Dio» (ibid. p. 294). Allora, l’opera vera, come il Cristo, è da intendersi in questi termini:

«Gesù è il rivelatore del Padre, non nel senso che manifesta ciò che di lui è nascosto, ma nel senso che smaschera i meccanismi religiosi di garanzia in nome di Dio. Gesù è il nuovo Adamo che non crolla sotto il peso della libertà e del silenzio di Dio e che proclama lo scandalo più scandaloso: l’uomo religioso rischia di occultare Dio in nome di Dio» (ibid., p. 295).

Non succede anche nei campi dell’estetica che, proprio chi dovrebbe o vorrebbe difendere l’arte si ritrova in questo scandalo? Il critico, allora, come l’artista e lo scrittore o il poeta, dovrebbe essere un agente di smascheramento dei meccanismi estetici o para-estetici che vorrebbero garantire l’estetica come “burocrazia del senso” e dell’io, garantendo se stessi; e, naturalmente, questi meccanismi devono essere rivelati e disinnescati continuamente anche in ognuno di noi. C’è insomma, da sempre e oggi più che mai, una sorta di fariseismo dell’estetico e, nei casi migliori, non si tratta di una sorta di immoralità estetica: il problema è invece nel bisogno di garantire se stessi e l’opera dal silenzio e da ogni tipo di rifiuto o di critica, è non considerare la finitezza dell’opera come unico spiraglio verso la trascendenza; e questa fede nell’opera, anche quando è del tutto sincera, tradisce “la terra”, come direbbe l’Angelo di Wallace Stevens e, soprattutto, tradisce la grazia e la sua assoluta gratuità, il suo non essere mai riducibile a nessun legalismo, a nessuna “giustizia retributiva”. Tornando alla fede, leggiamo ancora le considerazioni di Tagliaferri e proviamo ad interpretarle anche in ambito estetico:

«La via legalistica e morale a Dio è il tentativo di rendere omogenea e reversibile la volontà dell’uomo con la volontà di Dio, senza il rischio della sorpresa dell’Altro imprevedibile. La legge omogeneizza Dio ai bisogni dell’uomo, oppure, sulla linea della tentazione del serpente ai progenitori, intende garantirsi la sicurezza dell’esito predeterminando un criterio di reversibilità tra l’azione umana e la salvezza. […] Al fariseismo e alla Legge Gesù oppone il Vangelo della grazia e dell’obbedienza arrischiata a Dio nell’accettazione totale della condizione umana […] la grazia, che fa piovere sui giusti e gli ingiusti, va contro ogni giustizia distributiva; la grazia è come il dono: non si regge sulla logica mercantile del contro-dono ma sulla gratuità […] La stessa intenzionalità del fare il bene rovina la gratuità dell’atto del dare perché bisogna sempre mostrare una certa superiorità verso gli altri […] Se Dio è grazia non abbiamo più nessun criterio di giustizia, l’unico criterio è l’obbedienzialità di fronte a un Dio che non si fa trovare. […] Nessuno può presentarsi a Dio con qualche credito, come ha intuito Paolo nella Lettera ai Romani: “Tutti sono sotto il dominio del peccato” (Rm 3, 9b). Gesù rivendica l’unilateralità della grazia. Il peccato non è quindi la trasgressione di una norma ma il voler essere rassicurati su come sarà l’esito, il peccato è non reggere il silenzio di Dio. Gesù ha retto questa condizione di vulnerabilità indicandoci che il più subdolo dei peccati è quello di usare Dio per rassicurarci» (ibid., pp. 297-298).

Essere “fedeli alla terra”, insomma, da una prospettiva di teologia cristiana ma anche di estetica dell’opera, non può che essere legato alla kenosi, a quello svuotamento che è accordo e fedeltà alla creazione e alla morte, come non solo il Figlio ma anche il Padre ha fatto: kai ho logos sarx egeneto kai eskenosen en hemin, come dice il prologo di Giovanni. Ancora la Weil ci ricorda che:

«il Cristo che guarisce gli infermi è la parte umana più bassa della sua missione. La parte soprannaturale è il sudore di sangue, il desiderio insoddisfatto di trovare consolazione nei suoi amici, la supplica di essere risparmiato, il sentimento di essere abbandonato da Dio» (S. Weil, Quaderni. Volume II, p. 199-200).

