BREVI APPUNTI SULLA FINE V – “Mappe del genere umano” di Flavio Santi, Scheiwiller, Milano, 2012.

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Flavio Santi

BREVI APPUNTI SULLA FINE V: Mappe del genere umano di Flavio Santi, Scheiwiller, Milano, 2012.

negli specchi di ghiaccio mille occhi di lei
A. Porta

Mappe del genere umano_COP--286x424Che mappatura sia termine caro a quella generazione nata tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, è evidente anche grazie al titolo, mi verrebbe da dire riassuntivo, di questo libro di Flavio Santi.

La necessità di orientamento è esplicitamente confermata in nota proprio dall’autore, e anche se programmaticamente volontaristica – o militante, ma di una militanza ritardata e menomata giustamente dell’afflato lirico, ma vedremo come –, l’urgenza di scrittura in realtà finge di «mappare il genere umano» (p. 167). Si tratta invece di una poesia scissa per cui la finzione letteraria cozza e fa attrito col mondo proprio quando il linguaggio desidera aderirvi, riducendo ogni sussulto agonistico in agonia.

Se il primo movimento della raccolta – già rintracciabile in forma embrionale in una raccolta del 2004, pubblicata dall’allora virtuosa collana di poesia della rivista Atelier –, Il ragazzo X, è già specchio del gioco di specchi o illusioni virtuali (si “finge” la clonazione di Leopardi) messo in atto da Santi per riorientare il soggetto poetante in un mondo reso irriconoscibile dalle trasformazioni/deformazioni della tecnica, è anche vero che la stessa tecnica è presentata come segno di una chiave di lettura aprioristicamente negativa del reale. Tra repulsione e attrazione si muove questa poesia “dialettica” e cioè ancoratissima a matrici novecentesche. Dal contrasto col mondo, che sembra essere presupposto di poetica, programma, si sviluppa però nella pratica linguistica un appiattimento tonale. L’elusione ritmica evidenziata dalle spezzature e da inarcamenti in versi che si dirigono alla prosa è il segnale evidente di un’ambizione anti-lirica: «sono cambiati i sensi di marcia / delle carrozze, molti più segnali per strada / e i cocchi vanno veloci che è una meraviglia…» (Comincio a crescere…, p. 26, vv. 11-13). Ricordando che Santi è soprattutto un narratore, occorre precisare che l’attenzione “epica” per la storia aspira alla dispersione del soggetto, anche se in Mappe del genere umano si ottiene, al contrario, una posizione privilegiata d’osservazione intellettuale. Per quanto le ragioni espressionistiche evidentissime in alcune aperture surreali, «Come un mammut sono riemerso / dai ghiacciai e sono passato / dal canapè all’atomica» (Mi presento?, p. 29, vv. 1-3), ma che tutto il poema iniziale in fondo non fa che confermare, «Intanto qui il tramonto è una fila / di fucili dritti al petto» (La vita quotidiana in Italia dal Settecento al Duemila, p. 63, vv. 1-2), tentino l’impresa ardua di rinnovamento linguistico del mondo, si avverte d’altro canto la resa a un “novecentismo” di maniera.

Nel segno di una sperimentazione che purtroppo si fa doma per quanto decisivi sembrino i riferimenti di partenza – mi viene da pensare ad alcuni passaggi di Antonio Porta e al versante fruttifero della neoavanguardia: «tra le tue braccia non tieni l’uomo nuovo, contro la tua volontà è la specie che continua» (A. Porta, Balene delfini bambini, 4, in Invasioni, Mondadori, Milano, 1984, p. 19, vv. 7-8) – Santi imbastisce la sua cartografia che si vorrebbe straniante, ma che i toni più arrendevoli rispetto ai modelli, rendono invece abbastanza conforme: «Così io non sono io, sono una parte, / un fantasma» (La vita quotidiana in Italia dal Settecento al Duemila, p. 63, vv. 19-20), in cui si proietta banalmente l’io-fantasma novecentesco (basti pensare a Sereni o al Caproni ultimo di Parata, tra gli altri), su un io-clone desiderante all’infinito la solita fine.

Sul versante dell’enunciazione, il tentativo di intravedere il “nuovo” è solo un altro modo di riproporre la fine di un’identità (e del mondo ad essa sottesa) senza che avvenga realmente la fine del soggetto; così la mimesi nell’enunciato si risolve in accostamenti ironici e, apparentemente, inauditi. Penso anche al romanzo d’esordio di Santi, Diario di bordo della rosa del 1999, così come al primo lavoro in poesia, Viticci (1998), in Mappe del genere umano ripreso e al romanzo accostabile, in cui il linguaggio tenta una plasticità innovativa sciorinando virtuosismi in direzione di un “nuovo” più presunto che reale:

«L’amore in stalla

Il paese era un’esistenza agra da affrontare: i campi di patate pustolosi, tra il rubecchio di fuoco fatuo, scorbutico e scornato e un verde vaiolo, folti come un campo di spade seminate, vibranti alla tosse dell’aria, o gli alberi di noce come candele piantate in tante file, pieni e lunghi, a ceppo duro e mordente, definitivamente insediati fra le felci; la chiesa di pietra grigio tozzo, cavallino, bassotta e la campana slargata come una donna partoriente, che segnava le domeniche identiche alle prediche del parroco; la gente con i volti usurati, quasi che gli zigomi si deteriorassero tanto gli occhi altrui se li mangiano. Occhi di spine. Ma tutto questo creava la possibilità di un’intimità mascagna, e in gattabuia alla legge, quando oramai, piena, possedevate la certezza di esservi fatti tra un taglio del vino rosso emorragia, una brocca del tocai e una partita a tressette un calco di gesso da sovrapporre alla nudità della vostra natura. Comodo. Così la domenica prendevano posto nel bar di Nibbi Gjorgjùt, il locale della tranquillità, i contadini dopo messa, e pigliavano le sedie e un mazzo di carte umidiccio come una mano sudata.

