Libri crepuscolari III. – L’oscuro pianeta del ricordo: “Fermata del tempo” di Stelvio Di Spigno, Marcos y Marcos, Milano 2015

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Stelvio Di Spigno

III. Fermata del tempo di Stelvio Di Spigno

fermata-del-tempoNella dedica personale al libro, inviatomi da Di Spigno lo scorso giugno, c’è un piccolo errore cronologico: “Napoli, 16/6/2016”.
Parto da questo lapsus temporale, in apparenza insignificante, perché è proprio il tempo il vero dilemma nel ricordo dell’autore napoletano. Come in La nudità (Pequod, Ancona 2010, vedi una mia precedente lettura ora riproposta qui), l’assillo è l’epokhḗ, un senso di sospensione necessario ma apparentemente perduto – tranne nei luoghi e nelle persone vicine – riproponibile, per l’autore, religiosamente, come un dovere.
La «collera trattenuta», richiamata in prefazione da Umberto Fiori sembra indicare questa religiosità necessaria – anche se, contrariamente a quanto espresso dal poeta ligure, “esibita” – sul piano etico e in termini di volontà di ricostruzione comunitaria. Forse, a volte, la disposizione di Di Spigno sembra scivolare da assunti moralistici, ma è la “fermata” del titolo a giustificare una scelta di revisione e delusione nei confronti del mondo – l’aggettivazione utilizzata, d’altronde, manifesta disprezzo che aspira a concludersi in un cursus migliorativo; purtroppo non emerge innovazione ma ri-corso: «luogo sconosciuto», «reame straniero», «parole errate», «orrenda compagnia», «braccia tonte», «disordine celestiale», «gente brutale», «invertebrata lontananza», «oscuro pianeta» e così via. Di contro, l’aspirazione alla purezza, alla “nudità” (in tal caso, rispetto alla precedente raccolta, Fermata del tempo è il libro della speranza franta proprio a causa del ricorso memoriale): «il piantarmi a memoria in una strada con rimpianto, / frequentata anni fa con la prima delle tante, / ma più pura di tante altre tuttavia e comunque» (Questione di pronuncia, p. 41, vv. 3-5).
Certo, Leopardi continua ad agire sul pensiero poetico di Di Spigno, trasducendo la speranza in una neghittosità spudorata, aperta: «si rivolge il pensiero a questa gente brutale», «e sono io la vera eccezione» (Stazione marittima, pp. 44-45, v. 11 e v. 22), ma castrando la fuoriuscita della parola dal circolo ripetitivo della possibilità perduta, della nostalgia.
I testimoni della quarta sezione sono figure del crepuscolo, della scomparsa senza avvicendamento: «Sapere che non verrò più da voi / […] ricordo che non c’è più la casa / che voi siete in paradiso e nei ricordi» (Il pranzo dalle zie, pp. 55-56, v. 1 e vv. 14-15), oppure del richiamo a una diversità dettata dalla stessa parola: «Come vi ho rimediati / e di rimedi non ce n’è, nelle tare / della terra e del cielo, santi morti e sacro passato, / in orbita breve ma stellare / ci siamo ritrovati per poco / a camminare, annusare la stessa aria, / ragazzi fermi alla fermata della scuola, / mendicanti che hanno dato al nulla il loro stato, / abbiamo la stessa forma, le stesse ossa, / ma non cadremo nella stessa fossa, le date non coincidono, / ci assomigliamo ma qualcosa ci divide, / e questa cosa è la parola che invece condivide / e che io non conosco/ come vi riconosce il giorno aperto, / le stelle scese dal pendio, / la vita quando ancora era vita» (Trastevere ore quindici, pp. 63-64, vv. 1-16).
La colpa, altro tema imprescindibile per Di Spigno, in Fermata del tempo porta a cadute autoreferenziali, chiusure senza riscatto: «Non posso rinfacciare. Non ringrazio, non ho vita / da opporre alla fatica. Solo che non duri / il silenzio di quanto mi ha scaldato. Che il teatro / non mi resti sulle spalle senza attori. / Che non debba mangiarla fino in fondo / l’ortica che ho piantato sui miei passi. / E che Dio, in eterno, mi perdoni» (Contabilità infinita (Annum per annum), pp. 67-68, vv. 23-29).
Eco e stanchezza, alcune forzature: «cose e persone che sono ormai ricordi / s’infrangono nel sole, e ogni inizio è una fine, / questo dicono i tempi, bagagli alla mano. Orologio mortale» (Il treno per Sezze, pp. 69-70, vv. 6-8); autocommiserazione: «Non un ricordo, non un fiore da parte dei colleghi. E dell’amore/ una vaga rimembranza che è meglio allontanare» (Il sabato della supplente, pp. 71-72, vv. 8-9).
Qui la lezione di Leopardi, troppo letterale, si affloscia in analisi lontane dall’aderenza alla realtà dei fatti (autoreferenzialità, appunto) nel desiderio, quasi, che la “speranza sia veramente andata in pezzi”.
La riflessione sul tempo e sul ricordo sembra vivificarsi solo nelle figure del conforto, quando non si cerca più “qualcuno che somigli” all’autore per un ulteriore rispecchiamento. L’agnizione avviene nella diversità, come i bei testi della sezione La buona maniera (Saluto e Renata) stanno a dimostrare. Qui la speranza si riattiva in descrizioni ariose, compiute (i componimenti citati sono riportati in calce alla riflessione).
Nel complesso, Fermata del tempo appare come un libro d’attesa (titolo in tal senso pertinente). E si aspetta che, lontano dal rimpianto della perdita, la speranza si tramuti in nuova azione.