Non si può nascondere questo disagio sanissimo – un disagio che per primo è stato vissuto proprio dai discepoli e da tutti quelli che avevano lasciato tutto per seguire Gesù, trovandosi invece con una fine inspiegabile -, questo stallo che è anche abbandono fiducioso, e fiducioso nella grazia dell’opera più che nella sicurezza dell’artista o dello scrittore. Bisogna rimanere in questa impasse che libera e salva al di là di ogni sicurezza e previsione, senza ridurre il tutto a qualcosa di simile ad un “sacrificio” – come spesso accade per la stessa morte in croce, poiché, tramite il sacrificio, è più facile evidenziare la relazione di causa effetto – perché non c’è nessun sacrificio nello scrivere e nel creare l’opera, nessun maledettismo, nessuna negatività esaltata, nessun dolorismo nell’artista che abbandona se stesso e l’opera alla non risposta o all’imprevedibilità della stessa. C’è solo libertà, libertà da imparare e mai del tutto acquisita: libertà nella propria finitezza e in quella dell’opera.
In questo senso A. Neher parlava della fede «come un cantiere in aperta campagna», come «un campo d’azione infinito», dove «le cose non sono il riflesso di una realtà che le circonda o le illumina dall’esterno, ma sono soltanto se stesse, accartocciate nell’abbandono e nella nudità del loro proprio essere» (A. Neher, op. cit., pp. 200, 219).
Non potrebbe essere uno spazio simile anche quello dell’opera?

Per il fine settimana – Stefano Pini suggerisce Giovanni Turra

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Vincent Van Gogh, Scarpe con i lacci (1886), Van Gogh Museum, Amsterdam

Giovanni Turra, Con fatica dire fame

Issata sopra molle la mia testa
e balla a ogni alzata di spalle
e crolla giù. E se faccio no col capo,
mi si rovescia l’occhio nell’occhiaia.
Non ho equilibrio come vedi
né sostegno alcuno. E calzo
spaiati due trentotto, entrambi
destri. E non posso portar pesi.
Neppure la sportina con il miglio
e la foglia di lattuaga.
E quando con fatica dico fame,
mi accennano con gridi dalla strada,
non mi lasciano frinire.


Con fatica dire fame è la dismissione del poeta, della sua maschera, che cede alle necessità del reale. Giovanni Turra attua questa svestizione attraverso il linguaggio, con un lavoro di precisione millimetrica e gli endecasillabili che appaiono e scompaiono, un ritmo compassato ma potente di una poesia piena e consapevole. Lo scarto tra voce e mondo è incolmabile, ma non si può che dirlo, mentre si prova attraverso i segnali del corpo a esperire il quotidiano da cortile che è quello che possiamo. Una fame a cui siamo inesorabilmente costretti, inadeguati come si presenta il poeta. Questa fatica dovrebbe portare agli altri, ai compagni di appartamento, di palazzo, di città. Ma si finisce soli, con la propria penna. Umani troppo umani.

Stefano Pini

SARÀ IL MIO TIPO?

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Una scena dal film SARÀ IL MIO TIPO?

di Francesco Torre

SARA’ IL MIO TIPO?

Regia di Lucas Belvaux. Con Émilie Dequenne (Jennifer), Loïc Corbery (Clément), Sandra Nkake (Cathy), Charlotte Telpaert (Nolwenn).
Francia 2014, 111’.

Distribuzione: Satine Film.