A sinistra.
Una sedia».

A questo punto occorre ricordare che i tentativi e le sperimentazioni di Santi, per un periodo hanno anche coinvolto il dialetto, un dialetto che, seguendo le parole di Pusterla, «è come spostato dalla sua tradizionale orbita» (F. Pusterla, Appunti sulla poesia di Flavio Santi, «Idra», Q, 1997, pp. 9-12, ora anche id., Il nervo di Arnold – Saggi e note sulla poesia contemporanea, Marcos y Marcos, Milano, 2007, pp. 122-126) e che non «si illude di rappresentare il medium linguistico che possa ricompattare il mondo attorno a un valore archetipico» (F. Pusterla, Il nervo di Arnold – Saggi e note sulla poesia contemporanea, cit., p. 125) a manifestare ancora, dal punto di vista dell’enunciazione, un rifiuto del “vecchio” mondo che, purtroppo, non si risolve in un rinnovamento. In ogni caso, questa parentesi “friulana” giustifica soltanto la scelta definitiva di una produzione poetica in lingua, perché anche in questo contesto l’innovazione linguistica è ridotta ad accostamenti virtuosi, sì stranianti ma per niente sorprendenti, quanto decisivi per concretare un certo manierismo, che forse è la cifra essenziale di tutto il lavoro di Santi fino a oggi svolto:

Atu viodût il Videodrom
di Cronenberg, chel cui
televisôrs sfrustâts?
«…».
Atu cjalât il film di Cronenberg
concresion dal me ciuviêl?
E mai ‘sti suns iò o dis e o feveli
ma te casse craniche a vivin.
«Ma no l’è come
‘n paisag là ch’i gjavin i colôrs?»
Vive le gnove cjâr!
a disevin laiù, tal video: ma
iò capiss li’ tôs perplesstâts:
i paisags ch’o viv
son di vôs e a risunin dentri,
e al pîd crot su la vie
mai tocje un madrâc velenôs,
ma dome al ciurviel
intrusions magnetiches,
trist sanc in miêc ai baits,
energies sflancjnades,
mal-strengiudes cravates.
«…».

Hai visto il Videodrome / di Cronenberg, quello con i / televisori frustati? / «…». / Hai guardato il film di Cronenberg / concrezione del mio cervello? / E mai questi suoni io dico e parlo / ma nella scatola cranica vivono. / «Ma non è come / un paesaggio senza colori?» / Viva la nuova carne! / dicevano laggiù, nel video: ma / capisco le tue perplessità: / i paesaggi che vivo / sono di voci e risuonano dentro, / e al piede nudo per la via / mai tocca un serpente velenoso, / ma solo al cervello / intrusioni magnetiche, / cattivo sangue tra i bytes, / energie stentate, / cravatte male annodate. / «…».

(F. Santi, Rimis te sachete, Marsilio, Venezia, 2001, pp. 78-79).

La trasformazione dell’uomo in ombra, cioè la mutazione antropologica in corso e così sentita sin dalla seconda metà del Novecento anche in poesia, non è allora descrivibile se non attraverso figurazioni ibride. Ibridazione che Santi percepisce sul piano intellettuale ma che non riesce a tradurre in termini linguistici. A conferma del manierismo sostanziale che anima questa poetica e che si manifesta anche sul piano tonale, si consideri questo passo ancora da La vita quotidiana in Italia dal Settecento al Duemila (p. 64, vv. 32-37): «Costeggiano i vialetti i cespugli / di croco su cui condurre il carrello / i passeri sono sospesi ai rami, / il verde è sempre il verde / mercé la merce alquanto merdosa / eccoci a far la spesa al Mercatone». Nell’estratto, il tentativo di descrivere con il linguaggio della poesia una situazione quotidiana, non conduce allo straniamento probabilmente auspicato, bensì a una sensazione di forzatura che slega definitivamente due mondi non collimanti. Questa modalità si trascina anche altre forzature come, lapalissiana sul piano fonico (e tonale, appunto), l’allitterazione “moralisticamente” meccanica “mercé, merce, merdosa, Mercatone. Con queste scelte in apparenza dissacratorie, a perdersi è proprio la carica espressionistica che è ridotta a connotazione conformistica nell’apparente neutralità denotativa.

Tra espressionismo e oggettività, l’indecisione: «Vaghe stelle e solitarie notti da masturbare, / e tu luna, che fai tu luna? / Abbandonato, occulto / tutta la notte con in mano il rasoio / del proprio cazzo…» (Canto notturno di un navigatore errante in perenne connessione, p. 66, vv. 1-5).

Altri segnali di dissolvimento rappreso attraverso una forma tradizionale sono nelle due sezioni successive della raccolta. Anzi, se il poemetto assume una sua coerenza pur nella disomogeneità tra connotazione e denotazione, il “postmodernismo” esasperato delle sezioni successive si manifesta in un susseguirsi di frammenti in attesa di definizione e sistemazione.