Gianluca D’Andrea
(Luglio 2015)


TESTI

Fotografie dell’epoca assoluta

Vittorio insieme a Bianca, Anna, Giovanni
in eterno sposato a Concetta e Giuseppina
col suo corsetto a vita di vespa nel ritratto,
non pensavo che infine tutti voi
sareste finiti lì sul secrétaire
dentro cornici di ferro istoriate,
con accanto ceri, lumini, santini e preghiere,
ma niente può impedire che domani
sarà un giorno di aprile del ’40,
e tutti noi tornati ventenni e atomizzati
ci incontreremo ai Tribunali o a Piazza Borsa,
con i vostri paltò e le vostre ghette e spille,
dove un sidecar ancora misura il senso
dell’onore, del decoro, del bruciore della vita,
con l’amore che è una pergola di rose
nell’antico tesoro di una piazza napoletana,
in mezzo al fumo che sa di ritorno e baci,
di riconoscenza per esserci stati,
o più semplicemente di umiltà prenatale
rocciosa e inebetita, un salto tra i pianeti
che accoglieranno tutti i nostri corpi
nel giro di valzer di un fascio di decenni,
dalla luce di casa a quella della sera,
dal silenzio del sonno a quello della fine,
dalle lacrime scioccanti alla risurrezione.

*

Prosa della madre incantata

Si muoveva per casa, come per dire basta.
Svuotava ceneriere, lucidava i fornelli,
e quando il guanto di smania la lasciava
chiacchierava col gatto e foraggiava il davanzale:
era la regina di passeri e colombi.

Era la madre, il principio di tutto:
per questo tratteneva
lacrime amare in sillabe cadenti: è tutto sangue
da travasare, e farà parte di te, anche se scalci e rifiuti.
Era una donna e insieme una finestra, mai cresciuta.

Da giovane il male lo capiva. Pensava ai figli
come a un lenimento. Non arrivò, ma ricorda
cosa pensasse nel ’66 o che indossava
il giorno del diploma, esattamente.
Dai suoi vent’anni non s’era mai mossa.

È in quei momenti che puoi domandarle
perché ha sofferto tanto e di quale dolore.
Perché l’ha passato anche a me. Se ama il mare.
Una volta l’ho raggiunta nel ’70:
non sono ancora nato ma parliamo,
sento la sua pietà come il suo sonno.
Ora è riversa dentro il suo rimorso, è sempre sola.
Qualcuno dice che anche questa è vita.