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La distanza tra Parigi ed Arras è solo di 90 minuti ma a Clément, giovane professore di filosofia e autore di un saggio di successo dal titolo “De l’amour e du hasard”, il trasferimento temporaneo subito ad opera del Provveditorato sembra davvero una punizione infernale.
Jennifer, invece, ad Arras c’è nata e non sembra affatto vivere la propria condizione con sofferenza, nonostante gli impegni familiari (ha un figlio piccolo di cui si occupa da sola) e professionali (fa la parrucchiera in un salone del centro) le lascino margini di libertà davvero minimi, che perlopiù vengono occupati con esibizioni al karaoke.
Da un abbandono sentimentale a un altro, il regista – il belga Lucas Belvaux, una ricca filmografia tra interpretazioni e regie ma pressoché sconosciuto ai listini di distribuzione italiani – incornicia le storie dei due dapprima tramite un montaggio alternato e poi, dopo il loro inevitabile quanto inesorabile incontro, secondo i più classici dettami della screwball comedy, compreso l’archetipico percorso recriminatorio fatto di non detti, o peggio di bugie, di incomprensioni e fughe più o meno definitive.
Nonostante la prevedibilità di una struttura narrativa blindata, però, Sarà il mio tipo? (titolo originale Pas son genre, come l’omonimo romanzo di Philippe Vilain di cui è un adattamento) scolpisce un immaginario contemporaneo dei sentimenti autentico e, per certi versi, sorprendente. Innanzitutto grazie ad un audace uso delle cosiddette false piste.
Clément l’intellettuale, Jennifer la parrucchiera. Il primo frequentatore di mostre d’arte contemporanea, la seconda delle discoteche. Lui legge Proust e non possiede la tv, lei divora bestseller da supermarket ed ha una passione viscerale per i film con la Aniston. Gli elementi per una riflessione di stampo sociologico sull’impossibilità di incontro tra mondi così differenti sono tutti sul tappeto. E la sceneggiatura ci va a nozze, giocando con stereotipi e banalità che, però, non rappresentano mai per l’evoluzione – e la successiva involuzione – del rapporto sentimentale tra i due una vera barriera. Prova ne è che quando la coppia prova ad immergersi nei contrapposti spazi esistenziali (Clément al karaoke, per esempio, o Jennifer con la lettura di Dostoevskij) trova sempre un civile punto di tolleranza, o addirittura lascia emergere da dentro l’inconscio dei personaggi qualcosa di nuovo ed inaspettato.
Più di matrice letteraria, ma con tracce evidenti di cinefilia, è invece la riflessione retorica che il film ingaggia su filosofia e vita, amore ed erotismo, teoretica ed etica. La prima parte dello script è estremamente verbosa, Clément viene investito da seri dubbi riguardo l’origine e la direzione dei propri studi, e anche con Jennifer, il flirt nasce davanti a un bicchiere di vino con sottofondo di divulgazione di Kant per le masse. Nonostante i parallelismi, a tratti anche abbastanza parassitari, però, la sceneggiatura non incastra mai la riflessione filosofica e l’azione drammatica, o quantomeno non nel senso della grande tradizione di Rivette e Bonitzer, e nemmeno nel solco dello stile dei seguaci del Nouveau Roman, Resnais in testa. Modelli di riferimento evidentemente estranei, anche visivamente, al linguaggio cinematografico qui adottato da Belvaux.
Sebbene evidentemente non centrale e addirittura surrettizia, la presenza di questi due forti schemi interpretativi non sembra però mai casuale e assume anzi un valore quasi strategico, in quanto aiuta a celare per buona parte della visione la vera identità del film, che sembra risiedere altrove, nel corpo dei protagonisti così come nell’anarchica celebrazione del singolo momento di vita vera, unico e irripetibile nelle sue caratteristiche di bellezza e mistero.
Siamo nei territori di François Truffaut? Di sicuro non troppo lontano. Il linguaggio fresco e disinibito che accompagna la descrizione di Jennifer nel primo atto, ritmato da un motivetto pop e gestito quasi unicamente sui dettagli corporei, è da questo punto di vista quasi un manifesto stilistico. Sospensione del giudizio, regia mimetica, narrazione episodica, macchina da presa incollata sui volti, sui sorrisi, sugli occhi. L’intenzione sembra sempre quella di svelare i più segreti moti interiori, i sobbalzi emotivi, i repentini cambi d’umore dei personaggi. Il modo in cui il regista inquadra la sua eroina, poi, è un misto di adulazione e incredulità, simile all’estasi di chi si trova di fronte a un enigma inspiegabile e sempre sorprendente.
I due attori protagonisti, in questo senso, coprono lo spazio visivo sempre con grande intensità e personalità, ma è soprattutto Émilie Dequenne (la Rosetta dei Dardenne, che qui ritroviamo quindici anni dopo) a lasciare un ricordo difficilmente dimenticabile. Lucente, riempie ogni inquadratura di gioia e mistero. Come la passione amorosa di cui si fa interprete il film, priva di progettualità e raziocinio, inquinata da sovrastrutture sociali e culturali ma pulsante di autentica vitalità, capace di tutto e per questo incline, spesso, all’autodistruzione.