In La clonazione altrui, con evidente volontà “espansiva” rispetto al primo movimento (dall’io al mondo), la sensazione di resa a una dimensione totalmente “intellettualizzata” – e quindi fagocitata nella connotazione soggettiva – si esprime in una visuale a distanza dei fatti concreti (a imporsi, lo ripetiamo, è la “letterarietà”). I «suoni si sono ormai fusi» (Girone di laurea, p. 96, v. 20), quello del mondo con l’eco risonante delle considerazioni del poeta, confondendo l’ascolto del primo. Così la “cialtroneria” stilistica (segnalata ancora in nota da Santi), si trasforma in una convinzione/convenzione stilistica, un presupposto di poetica che, però, la pratica linguistica disillude. Stilemi che si appoggiano sul citazionismo e sulla materia intellettuale e che confermano l’impossibilità di fuoriuscita del soggetto nel mondo (la resa agonica e la rinuncia all’agonismo di cui si è discusso in precedenza): «…Ruggine dolcissima / tu che puoi fallo: / riducimi a istrice e a / scaglia, che io sia / la buona scala / rotta e precipite: e / che le lune siano / erpici e chiodi…» (Rimbaud di fango, p. 104, v. 38-45).

La dissidenza di Santi è ridotta a gioco verbale, così “l’altra vita possibile”, che resta domanda nel titolo dell’ultima sezione, Batteri (un’altra vita è possibile?), appunto, è un miraggio che vorrebbe chiudere dialetticamente la tesi della prima sezione, il soggetto disorientato e l’assenza di un’identità, e l’antitesi della seconda, in cui anche il mondo è solo il risultato di una trasformazione artificiale:

Piazzata di Hitler prima di morire

Fuori i russi ridono e sparano.
A letto non pensa e non grava
la salute della luce come del buio:
quando il rullo delle tapparelle
non ti riconosce come
suo cosacco e chiedi scusa scusa.
A questo punta la notte Nacht infatti:
a scioglierti come pasticca in
due gocce d’acqua. Dire guten ed
entrare poi in gola.
Svoltare l’angolo destro,
di nuovo a letto.
Forbici, apritevi
sulla luna nera
come bolle di catrame.

Sono queste le cose che
mi restano nel gelo
di pupa che muta, sul letto, la notte,
con penuria: l’estate turbata,
del miele scaduto,
la muffa all’angolo,
il fornello acceso.

(p. 154)

La mimesi apparente tra io e mondo nella rappresentazione storica entra definitivamente in scena come posa neutra di un’anima in deficit, così com’era già avvertibile nella seconda sezione:

Flavio non sa né piangere né godere.
Che sa fare allora?
Leggete questa poesia:

Sorveglio l’anima
come l’Asinara: ho
deciso per lei un tracciato
di rovi e imbarazzati
sorveglianti. Dicono
che il direttore del carcere
faccia vita grama, con
una famiglia spiritata.
Io so solo
delle sentinelle, delle zuppe
suonate nelle ciotole,
del desiderio di un questurino
di trasferirsi al faro
dove le agavi hanno spilloni
per radici. Per ora qui
hanno portato
il televisore a colori.

(p. 113)

Scissione, dicevamo, o «due paesaggi profondamente diversi» (F. Pusterla, Il nervo di Arnold – Saggi e note sulla poesia contemporanea, cit., p. 122), così tra ricostruzione e lacerazione immedicabile, la poesia di Santi, riletta oggi, perde il vigore della conflittualità che pare invece tramutarsi in accettazione (la resa di cui sopra) dell’essere postumo del soggetto. Emerge, allora, un sentore d’inettitudine crepuscolare che prende il posto della matrice espressionistica e i risvolti surreali (quasi preparatori di un mondo nuovo e un nuovo linguaggio), prima accattivanti, ora riflettono un’immagine statica, in attesa. Anche quando, e penso all’ultima sezione, la mimesi storica cerca di risolvere la questione soggetto/mondo a favore del secondo – almeno a mio avviso le reminiscenze storiche e la loro trasfigurazione hanno questa funzione, anche se in una dimensione pur sempre “diminuita” – giunge sempre ad inibire ogni slancio, al posto del controcanto ironico delle prime fasi, una cadenza che definirei elegiaca, perlopiù nostalgica:

Vorrei essere uno di quei
bei rivoluzionari d’agosto,
col cuore in spalla, sempre pronto
a ridere di Dio,
o del suo precedente
e dell’eventuale antagonista suo.
La voce sotto la lingua roca:
meno spine in bocca e più sorbe.
Abile nello scoprire
i buchi di talpa, nello
sragionare davanti
a cartocci di riso,
nel pregare.
Vorrei proprio esserlo, così,
rivoluzionario fitto convinto.
La mia speranza è ormai un delirio.

Non avrò mai la faccia
da Jugend deutsche,
fiero con efelidi,
biondo fieno. L’occhio
ricciolo dritto
al Führer, perfetto
come una chiglia
d’argento. E mai di notte avrò
la tessitura della luna e
l’arcolaio della seta
a brillarmi e rifarmi
i bordi della storia. E mai
sentirò le sue lenzuola nuove.

Scambierò sempre
casa per un sepolcro.

(pp. 117-118)

«Ma se abbiamo paura della morte in sogno / […] vita assassina come farò / a chiamarti bellissima?» (No logo, p. 165, vv. 11 e 14-15), l’equazione tra annientamento e rigenerazione sembra recludere la parola nel gioco tutto culturale di un’allegoria sconfitta. Senza la storia e il racconto tutto è ridotto a posteriorità, alla poetica del postumo, del sopravvissuto: «Qui dentro tutto è perduto / […] ogni tentazione o la possibilità / di costruirci una storia / è tamponata» (Ahmet, detenuto a Eskisehír, p. 160, vv. 1 e 3-5).