*

Stazione marittima

Una coppia di turisti che sembra penetrare
nel più diametrale benessere, nel più rischiarato
fidanzamento dell’ora finita al tempo eterno,
si imbarca su una grande nave, che da qui
non se ne vede la fine. Dove andranno? Partiranno.
E non c’è molto altro da dire. Il molo è plumbeo,
con topi e gabbiani in cerca di preda, di alghe
dove roteare in sentore di cibo, ben piantati anche loro
nel solco scavato tra terra e cielo da un motoscafo.

In forma di veliero sempre attento a non attraccare,
si rivolge il pensiero a questa gente brutale,
asfittica, reale, come reale è la cresta dei sogni,
mentre loro magnificano la materia senza senso
con la loro distanza, invertebrata lontananza,
un blocco compatto di materiale turistico a volo d’uccello,
eppure anch’essi venuti fuori da una vagina intenta
a procreare, nella quale, in quell’istante preciso,
si può leggere intera la microstoria dell’umanità.

Come è triste il paesaggio quando è umano.
Cosa darei per scamparne vista e udito. Ma ormai,
sembra pensare la mente accollata, essi sono dappertutto
e sono io la vera eccezione. Andate pure
in questa secrezione di pianto e saliva, di santità
e di sperma, fate il vostro viaggio, assalite il vostro giorno,
io mi ritiro dove l’ombra è chiarezza d’intenti,
l’impressione dà fuoco alle carceri e i canali di scolo
fanno da venature al mondo che verrà.

*

La voce corta

C’è sempre un anno che precede, con una voce corta
che ti dice che è giusto partire, rimescolare
le frasi, fare a pugni coi desideri e le intenzioni,
e c’è sempre un anno nuovo, nel quale è doloroso
tornare, rivedere volti appesantiti, anche se di poco,
perché poco il mondo si è spostato, giorno per giorno,
mentre pensavi che tutto passasse a rilento.
E ora eccomi qua, nella stanza come nuova,
tra pareti che non parlano più, e che a stento,
se potessero parlare, mi riconoscerebbero.

In mezzo sta il tempo che è passato, la smania
di andare a senso, il dubbio su cosa sia esattamente
quello che si passa vivendo, diventando, amando.
Stare bene o stare male, quando sei in questo guado,
non conta e non importa. Gli abiti saranno
più vecchi di un anno. Quelli che volevi gettare,
chiaramente rammendati, non potrai metterli più.

Proprio come una giacca mai indossata, finita e fuori moda,
è questa stazione del ritorno. Foraggiarne il ricordo
è come riaprire il guardaroba e trovarci
un cadavere allo specchio. I ragazzi della scuola,
la grande donna al bancone, lo screzio del collega,
cosa saranno mai. Ora più niente. Un oscuro pianeta
in una tasca interna, ma come mi manca
l’allegria di non sentire più me stesso, di potere
essere ancora e adesso, giocare a carte di notte,
andare avanti, senza sapere, senza prezzo.

*

Il pranzo dalle zie

Sapere che non verrò più da voi,
come facevo ogni sabato a pranzo,
ai tempi del liceo, ma anche prima e dopo,
fino a quando zia Velia scappò via
e divenne una lavagna del cielo,
ancora mi rende schiavo dell’amore
di rivedervi nella vostra casa,
con la radio, il telefono, i parati,
tutti comprati o abitati da almeno cinquant’anni;
e quanto era forte il laccio che ci univa,
lo scopro ora, quando il sabato mi sveglio
contento perché so che da voi devo venire,
poi mi concentro, il sonno lascia la mente,
ricordo che non c’è più la casa,
che voi siete in paradiso e nei ricordi,
e mi viene da piangere e vorrei
salire le scale e vedere cosa provo,
adattarmi a stare senza voi, ma non riesco,
allora tento di capire il perché del tempo,
e perché due angeli come voi
hanno lasciato sola la mia vita
a disfarsi, a dirimere la quantità
di giorni che separa la vecchiaia di tutto
dal mio presente di oggi, la nicchia
sterile dove vivo e dove ricordando
quanto è stato bello avervi accanto,
faccio di me un breve dirottamento
fino al vostro caseggiato,
e torno al mio peccato di un essere solitario
che si chiede quanto ancora ha da patire.