La citazione: «Io sono Bilancia, sarò sempre un po’ sognatrice».

LE MANI SULLA CITTÀ

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Una scena dal film LE MANI SULLA CITTÀ (1963)

di Francesco Torre

LE MANI SULLA CITTÀ

In proiezione Lunedì 18 maggio al Cinema Lux di Messina (ore 20.45) nell’ambito della rassegna cinematografica “LA VALIGIA DEI SOGNI”

Regia di Francesco Rosi. Con Rod Steiger, Salvo Randone, Guido Alberti, Carlo Ferrariello.

Complesso e stratificato, Le mani sulla città rivela – ancor più che Salvatore Giuliano – la grande padronanza tecnica del mezzo cinematografico e l’urgenza rinnovatrice del linguaggio di Francesco Rosi. Riprese aeree, piani-sequenza, ardite soggettive, zoom, dolly: con questo film il regista napoletano cerca e trova forme nuove per il suo progetto artistico, in un perfetto equilibrio tra bellezza e denuncia.
L’asciutta e diretta messa in scena dei meccanismi del potere politico (che il montaggio di Mario Serandrei scandisce con piglio formalista, esasperando il sofisticato labirinto di trame occulte che soggiace ad ogni decisione pubblica), l’iperrealismo della ricostruzione mai oleografica della vita nei quartieri popolari (indimenticabile la sequenza del crollo del palazzo, di straordinario impatto visivo), il rigore morale mostrato nella raffigurazione della morte (con la colonna sonora di Piero Piccioni che, di fronte al cadavere estratto dall’antro sventrato di un edificio, prende il sopravvento sull’audio ambientale, che progressivamente scompare, come osservando un rispettoso silenzio), ne fanno un modello di riferimento ancora oggi insuperato per il sottogenere cinematografico che rappresenta. Basti pensare all’entrata in campo del capogruppo della destra locale, Mangione, il cui vogatore verrà ripreso prima da Calopresti e Moretti ne La seconda volta, e poi addirittura dagli autori di House of Cards. Senza dimenticare che Le mani sulla città è il film che il Peppino Impastato del film I Cento Passi proietterà nel suo circolo “Musica e cultura”.
Modernissima, la pellicola intavola un dialogo anche con i movimenti rinnovatori delle cinematografie europee iniziati alla fine degli anni ’50 (Nouvelle Vague in testa: la sequenza pre-elettorale, con l’audio fuori sincrono, sembra rappresentarne un chiaro esempio), nutrendosi anche della nuova sensibilità interpretativa dei metodi dell’Actor’s Studio, di cui Rod Steiger, con Brando, Clift, Dean e Newman, è riconosciuto storica figura di riferimento. Ed è proprio il personaggio incarnato da Steiger la pietra angolare dell’intera operazione estetica, narrativa e probabilmente anche ideologica che Rosi intrapende con Le mani sulla città. Eduardo Nottola, consigliere comunale e imprenditore edile, è il prototipo dell’”uomo nuovo”. Il suo studio è degno di una contemporanea archistar, ed egli si erge sul panorama di una metropoli – raffigurata nel pieno disfacimento morale e ormai abbondantemente avviata verso la post-modernità – come un gigante, imponendo la forza del denaro e delle immagini ai perbenismi della piccola e media borghesia e alle astratte certezze ideologiche degli strenui difensori del proletariato. La forza profetica di questa rappresentazione può sbalordire, ma è sempre una fortuna poterne fare esperienza, soprattutto in un’edizione ottimamente restaurata e rimasterizzata come quella proposta in rassegna.