Decretata la fine della lirica, l’opera di Santi si è già spostata su altri versanti d’indagine, alla ricerca di quelle risposte che il testo poetico sembra aver esaurito (l’ultima operazione risalente al 2016 è un noir, La primavera tarda ad arrivare. La prima indagine dell’ispettore Furlan, Mondadori, 2016). Portando alle conseguenze ultime i dubbi emersi negli autori del Secondo Novecento (penso soprattutto alla Neoavanguardia, ma non solo), Mappe del genere umano è un libro-manifesto della caduta della poesia come “genere” letterario; se ancora Antonio Porta poteva dire nel 1958 «Un attimo prima di scivolare / nella fogna gridò: Sì» (Europa cavalca un toro nero, in A. Porta, I rapporti, Feltrinelli, Milano, 1966, ora anche id., Poesie 1956-1988 a cura di Niva Lorenzini, Oscar Mondadori, Milano, 1998), con Flavio Santi identità e volontà storica sono cloni di un vecchio reale che gira su se stesso e allora può sembrare possibile «morire di un virtuoso silenzio» (La notte prima della morte di papà, p. 134, v. 14).

Gianluca D’Andrea
(Aprile 2017)

LETTURE di Gianluca D’Andrea (16): POESIA – RITMO – RESPIRO

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Mario Martinelli, L’ombra della sera (1990) ©. (Fonte: mariomartinelli.it)

di Gianluca D’Andrea

«Sto nel cuore dell’epoca, ho di fronte
una via incerta, e il tempo crea miraggi»

O. Mandel’štam

Nel suo fondamento la poesia, nella sua pratica – perché ancora parlare di fondamento è assumere una terminologia abusata che richiama concetti altrettanto abusati, come sostanza, ecc. – è il concretarsi di un’ombra attraverso un’immagine. Tentando di essere più precisi: attraverso una lunga sensazione da cui si presume possa formarsi qualcosa. Aisthēsis, il nostro tatto interno – quante volte da piccolo, con i sensi completamente scoperti, sentivo giungere un’onda indescrivibile di percezione, ed era “altro” dentro me stesso? era il “noi” caproniano? («Quanto più il poeta s’immerge nel proprio io tanto più egli allontana da sé ogni facile accusa di solipsismo, appunto perché in quella profondissima zona del suo io è il noi», G. Caproni) – forma veramente qualcosa: l’illusione della nostra presenza. Non la materia di cui sono fatti i sogni, ma più prosaicamente la materia che si affianca a un segno, fino a trasferirsi totalmente in esso, nell’artefatto che da sempre ci supera, ci schiaccia in una “disidentificazione” che, finalmente, rende fattiva la nostra scomparsa. Forse per questo, l’essere umano, oggi, immerso e sostenuto da una massa abominevole di artefatti, oscilla tra una resa definitiva alla verità ultima dell’oggetto, che è liberazione assoluta, e la costante frustrazione della perdita del proprio ruolo identitario, conquistato, sin dagli esordi, al prezzo di sacrifici abissali, come ad esempio la rinuncia alla verità della scomparsa, a favore del desiderio di sussistenza, del segno banale che “fa” presenza.
La poesia non fa che confermare quell’oscillazione, ma più come il ricordo ostinato della necessità di essere dentro un quadro già definito, finito. Come fosse il raggiungimento di una massima libertà dentro il suo opposto.
Nel passaggio dalla definizione alla liberazione nel finito, allo stesso modo «passano le figure» (Acquario, in Transito all’ombra, p. 47), ma come «ombre» e «flussi trapassati», «membrane che respirano / le azioni compiute» (ibid., p. 47) e frazionano il tempo, gli rendono giustizia nel movimento consequenziale che si sviluppa dal respiro. La nascita del ritmo risiede in questa libertà necessaria, cioè andare “a capo”, oggi, è un’esigenza che il soggetto ricava dalla, in questo caso sicuramente primaria, necessità di libertà: è la solitudine del soggetto a far sì che avvenga un ritmo e, infine, la scelta del respiro.
Resta un’interrogazione, com’è possibile assimilare al ritmo personale un respiro collettivo? Come acquisire altro “fiato”, se non attraverso la conoscenza dell’altro nel suo racconto, nella sua storia? in una parola, nel ricordo:

«Mente, de gli anni e de l’oblio nemica,
de le cose custode e dispensiera
vagliami tua ragion, sì ch’io ridica»

(Tasso, Gerusalemme Liberata, I, 36)

ma solo

«nell’oblio di un ricordo che non può essere ricordato»

(Aspettavo la storia di un quadro millenario, in Transito all’ombra, p. 42)

LETTURE di Gianluca D’Andrea (15): L’OVVIO INUSUALE

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Elaborazione grafica di Gianluca D’Andrea

di Gianluca D’Andrea

«Quanto più il poeta s’immerge nel proprio io tanto più egli allontana da sé ogni facile accusa di solipsismo, appunto perché in quella profondissima zona del suo io è il noi».

(Giorgio Caproni)