*

Il treno per Sezze

Nella teoria del verde dopo il verde,
arriva questo treno che batte ogni paese:
Sezze, Fondi, Itri. Campi, bestiame, cimiteri.

Si riavvicina pericolosamente
al golfo di Gaeta che ci attende inutilmente:
cose e persone che sono ormai ricordi
s’infrangono nel sole, e ogni inizio è una fine,
questo dicono i tempi, bagagli alla mano. Orologio mortale.

Lo sanno gli alberi che questa è una malattia.
Lo dicono i parchi che siamo già scaduti.
Persino il giornale a questa vista dolorosa
si fa più piccolo mentre salgono i pendolari.

Il bruco del treno ritorna nel presente,
nel gorgo della folla e nella pratica del niente.

Ma io che baratto volentieri morte e cecità,
rivedo un letto che odora di lavanda, l’anno ’85,
stanze in affitto e la casa di via Filiberto.

Nelle notti più atroci tutto prende il colore del sangue,
le pareti fanno un giro intorno all’aria, come le parole.
Quella gonna, quel momento, quell’odore,
il calvario di quell’attaccapanni, sigarette con belle compagnie,
mentre noi andavamo a dormire come altari umani,
rimboccando le coperte al domani:
niente è reale di ciò che verrà dopo.

*

La cerniera

Il taxi vibra dentro un cavalcavia
tra San Lorenzo e il Verano, nel quasi buio del cielo,
sembrano buoi o bisonti le nuvole in sequenza.
Nell’auto è il corpo, un grumo di tristezza.
Rimasta al palo, come in un museo, l’anima
brilla nei saluti a mezzo stampa: è qualcosa,
una larva che disegna parabole nel grano
che ammucchiamo tra le stelle e il desiderio.

Resta sul mare, accende alghe come torce,
ogni volta che il ricordo
si fissa sulle labbra
come sale sul mosto. Non ci sarà
caduta di pernici o macchie di camicia
a riportarla indietro. Resta lì,
come fosse la promessa di un mulo
o soltanto una parola detta sporca,
quest’anima feroce che rifiuta di obbedire.
Dove tutto è semplice, ruvido, invernale,
quello è il luogo che ha scelto dove stare.

*

Visione nominale

Era una piega alta nel cielo
arato e notturno di solitudine e tuoni
e pioggia sulle spiagge d’inverno
all’imbrunire, era tutto e solo da capire,
quel vento angusto che non disturbava,
era l’amore, la speranza infinita, la canzone
invalida, estatica della felicità:
era la donna che ti stava accanto, era tua madre
e tuo padre, era mio nonno che saldava i destini,
il sabato quando don Biagio veniva a pranzo,
la campagna e l’asfalto nella loro lotta, e ora
la fine di ogni cosa nel suo dimenticarsi
di te e del tuo tempo migliore, il silenzio
della casa di Anzio, tu lontano da tutto
che pensi distrutto agli anni del liceo,
il cuore che batte senza un movimento,
il tempo che non avanza di un momento.

*

Saluto

Il sangue si avviava lontano nelle vene
mentre andavo, buttato fuori dalla bocca di qualcuno,
in una bella notte opaca per il grandissimo vento
verso il bar delle mele marce a passare il mio tempo,
distinguendo appena se era la mia città o no quella
dove finiva la coda di case in fondo a Macerata;
ero lì da molto o me ne sono andato
non saprei dire quando vennero a offrirmi
la palma dell’ultimo arrivato, il benvenuto
che si dà a un cane lupo rimasto senza denti,
ammesso che tu non voglia flagellarlo per amore
o sparare a un piccione con quella stessa faccia
di chi chiede a chi viaggia come stai.

*

Renata

a Renata Morresi

Roma arrancava con lavica lentezza,
inondando il suo requiem da tanto preparato,
perché quando si vuole morire di mercato lo si fa
con cura, con rigore e tremore indifferenti.

Mentre lei, tranquilla, senza demoni e domani sulle spalle,
quasi estatica aspettando
il treno per Fiumicino, per il viaggio programmato,
ha accettato di partire con me, l’eremita
che consuma i polmoni di Partenope.