 

IN GENERE RITUS di Andrea Ponso – L’accusatore e la critica come rischio. Tra i Salmi e Qohèlet

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Francis Bacon, Study after Velázquez’s Portrait of Pope Innocent X, particolare (1953) – Des Moines Art Center, Des Moines, Iowa

di Andrea Ponso

IN GENERE RITUS – L’accusatore e la critica come rischio. Tra i Salmi e Qohèlet

Se le apparenze del male, sulla croce, ci salvano,
è perché le apparenze del bene ci perdevano.

Paul Beauchamp

La voce che dice “io” nei salmi è allo stesso tempo singolare e corale, è un io che si annienta per non estromettere niente e nessuno al suo interno; che ha il coraggio e la presunzione di dirsi molte volte “giusto” o “nel giusto”, ma anche quella di accusarsi come “peccatore” e “empio”. Questo dinamismo narrativo ed esistenziale che pervade tutti i salmi, sprigiona conseguenze fondamentali e utili per ogni esercizio critico:

«L’atto di accusa che pronunciamo contro noi stessi, non è spesso emesso da quel “giusto assoluto” che ci nutriamo segretamente in cuore? Un io “giusto” immaginario dalle radici profonde perseguita in noi l’io peccatore. Tutto questo è un modo che fa si che i nostri veri peccati rimangano nascosti: il nostro io “giusto” è il vero peccatore che si nasconde in noi sotto l’umiltà. Questo genere di orgoglio meno semplice di quello del fariseo è anche esso costretto a calare la maschera: quando i pubblicani sono per noi insopportabili, allora ci facciamo conoscere per quello che siamo. Bisogna pregare davanti al tribunale della verità. I salmisti si dichiarano peccatori e si dichiarano giusti. Per poter dire con verità: “in questo caso ho fatto male”, occorre poter dire con verità: “in questo caso ho fatto bene”. È una lezione dei salmi e ci porta lontano, se ci insegna a vedere chiaro dentro di noi. […] Credere che Dio ci vede giusti in Gesù Cristo sarebbe forse la maniera più conforme al Vangelo di avere, alla fin fine, vergogna dei nostri peccati e più comprensione per quelli degli altri”» (Paul Beauchamp, Salmi giorno e notte, Cittadella, Assisi 2004, p. 30).

«I salmisti si dichiarano essi stessi giusti, non sempre, ma abbastanza spesso perché questa abitudine ci meravigli un po’. Inoltre, essi pronunciano davanti a Dio delle parole talvolta terribili contro i loro avversari. Dov’è dunque la confessione delle proprie colpe, dov’è il perdono di quelle degli altri? Ma il fatto che il salmista assomigli più a quello che siamo che a quello che sogniamo di essere, è un motivo valido perché noi respingiamo questo specchio?» (ibid., p. 51).

I salmi ci insegnano quindi a non pensare sempre a noi, ma non nel modo più facile di comprendere questo insegnamento, ma, invece, in quello più profondo che abbraccia anche l’egoismo e la fissazione su noi stessi presente pure nell’accusarci di peccati e mancanze: la ripetizione del “non sono degno” o del “non sono ancora pronto”, “meglio fare silenzio e non esporsi” sono, in fondo, modalità difensive e quindi egoistiche, che usano l’umiltà come recinzione alla impropria presunta “proprietà privata”. La loro coralità narrativa e rituale ci insegna invece un altro tipo di umiltà, capace di esporsi anche con le sue ombre e con le sue parzialità – del resto, un’umiltà che negasse ombre e parzialità non sarebbe tale – non rimanendo schiacciata dalla finitezza – o difesa, sempre dalla finitezza e dall’inadeguatezza:

«la nostra preghiera ha pure bisogno di ripartire dal livello in cui la nostra umiltà e il nostro perdono non sono perfetti, non sono già bell’e fatti: essi devono passare in noi attraverso tutto quello spessore di esperienza di cui i salmi recano la traccia. Allora vedremo il nostro perdono passare attraverso le imprecazioni e sciogliersi in gioia. Le radici della confessione delle nostre colpe e del perdono del prossimo hanno assolutamente bisogno di questa terra più scura […] lo Spirito deve risalire lungo tutte le nostre radici, attraverso lo spessore del nostro essere. Non sarà per caso che, per aver dimenticato le radici dell’albero, noi gustiamo così di rado i suoi frutti?» (ibid. p. 33).