Non importa che questo pensiero di Caproni rasenti la banalità più scontata, anzi importa che arrivi a esprimere ciò che di più comune è sommerso da una molteplicità di pregiudizi, per riscoprire, in fondo al pozzo, il più veritiero dei pregiudizi: la nostra inappartenenza e, conseguentemente, la necessità della presenza degli altri.
Dentro il nostro narcisismo si scorge la più evidente fragilità: noi non bastiamo a noi stessi, eppure rifuggiamo quest’ovvietà.
Il poeta dell’ovvio che ridiventa originale, o che aspira a farlo, può allora illuminarci sulla nostra scomparsa nella presenza: «E solo / quando sarò così solo / da non aver più nemmeno / me stesso per compagnia, / allora prenderò anch’io la mia / decisione» (G. Caproni, Parole (dopo l’esodo) dell’uomo della Moglia, in Il muro della terra). La decisione di dire «addio / al vuoto» (ibid.), che significa ripercorrere la strada inversa da una raggiunta pienezza a una spoliazione identitaria, cioè qualcosa di presunto. L’identità, dico, è solo un modo che serve a «ristorar i danni», direbbe Tasso (Gerusalemme Liberata, I, 21), un’invenzione “vuota” che, però, ci consente di ri-scoprire il “vero” vuoto, quello della nostra assenza o l’inerzia dell’essere che, quasi subdolamente, ci muove.
Come accadesse, con una ripetitività frastornante, il continuo risveglio da un sonno opprimente in cui, ancora più ossessivamente, si ricade: «Qual uom da cupo e grave sonno oppresso / dopo vaneggiar lungo in sé riviene, / tal ei tornò nel rimirar se stesso, / ma se stesso mirar già non sostiene» (Gerusalemme Liberata, XVI, 31). Ecco, non potendo sostenere il vuoto – la nostra immagine – non sopportiamo l’esistenza, se non rinunciando a riconoscere la nostra vacuità.
Ma ancora, nonostante l’ipocrisia che fonda l’essere, è solo attraverso di essa che possiamo accettare la necessità dell’altro, la responsabilità che ci allontana dal vuoto riempiendolo di un’ulteriore illusione. L’appartenenza è quella finzione che reinventa il senso, e in questi territori sembra muoversi la poesia.

 

BREVI APPUNTI SULLA FINE IV – La relazione?: “E io che intanto parlo – Poesie 1990-2015” di Anna Maria Carpi, Marcos y Marcos, Milano 2016

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Anna Maria Carpi (Foto di Dino Ignani)

Brevi appunti sulla fine IV – La relazione?: “E io che intanto parlo – Poesie 1990-2015” di Anna Maria Carpi, Marcos y Marcos, Milano 2016

E perché io non esiste
senza di tu di lui di noi di voi di loro

 A. M. Carpi

E-io-che-intanto-parlo_primawebL’operazione poetica di Anna Maria Carpi, a cui la pubblicazione complessiva che inaugura la nuova collana di poesia della Marcos y Marcos ci permette di accedere, è incentrata sulla tematica, forse troppo novecentesca, dell’assenza. Del soggetto lirico e, di conseguenza, relazionale, per questo la traccia macroscopica, la presenza sovraesposta della prima persona, sembra diventare il segnale di un disorientamento, di una carenza originaria dell’identità.
Le attuali analisi di quest’opera, strutturata in sei tappe che si muovono in direzione di un tentativo di fuoriuscita dall’impasse identitaria – sin dalla prima raccolta, A morte Talleyrand del 1993, impostata su un dialogo con un analista e che si muove alla ricerca, quindi, di un trauma di cui non sembra importare realmente la natura, e infatti è l’ironia a ribaltare la “serietà” con cui affrontare se stessi, primo segnale di una marginalizzazione dell’io – fanno sempre riferimento (Testa, Galaverni, infine Pusterla nella prefazione al libro) all’irresolutezza caproniana, al tono di sospensione e inadeguatezza del soggetto nel quadro della rappresentazione. Insomma, partendo da una sfiducia collaterale – il Caproni ironicamente dis-topico, almeno dal Congedo in poi, Carpi tenta una risalita, prova ad attraversare il negativo e prova a rilanciare (si veda il titolo dell’ultima raccolta, L’animato porto del 2015 che ribalta l’assunto del perduto approdo, di matrice addirittura primonovecentesca se pensiamo che Il porto sepolto fu pubblicato nel 1916) un barlume di speranza.
Cominciamo dalla fine:

LA MIA LINGUA è inattuale?
Io piaccio
a giovanissimi ignoti che mi scrivono
su facebook. Quale faccia,
se ogni giorno cambiano.
E perché piaccio? Perché parlo semplice?
Sentono in me a distanza
il cucciolo pezzato
che fa salti e che abbaia
perché, lui così crede,
la poesia emana dalla vita?

Poi sparsi non datati ho dei seguaci
seri nerobarbuti
che ancora guardano alla montagna sacra
dove senza di noi,
dissennata, da sé,
la lingua compie ancora dei prodigi.
Poi vedo che mi apprezzano
i fermi
i senza fede,
sono onesti e di solida cultura
e credono all’io interno, solitario.

E poi ci sono i vecchi,
voglio dire i nati nei Cinquanta
o nei Sessanta, che in molti già si sentono
nel vento della morte. Così presto, perché?
Sono loro i compagni che vorrei
Ma quel che in me gli manca è la bravura
Di far misteri fra parola e cosa.

Qual è stato il mio tempo? Io non lo so.

(p. 225)

Se si esclude il compiacimento per un’accoglienza intercettata in extremis, piuttosto dissimulato d’altronde, si può cogliere un lieve cambiamento di prospettiva nella considerazione di chi, modificando fittiziamente i propri connotati – «Quale faccia, / se ogni giorno la cambiano» – non sente più necessaria la dimensione del riconoscimento. Certo, è solo questo, perché poi il testo nella sua discorsività esposta, finge disinteresse ma poi tende all’auto-agnizione e si rifugia nel dubbio: «Qual è stato il mio tempo? Io non lo so».
Ma tornando alle origini del cammino proviamo a leggere un testo dalla seconda raccolta, Compagni corpi del 2004:

È PERCHÉ IO NON ESISTE
Senza di tu di lui di noi di voi di loro.
“Coraggio, baby, ci vediamo presto”,
“o prima o poi” ridacchia il vento
su per la cappa “è tardi, è tardi…”
Parole-avanzi,
lo sporco nel camino dopo il fuoco – e nulla,
nulla mi rassicura,
e mi divora
non sapere chi sono.