Calma come l’acqua su un costone di marmo,
una Ruby Tuesday nell’arco di Pallante,
mi prende su la mano tremolante,
fa sua la paura che ho nel corpo e
la fa evaporare – mi dà tutta la sua serenità,
la avvia come un magnete, rende forte
anche chi ha paura di solcare laghi immoti.

Bella come una zingara che canta, non rimpiango
che non sia la mia donna, non fa niente,
se un poco ha condiviso la fatica
delle mie ossa stanche e divorate.

È lei la donna che sa stare al mondo,
la regale signora felice ovunque e sempre,
amante, curiosa e folle quanto basta
per non essere la cifra di un numero mancante.

Libri crepuscolari: 2 note – II. “Addio mio Novecento” di Aldo Nove, Einaudi, Torino 2014

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Aldo Nove

II. Addio mio Novecento di Aldo Nove

addio-mio-novecentoL’accumulazione verbale è il tentativo memoriale nonché la testimonianza epocale della fuggevolezza. Se il contemporaneo, tempo eterno della scomparsa, riduce il linguaggio alla sua ultima performance nel recupero iper-esposto di ciò che resta dell’umano – nel ricorso al fantasmatico come unica presenza -, allora l’ultima operazione di Aldo Nove riflette la fine della cronologia e s’interroga sull’ineluttabile (eppure direi scontato) annientamento di un ethos. La fase terminale del nichilismo, in Addio mio Novecento, ammicca farraginosa.

Il tempo

Vedo un fiume di gente
scorrere verso la storia.
Il fiume è la memoria
di ognuno. Il resto è il Niente
che lo contiene.

(p. 92)

Da metafore logore come quella nel testo appena letto si srotola la minaccia ambigua, sorta di ricognizione approntata con fiacchezza, di un percorso che si sfibra tra il rimpianto nostalgico (anche se in quarta di copertina appare il riferimento alla fine della memoria, le pagine del libro non spiegano quest’estinzione presunta) e l’accensione aurorale di un nuovo tempo, i cui unici indizi sono rintracciabili nelle referenze religiose, testamentarie, non per questo rinnovabili e riattivate, soprattutto nell’ultima sezione (Un matrimonio).

Un matrimonio

        Come nastro di porpora le tue labbra,
pieno di fascino è il tuo deserto*

Cantico dei Cantici, 4,3

Esplodono, orizzonti ma più piano
di un attimo, attraversano
ed è ovunque
il centro dove vanno. Depositano acqua
e ritagli di pietra
leggeri,

che sono una famiglia, tra gli specchi
che da millenni salgono
e scendono, e sono
il movimento, è
noi per sempre
che ne siamo parte,
ciò che diventa,
è il tempo,

è la tua bocca
è il tuo respiro amore
e sono gli occhi
è tutto il mondo
il grembo

* Midhàr significa, in ebraico, deserto.
Nella vulgata greca è tradotto con bocca.

(p. 104)

Le due dimensioni del libro formano un agglomerato in cui passato e futuro, collidendo, dovrebbero definire il presente. Invece di un’eternità della scomparsa, Nove realizza un tempo assoluto che sfugge al momento, auto-riferito, esplicitato nelle proprie cognizioni e ideazioni. Per schermare il “Niente” si tentano nuove definizioni del reale, ma in astratto e il lettore è assorbito dal senso costrittivo dei termini:

Sempre

Non è così che è, ma sempre.

(p. 84)

Reazione espressiva in perdita per un autore che ha vissuto la stagione post-moderna, cadendo infine nella tentazione visionaria della “fine delle ironie”, in una religiosità residuale, imbarazzante, a volte, per semplificazione “metafisicheggiante”:

Lo spazio

Vedila, la metafisica. È una piazza,
ne sei il movimento
che mentre ci passi
si espande. Lì
esiste, soltanto, la piazza,
e vibra nel tempo
e cade una foglia.