Bisogna avere il coraggio e la sfrontatezza di un grido che parta da questa finitezza “impura”, dalla nostra inevitabile visione parziale e singolare: non c’è altra via.

Io mi disfo a forza di gemere
(Sal 6, 7)

Sono stanco di gridare, la mia gola è riarsa,
i miei occhi si consumano,
nell’attesa di Dio
(Sal 69, 4)

«In questi gridi, si esauriscono gli ultimi residui di energia, si corre l’ultimo rischio: perdere la vita nel chiedere la vita, perdere la vita nello sperare la vita. La sostanza, l’essenza ultima della vita, è il desiderio di vita. Ma né la vita né la morte si confondono con il buono o il cattivo stato di questa o quella parte del corpo» (ibid., p. 60).

Questo grido, singolarissimo e incarnato, nel bene e nel male, nel suo contesto e nella sua parziale prospettiva, si trasforma, nella dinamica dei salmi, in qualcosa che lo oltrepassa, che oltrepassa le difese dell’io e degli stessi codici (è un grido, che sta sempre sopra o sotto i linguaggi), salvandone non, come si potrebbe pensare, la parte “migliore” o “giusta” o “divina” ma, piuttosto, la finitezza e la limitatezza: sono queste parti che, gridando, si liberano delle recinzioni difensive e rischiano appunto la vita, fino a perderla, per chiedere e sperare vita. Fatte le debite distinzioni, non si tratta forse della medesima dinamica critica che dovrebbe funzionare anche in ambito estetico? Non è un grido che, invocando la forza della parola e della poesia, non fa i conti con le conseguenze?
E’ certamente vero che, come ha scritto in un suo verso W. C. Williams, “i frutti puri impazziscono”: l’uomo che prende la parola nei salmi non si riconosce certo nella “purezza” e nella perfezione – anche e forse soprattutto quando si tratta di Davide, che la tradizione addita come autore del libro in questione e che, come sappiamo, si è macchiato dei peggiori delitti. Tuttavia, anche questa fondamentale verità non deve mai diventare uno schermo e una difesa per non prendere la parola, per non entrare nella relazione e nel suo inevitabile Πόλεμος – e anche questo, come abbiamo visto, i salmi e le Scritture ce lo insegnano ampiamente. Ci si ritrova, insomma, nella sincerità senza scampo della propria finitezza e della propria parzialità di sguardo; ed è in questo luogo finito e pericoloso che si apre il dialogo e il confronto autentico, in cui l’evento della comunicazione accade, cresce e modifica per sempre i soggetti che vi “prendono parte”.
Questo rischio di prendere la parola in maniera autenticamente critica ci viene mostrato ampiamente nel libro dei salmi. L’accusatore è una figura che entra fino in fondo nel male, rischiando in prima persona di diventare esso stesso il male: l’atto di accusare, nei salmi, è un male che rovina e secca le fauci, che rende lontani da Dio e dalla comunità ma, come ricorda Beauchamp: «è senz’altro inevitabile che l’accusa sia un passaggio inevitabile del bene, tanto che la Scrittura non manca di requisitorie messe in bocca a profeti, salmisti e a Gesù. Però non è quello il vero posto del bene, il suo luogo definitivo» (ibid., p. 70).
L’accusatore rischia il male, con la sua stessa accusa si scava la fossa:

Poiché egli ama la maledizione,
che essa entri in lui!
Si è avvolto di maledizione, come del suo mantello,
che essa penetri in lui come acqua!
Come olio nelle sue ossa!
Gli sia come veste di cui si ricopre,
come cintura che sempre lo cinge!
(Sal 109, 18-19)