Andarono in fumo alcuni
dentro un bianco cielo tedesco –
altri come bimbi
nel bianco di una stanzuccia
o come vecchi su un viale alberato d’autunno,
rade le foglie, radi i capelli.
I pro-, i ge-
nitori
non si muovono più.
Posano ancora però: per un ritratto
che sembri vivo e resti
un altro mezzo secolo.
Quasi nessuno da vivo aveva coraggio,
forse si muore
per pura viltà.

(p. 69)

La mancanza di ogni sicurezza “divora” l’io, ma perché è la scomparsa di chi viene prima a rendere orfano il presente. La seconda raccolta ha la stimmate esposta della grande Assenza (e infatti è inaugurata da uno dei grandi padri del vuoto novecentesco, Paul Celan): «Ancel ancora all’incontro / di Dio – nella sua lingua si chiama Nessuno» (Gli ebrei, diceva l’ebreo, p. 61, vv. 10-11); della perdita delle tracce dei «pro-, ge- / nitori», della scissione tragica che si allarga dal trauma della storia.
Nel movimento io/mondo, tra le vicende del quotidiano, infatti, s’insinua spesso il grande Altro della Storia, ma il “piccolo” altro è già pressante all’altezza della terza raccolta, E tu fra i due chi sei, 2007:

ORA FA BUIO e sarà buio un pezzo
e lungo il viaggio, il tempo
per contemplare gli altri
che non sanno di me né io di loro
e non abbiamo niente da temere:
la gente è buona fuori del suo ambiente.
C’è chi ha aperto il computer, chi telefona,
c’è chi ha un giornale,
e chi lascia la nuca al poggiatesta
e dorme a bocca aperta – perché mai quel sussulto
che gli prende ogni poco
per riassettarsi, richiamare il mento?
Un rigurgito, l’immagine di sé?
Nessuno è mai ciò che vorrebbe essere.
Poi il mento ricade:
va bene, sono brutto, come voi,
chi è bello qui?

Le fermate intermedie: da abolire.
Perché si alza, perché vuole scendere
quell’uomo che ho di fronte da Friburgo?
E perché scende
la simpatica donna là di fronte
nella morta Lucerna o a Bellinzona
e va nell’irreale,
nella notte del mondo?
Figli, marito, un lavoro, un congresso?
Li troverà? Lei crede.
Nessuno trova niente alla sua meta,
a volte un letto caldo e non è poco
ma è bianco come le vesti dei fantasmi.

Non ve ne andate. Eravamo compagni.
Perché arrivate?
Solo un viaggio comune è senza fine.

(pp. 111-112)

L’altro che s’incontra casualmente – e forse non s’incontra realmente – nelle «fermate intermedie», in quelle fasi di passaggio, i viaggi, in cui non è importante che il linguaggio faccia presa, ma ugualmente possa agire nelle pieghe cronologiche, nella fugacità di una locazione temporanea che non necessita di affondo nel riconoscimento: «la gente è buona fuori del suo ambiente», perché inconoscibile se non per visuali rapide, per soggettive presuntive, «Nessuno è mai ciò che vorrebbe essere», che introiettano l’altro e allo stesso tempo lo tengono a distanza.
Eppure un altro modello più che plausibile, almeno per sintonie d’intenti e avvertita affinità, così si esprimeva nel 2002: «Sono quella che sono. / Un caso inconcepibile / come ogni caso» (W. Szymborska, Nella moltitudine, in Attimo, Scheiwiller, Milano, 2004, a cura di P. Marchesani), il che manifesta un avvicinamento all’altro nella casualità – il negativo? – che in Carpi non avviene, forse a causa dell’ingombro identitario. Comunque anche dall’accostamento al modello si può intuire quale sia il movente, il desiderio di essere “tra” che muove la scrittura della Carpi.
Così lo spostamento alla fuoriuscita si scontra sempre con l’«ossessione» di sé, pur cercando di tendersi «in mezzo agli altri»:

FUORI DEL MONDO infine.
Ah, quanto mento.
A me soltanto il mondo mi consola.
Ridono: il mondo? Cosa diavolo intendi?
È una sera a teatro, è una platea,
fra tante luci e io che vado in scena,
come comparsa o autore del copione,
ma essere in gioco, in mezzo,
in mezzo agli altri, in mezzo senza fine.
Questa è la mia ossessione.

(p. 131)

Mentre in Szymborska sembra agire una reclamata assenza (presenza in/del negativo), Carpi insinua una reclamata presenza (assenza in/del negativo). È presente la tensione per il ribaltamento del negativo novecentesco ma non si raggiunge lo scopo, neppure nelle ultime tre raccolte. Se ne L’asso nella neve (2011) le vicende storiche paiono preavvisare una nuova apertura, è anche vero che siamo sempre lontani dal vero, e ricadiamo nella fame di un orientamento perduto: «Fame di padri, fame senza fine», oppure «Mai il vero mi ha interessato» (Ad uno ad uno se ne sono andati, p. 154). Non avviene trasposizione perché ancora “io” cerca una ribalta, combatte la sua marginalità.
I dispersi sparsi qua e là nel libro sembrano confermare la separazione identitaria e, infatti, ancora all’altezza di Quando avrò tempo (2013), possiamo leggere: «Solo in quell’uno che vuol far diverso / io vedo un senso, una gioiosa / sanguinosa traccia di un dio» (24 Dicembre, i quotidiani, p. 190) e anche «Come potrebbe chi come il poeta / spera imperterrito / d’esser figlio di Dio, figlio unigenito?» (Un tempo qui arrivava il luccichio, p. 191).
È proprio il desiderio, ma sempre respinto come per dovere, di un’unità – perduta? da ritrovare? – a lasciare segni irrisolti d’ambivalenza. Forse il risultato peggiore, in termini di irresolutezza espressiva, è proprio l’ultima raccolta, L’animato porto (2015), nonostante il programmatico tentativo, come accennavamo in precedenza riferendoci al titolo, di rinnovare l’approdo sepolto.
Certo, alcune avvisaglie di allontanamento definitivo dal sé ci sono:

RAINOTTE. Nulla può più accadere.
Per oggi è tutto,
vi ringraziamo per averci seguiti.
Un lampo: ho spento, e non devo più nulla.
Sotto le coltri
con l’amante sonno
coi piedi tocco la felicità
tutto il corpo è speranza.
Alle tre ancora nulla, non un suono,
non c’è più il mondo,
il leviatano dorme.

Notte innocente che non sa di ore
né del primo biancore
là verso i monti sopra la ferrovia,
lo stupro della luce che ritorna.

(p. 210)

Ma la sensazione complessiva è di resa a una temporalità implosa, come se non ci fosse più niente da dire: «Non lo senti anche tu che non c’è più? / Il tempo non c’è più, / Tu sorridi: in che senso? / Non stiamo forse andando…? / Sì, uno a uno / ma finora il tempo era anche altro, / era anche un padre. / L’avevamo in comune» (Non lo senti anche tu che non c’è più?, p. 215).
È vero, non abbiamo un “padre in comune”, non esiste forse neanche una comunità, termini condivisibili – «Un altro mondo? È assodato, non c’è», p. 218 – eppure il mondo è qualcosa che balugina dal suo non esserci, e forse è anche il momento di sconfessarla la comunità, di eliminare ogni residuo da vecchio «confort» (p. 218).
Per ora la poesia di Anna Maria Carpi si ferma sulla scelta della fuga, sembra volersi preservare dalla trasfigurazione, così come sembra annunciare anche l’inedito a fine volume, Caro Agostino: «E allora è al padre / che mi rivolgo, come nell’infanzia, / a quel barbuto volto in mezzo ai nembi. // Ma non è l’amore. / O è l’amore questo, / non me non lui non gli altri / solo un’arsura, solo sete sete / di trascendenza» (p. 229).
Non so a cosa miri questa trascendenza ma forse è solo un moto del desiderio, un tentativo per leggere l’attuale ed infinita mutazione.

Gianluca D’Andrea
(Maggio 2016)

Giorgio Caproni: una poesia da “Il Conte di Kevenhüller” (Garzanti, 1986) – Postille ai testi

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Giorgio Caproni (Foto di Dino Ignani)

di Gianluca D’Andrea

Giorgio Caproni: una poesia da Il Conte di Kevenhüller (1986)

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PARATA

…verso i monti invernali…
(Adriano Guerrini)

Sfilano nella tramontana
della storia.

———————-Quasi
– interminabili e eguali –
in fila indiana.

—————————-Sono
«i trapassati».

—————————Coloro
– in terra come nella memoria –
che per esser vissuti
non sono mai stati.

Sfilano quasi piegati
in due.

————–Nel soffio
del tempo, anch’io piegato
li avvicino.

———————Io,
che non sono mai stato.

Ne fisso uno.

——————————-Mi fissa.

Nel bianco del suo volto vuoto
non mi vede.

—————————Lo fisso
ancora (lui trasparente e quasi
di vetro), e il mio sguardo
– un ferro – mi si ritorce
contro.

—————-Nel vuoto
del suo volto, afferro
me assente.

———————-Inesistente.

(O il perfetto contrario.)

Non ho, nel sillabario
della mente, poteri
per dargli anima.

——————————–Neri
– o persi – son tutti
i miei inerti pensieri.


Postilla:

Quando una tradizione letteraria rischia fino in fondo la sua stessa produttività, sull’orlo della scomparsa, s’intuisce che è ancora possibile scorgere il mutamento come un sintomo. Grazie a questa tradizione, la poesia italiana è viva e lancia il suo sguardo su questi tempi apparentemente illeggibili.
In Caproni, l’ultimo soprattutto, la scomparsa non è più orlo, perché il confine è stato trapassato in direzione dell’assorbimento dell’ombra, nel ribaltamento dell’essere nel suo “perfetto contrario”, nel compimento-commistione con l’inerte. Procedimenti chiarificatori – la musica franta e zigzagante dei versi “spezzati”, i dubbi sulla parola “inessenziale”, l’allontanamento del soggetto dal mondo – decidono il “modo” nuovo di percepire la relazione, laddove il soggetto “distrutto” può ricomparire a patto di accettare l’inerte, a comunicare con la morte “interminabile e uguale”. Finisce un mondo e sfuma nel gelo tramontano. Proprio quando si giunge al massimo della resa, «Coloro/ – in terra come nella memoria -/ che per esser vissuti/ non sono mai stati», “Io” che non è mai stato, è plausibile si scopra nella sua stessa assenza, decentrato, scisso ma ancora agente. Anche solo nel riflesso «trasparente e quasi/ di vetro» dell’altro “inesistente”, il soggetto può “afferrarsi” e “afferrare” la propria assenza. La Bestia estinta si riconosce nella sua “perdizione” ed è pronta al salto metamorfico, a un inguardabile – perché ancora invisibile – cammino.