Tu lo sai
che nulla è più solo di un posto
e nulla che spieghi una foglia
se ovunque non c’è che universo

(p. 34)

Addio mio Novecento è libro del crepuscolo (come il titolo stesso indica nel suo richiamo, purtroppo capzioso, alla divinità cui sembra affidata la storia personale e collettiva e a cui sembra raccomandarsi il distanziamento nella scomparsa del tempo e della memoria) in cui la cifra caratteristica specifica, la costruzione asindetica, ha come conseguenza la resa singhiozzante di un messaggio dalla sintassi opaca. Il linguaggio aspira a un’elevazione (anche rispetto ad altri tentativi dell’autore) ma resta radicato al “tempo delle discoteche” (il richiamo è a un testo presente nell’attuale raccolta ma recuperato dal precedente Fuoco su Babilonia! pubblicato da Crocetti nel 2003), cioè al tempo in cui si esaurivano – in attesa di tempi migliori – le facoltà affabulatorie, ammiccanti ma consapevoli, di Aldo Nove.

Addio Mio Novecento

Contro il sogno banale della luce,
il suo volgersi in versi di Den Harrow,
la camicetta scollata m’aprivi
la sera mandarina duck di tutto.

L’amore al tempo delle discoteche
bolliva tra rostri di marzapane
firmati Armani. Io stavo seduto
al centro del pastone verde laser.

Se mai si intravedeva una ragazza,
un pastrano di tette sullo sfondo
metallico del vomito il divano
si trasformava in astronave piccola.

La Naj Oleari che ti bacia sempre.
La Toyota sfrecciava nel silenzio,
i piedi stretti nelle calze Burlington,
galleggiavo molle tra ormoni e guance,

la Isla Bonita, Taffy, Gino Soccio.

(p. 97)

Difficile per un lettore odierno chiudere il libro e non sentire un certo disagio, da abuso retorico, nei confronti di versi come i precedenti o come i seguenti:

Un discorso

Comincia a fare queste dita,
nasce. Un discorso fittissimo di vene
che s’intersecano è il giorno
che scompare e torna.

E questa è una collina,
questa è una mattina.
Nòminale
come fratelli, muovile
sui paesaggi
la mente tace e
ogni fiore,
ogni fiore una terra avrà

(p. 51)

e se, appunto, «ogni fiore» avrà una terra, il “fioretto” per questa raccolta è che ci sia posto per lei nel limbo distanziante di chi è «bambino da millenni», al margine estremo del tramonto di quel Novecento in cui sembra chiedere di voler restare, nell’impotenza affabulatoria.

Fiaba

L’eterno era una festa di paese
e io ero bambino da millenni.
Non lo sapevo che non ero nato
né morto, né vissuto. Solamente
scrivevo su un quaderno a righe che
tu eri proprio bella, a quella festa
che respirava ovunque.

(p. 102)

jovanottiana, sic et simpliciter.

Gianluca D’Andrea
(Gennaio 2015)

Libri crepuscolari: 2 note – I. "Il rovescio del dolore” di Luigi Socci, italic pequod, Ancona 2013

socci

Luigi Socci

I. Il rovescio del dolore di Luigi Socci

rovescioIl libro di Luigi Socci Il rovescio del dolore è la testimonianza di un periodo, della nostra frammentaria contemporaneità, che potremmo definire “mortuario”. I testi della raccolta abbracciano il quindicennio 1990-2004 e ne rappresentano il resoconto verbale e stilistico:

Bisogna parlare dei morti
(assenze che di noi fanno polpetta)
perché c’è nella poesia
tanto così di morto per ciascuno.

(p. 68)

Ribaltamenti di senso, paronomasie, figure etimologiche, deformazioni verbali sono sintomi dell’involuzione linguistica a cui l’autore aspira e a cui affida a minore ad maius la funzione di appiglio pulviscolare (cioè crepuscolare, ironico) del messaggio relazionale.
Il rovescio del dolore procede per tappe slegate e ogni sezione agisce da minimo evento, “reagendo” all’illusione di una trama/trauma che sia ancora “legabile”. Emerge un racconto sfibrato ma inteso nella necessità di un’unica coerenza per balzi o, in estremo, acronica. Il tempo si frange in rivoli e intercapedini che ne formano la sostanziale verità:

La verità va preparata bene
che può sempre servire
un pezzo un altro pezzo avanza un pezzo
sembra che tutto funzioni per ora.