Tutto questo è, ad un tempo, così vicino e così lontano dal nostro tempo e anche dalle diatribe critiche che viviamo o sopportiamo, proprio nel senso in cui ce lo mostra il biblista francese:

«questo mondo (quello dei salmi) tocca di continuo i veri problemi. Esso “scotta”, tanto ci è vicino qualche volta. Dubita dell’esistenza di un bene e di un male, ma non smette di moltiplicare fino alla saturazione, tramite la stampa e i discorsi, le migliaia di “condanne” quotidiane di tutte le colpe altrui e della società. Non si tratta, in fondo, di “servirsi di una cosa buona” per mettere in risalto la propria impotenza a dare vita al bene? Si, la Scrittura è difficile, ma la via senza uscita in cui ci troviamo cacciati è addirittura mortale» (ibid. p. 74).

Il rischio, a mio avviso, va quindi corso fino in fondo, a costo di diventare personalmente il “negativo” e il male che si autodistrugge da solo. La situazione è la stessa descritta nel vangelo di Giovanni:

«L’evangelista Giovanni ricorda i giorni del deserto in cui dei serpenti mordevano il popolo (Gv 3, 14). Mosè allora innalzò un serpente su un palo: colui che volgeva lo sguardo alla causa della morte resa visibile veniva guarito. Per noi che siamo ammalati di apparenze, di menzogne di giustizia, di false immagini di Dio, di una santità o di una carità immaginarie, veder morire e spegnersi tutte queste parvenze sulla Croce di Cristo, è quello che ci guarisce, che ci rende la vista sana.
Se le apparenze del male, sulla croce, ci salvano, è perché le apparenze del bene ci perdevano» (ibid. p. 75).

Prendere la parola, insomma, è una pratica e un luogo contraddittorio. Nella Bibbia c’è un libro che ha precisamente questo nome e, guarda caso, è uno dei più difficili e paradossali: è il libro di Qohèlet. Qohèlet è un nome proprio? È una funzione o un ufficio? Nell’ebraico biblico significa “colui che raduna”, o il “radunare” per l’ascolto: una coralità, come nei salmi, che in qualche modo esalta la singolarità distruggendo il cerchio protettivo dell’io; ma forse è anche il radunare i giudizi e la critica, ma il primo paradosso sta proprio in questo: niente rimane fermo e può essere trattenuto come verità sicura in questo testo dove tutto è hevel, “vento di vento” – comprese le parole, compresi pure questi giudizi negativi. Il secondo paradosso, serissimo e tragico insieme, è quello legato all’ironia:

«Secondo il suo etimo (dal greco eirúneia) la parola “ironia” contiene in sé l’idea di finzione. L’autentico, ignoto autore del Qohèlet, in un’epoca in cui il popolo ebraico era privo di monarca, assume la maschera dell’antico re potente e saggio, emblema della sapienza per dire la vanitas del potere, della sapienza e dell’eredità dinastica. Poi qualifica, con un termine che si richiama a una grande assemblea ebraica, il protagonista di un monologo cosparso di esortazioni prive di ogni riferimento alla storia di Israele. Infine, nonostante i tratti misogini presenti nel libro, opta per una forma femminile per indicare la funzione, in quell’epoca esclusivamente maschile, di prendere la parola in pubblico. Se così fosse, il procedere sarebbe un gioco ben conforme a un saggio che vuole comunicarci la vacuità del potere e del piacere e l’incertezza del sapere (P. Stefani, Qohèlet, Garzanti, Milano 2014, p. 21).

Tra Qohèlet e i Salmi, tra il vento che disperde e raccoglie e l’accusatore che rischia fino in fondo di autodistruggersi nella sua stessa funzione, nell’assemblea del suo piccolo o grande uditorio, conscio della finitezza come parzialità salvata, si colloca anche il nome di chi scrive queste righe. Nessuna parola è vana, in fondo, se, come in Qohèlet, siamo consapevoli della sua finitezza, della sua parzialità, del suo serissimo essere gioco – nemmeno quella che critica, nemmeno quella che accusa.