(Verace, p. 88, vv. 1-4)

L’esigenza di un contatto che si avverte perduto ma ancora necessario, come nel testo di p. 78, Toccami, nel disorientamento o nella desolazione a-direzionale: «Qual è il senso di marcia del deserto?» (Insabbiamenti, p. 65, v. 1).
Siamo dentro un passaggio temporale (un paesaggio) interrogante (postmoderno, ancora?), il soggetto si contorce ed evidenzia un disagio, senz’altro intervento se non la presenza testimoniale della propria dispersione, o meglio, sparizione:

Segato in due.
Scisso in sezioni cubiche.
Sparito.

(Silvan, p. 85, vv. 1-3)

L’azione si esprime in strappi convulsivi, sulla scissione; il linguaggio esacerbato in espressioni deformate dall’ironia, in un contesto performante, non sempre agonistico, spesso agonizzante. La parola, cioè, subisce il piano di finzione e si maschera arrendendosi all’evidenza del niente morale (il quasi nichilismo di ciò che fa del postumo la sua postura):

Uno si trova messo così, qui
a mezz’aria
appeso a un peso
nell’atto di levarsi
con una pinza uno sfizio,
vi scrivo dal fronte
spizio

(p. 77)

Il disagio è scia, bava e verso la fine del libro scopre il “coinvolgimento” del soggetto nelle vicende. Lo “spettacolo” esiziale di Ultima Prima al “Na Dubrovka” è la “messa in scena” di una realtà che si realizza adesso, cioè dopo che «il passo che separa la vita/ […] era fatto» (Ultima Prima al “Na Dubrovka”, p. 128, vv. 37-38).
Il rovescio del dolore si può leggere nel ribaltamento antieroico e “a-soggettivo” avvenuto nell’arco temporale abbracciato dai testi, per cui è plausibile parlare di un’epica “miniaturizzata” (Massimo Raffaeli, in postfazione, si esprime in questi termini sulla poetica di Socci) che rimpicciolisce i dati storici forse per renderli accessibili, leggibili, comunicabili, rendendo ancora più evidente, però, l’occlusione e il disorientamento, rischiando di concludere il reale nella microstoria dell’attenuazione senza slanci, in quell’abolizione d’infinito (cfr. Cortellessa) di spirito neo-crepuscolare (o, se si crede, post-crepuscolare).

Gianluca D’Andrea
(Dicembre 2014)

TESTI

Immobiliario

Le reliquie venerabili di un pollo
incollate da giorni al proprio piatto.

Dentro la lampadina il ghirigoro
che produce la luce è mezzo rotto.

Ronzano mosche di questi tempi
fuori dalla stagione delle mosche
in orbite piene di contrattempi.

Dalle patate i getti
si diramano in cerca
degli umori dell’aria.

Oggi non so le cose importanti
ma tutte le altre a memoria.

*

Il viaggiatore ignoto

Accappatoi fregati negli alberghi
saponi con i peli appiccicati
sfoghi d’acne da treno:
segni inequivocabili di viaggio
più o meno.

L’avviso ai naviganti era criptato.
Era evidente il posto era sbagliato.

Scelte per punto fermo
come riferimento
stelle cadenti e vento.

Era evidente il posto era sbagliato
col cane che non solo
non riconosce ma persino
staccare dal polpaccio è complicato.

Era evidente
il posto era sbagliato:
tizi mai visti
spazi ridotti, pieni di rischi.
non ho
amici con divani come questi.

Come in una morale
senza l’ombra di fiaba
era evidente io stesso ero sbagliato,
andato a finire
e tornato.

*

Certi rovesci

Il vento aspira l’aria, non la soffia
e lascia i corpi sparsi sottovuoto.

La foglia rimbalza in cima all’albero
la primavera retrocede a gambero.

La pagina si sbianca
l’inchiostro è risalito nella penna.
(bel risparmio)

Il fumo scende nella sigaretta
tornata intatta
come mamma l’ha fatta.
Fumo di meno e ho il pacchetto pieno.
(tutta salute)

E il morso che rinsalda ogni boccone.
La merda a riavvitarsi su nel culo.

dora è arod maria airam
paola sarebbe aloap alla rovescia
ma anna all’incontrario è sempre anna

Rovescio del dolore il suo discuore.
Allegri! Oggi si muore.

*

28 agosto 94

                                                                           per Franco Scataglini

Nerastro miramare
funereo zittarsi di triglie
bare a vela.

Onde con l’ombra al collo,
il loro andar di sale
ingozza il porto.

Cozze col cuore a pezzi
tette a lutto.
Il sole simultaneo
traduce sassi in terra
(grossi, di Portonovo; grassa di Tavernelle)

Curioso capolino
di vermi o cicche spente?
Dentro le sabbiature
lenta lebbra dei vivi.

Un morto vive altrove.

*

Dallo spioncino

Mi lascio questi occhi che ho
per vedere le ombre all’orizzonte,
dietro una lente rimpiccolente,
di molta gente.

Da questo buco
ho visto i testimoni per esempio
di geova le donne delle scale
il messo iettatorio
dell’amministratore condominiale.
L’ex-tossico in realtà tutt’ora tossico
cui devo un set magnifico
di spugne per la casa
all’aroma di pesce
ho spiato pensando
– esce o non esce? -.

Da questo varco
nella porta ci passa una scintilla
nero pupilla.

Ma provate a pensare
a una schiena che trema familiare,
ombra tra gli zerbini
pericolante all’inizio delle scale,
che va via in una bolla di vetro
di quelle con dentro venezia o san pietro
densa di un’aria unta, senza attrito.
Appesa al corrimano
convessa, senza fretta,
noncurante della targhetta
con scritto il mio cognome che si stacca.

Souvenir deprivato
di neve e di memoria
a un palmo in linea d’aria
di distanza illusoria.

Dispersa nel viavai
per sempre come al solito
restando e un po’ viandando
senza lasciapassare senza i visti
al trotto a dirotto allo sbando
in ritardo sui tempi imprevisti.

Al riparo del chiuso
la guardo come non si deve
internato al sicuro
dalla parte dove si vede.

Ma provate a pensare
come si contrae la vista
di fronte a qualcosa che è troppo vicino
provate a pensare
alla condensa sullo spioncino.

*

Questa poesia non è
per te né per nessuno
non lascia alone
ha l’aut. min. ric.
non odora di chiuso
e poi
non si fa i fatti miei
ha tutte le carte in regola
è ochei.

Questa poesia è bielastica
può essere una esse
o volendo un’ixelle,
questa poesia si stende
come una parte del corpo,
una pelle.

Questa poesia non quadra
il cerchio casomai
si acumina in un rombo,
questa poesia non è
per te che sparirai
prima che tocchi il fondo.

*

Ultima prima al “Na Dubrovka”

Il teatro russo degli anni ottanta
mi stanca.
Il teatro russo degli anni novanta
invece incanta.
Ma il teatro russo degli anni zero
è vero.

La realtà si realizza il passo è corto
tra la vita e il teatro prende corpo.

La scena dilagava in sala e a casa
veniva a chiamarci per la catarsi
per renderci partecipi (spettatori carnefici)
dell’irripetibile evento.
Imparavo a memoria la mia vita
come una vittima di talento.

Quella sera era meglio se non ero
in abito nero per l’occasione
come a una prima i capelli in un velo
la vita ristretta da un cinturone.

Io quella sera
proprio io non c’ero
e se c’ero dormivo e morivo
già cascavo dal sonno e mi gasavano
(posto 12 fila C)
la testa mi andava giù.

Epidemie di tosse
rumore di giunture che disturba
la già pessima acustica, asfissiando
è difficile farsi sentire.
L’emissione vocale del morire
non arriva alle ultime file.

Nel personaggio a cui davo la vita
mi identificavo alla perfezione:
il mio cadavere in carne e ossa
in attesa di identificazione.

Centinaia di comparse disperse
rivolevano i soldi del biglietto
perché il passo che separa la vita
ora era fatto.

Una cappa di fumo scendeva dal soffitto
come un effetto speciale reale
la mano si poteva allungare
per vedere se tutto accade.

Mi confondo nei ruoli.
Mi confondono i ruoli.
Mi credo e mi capisco.
Dico l’ultima poi mi finiscono.