Franco Buffoni: LA CRAVATTA DI SERENI – Niccolò Scaffai, “Il lavoro del poeta. Montale, Sereni, Caproni” (Carocci, Roma 2015)

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Montale, Sereni, Caproni (Elaborazione grafica di Gianluca D’Andrea)

di Franco Buffoni

LA CRAVATTA DI SERENI

il-lavoro-del-poetaHo avuto occasione, il 5 ottobre scorso, di presentare alla Casa delle letterature di Roma il bel saggio di Niccolò Scaffai Il lavoro del poeta, edito da Carocci. Particolarmente incentrato sulle figure di Montale, Sereni e Caproni, il libro può definirsi complessivamente un’indagine sul sistema di relazioni, incontri, occasioni che motiva la scrittura e le dà sostanza. O, come più prosaicamente ha sintetizzato nella sua recensione al volume Raffaele Manica sul Manifesto, “su che cosa passa per la testa dei poeti quando fanno poesia, e dunque sul perché si faccia poesia”.
Confesso d’essere un appassionato lettore di epistolari. L’estate scorsa ho letto integralmente quello tra Vittorio Sereni e Luciano Anceschi curato per Feltrinelli da Beatrice Carletti con prefazione di Niva Lorenzini (epistolario richiamato anche da Scaffai nel suo lavoro, in particolare con riferimento alla lunga lettera di rifiuto da parte di Sereni del concetto di Linea lombarda); in seguito ho lungamente compulsato anche il carteggio tra Luciano Erba, Piero Chiara e lo stesso Anceschi, uscito per le cure di Serena Contini presso Nuova Editrice Magenta di Varese. Ricordo anche come sia stata illuminante per me qualche anno fa la lettura dell’epistolario Sereni-Bertolucci, e in particolare quella considerazione a margine del mio maestro Giovanni Raboni sulle vite militari dei due poeti. Sereni – di estrazione piccolo-borghese, osservava Raboni – si applicò seriamente al corso per allievi ufficiali, conseguendo il grado di sottotenente, con successiva responsabilità bellica di centinaia di giovani uomini ai suoi ordini. Bertolucci, grande borghese, fece il soldato semplice, imboscandosi subito, in pratica evitando il fronte. Perché, per Sereni, quella divisa con le stellette, quei gradi, lo stipendio che conseguiva, rappresentavano anche una promozione sociale; per Bertolucci non significavano nulla. Al riguardo, ricordo che Piero Bigongiari – altro grande borghese – in quegli anni restò nascosto in campagna a tradurre Ronsard. E certamente non era cagionevole di salute.
Dedica ampio spazio ai carteggi Niccolò Scaffai nella sua trattazione. Per esempio raffrontando come, differentemente da Ungaretti (che sovente anticipa nelle lettere versi e/o concetti poi centrali nelle poesie: per esempio scrive a Papini “c’è una pena che si sconta, vivendo, la morte”), Montale sveli ben poco dei suoi versi nell’epistolario. Per questo resta significativa la poesia “Eastbourne”, anticipata – per quanto concerne il riferimento cronologico all’August Bank Holiday – in una lettera a Irma Brandeis. Ebbi pertanto buon gioco, nel corso della presentazione, ricordando per analogia come Raboni raccontasse con disappunto di una cena con Montale tra i commensali, nel corso della quale l’autore delle Occasioni non seppe parlare se non di pensioni, anni da riscattare, prebende da riscuotere.
Perché è così: c’è la poesia, ma ci sono anche i poeti, e con loro c’è la vita con la sua volgarità, il suo cinismo. Ricordo l’espressione di divertito stupore che si dipinse sul volto di un giovanissimo Guido Mazzoni nel 1993 a Milano nella storica sede della Fondazione Corrente, dove presentammo il III Quaderno di Poesia Italiana Contemporanea. Era presente Maria Luisa Bonfanti, alias la signora Sereni, invitata a intervenire da Treccani in persona, alla quale chiedemmo di che cosa parlassero Sereni e Anceschi quando s’incontravano. “Di calcio…”, rispose serissima.
Ma che importanza dava Vittorio Sereni ai suoi avantesti, a tutti quei documenti che gli studiosi delle generazioni successive poi compulsano con religiosa attenzione? Si legga questa lettera dello stesso Sereni a Maria Corti, riprodotta da Scaffai a p 133: “Un quaderno dove mettevo i miei appunti abbastanza sistematicamente intorno al 1960, l’ho consegnato all’arch. Gio. Vercelloni che me l’aveva dato del tutto vergine come augurio di fine anno. E’ giusto che se lo tenga”. Dunque, secondo Sereni, poiché l’arch. Vercelloni gli aveva regalato a Natale un bel notes nuovo, era giusto che se lo riprendesse con tutte le preziose annotazioni, abbozzi di poesie, considerazioni e quant’altro.
Roba davvero da far tremar le vene ai polsi, se si pensa che oggi a villa Hüssy a Luino, sede della biblioteca comunale, chiunque può salire all’ultimo piano dove è stato ricostruito lo studio di Sereni con i mobili originali e i libri negli scaffali come li lasciò il poeta nel 1983. Disposti rigorosamente per collane.
Il paragrafo dedicato da Scaffai a Sereni e “il giovane Erba” è quello che maggiormente mi ha “intrigato” da un punto di vista strettamente poetico. Erba fu allievo di Sereni (di nove anni maggiore di età) al liceo Manzoni di Milano nel 1938, e ancora negli anni cinquanta il rapporto tra i due non era “alla pari”, tanto che – come ricorda Scaffai – in un passaggio della famosa lettera ad Anceschi vs Linea lombarda, Sereni annota di malumore che Erba “non sa parlargli d’altro” che delle recensioni “che di volta in volta lui vede del libro”.
Fortunatamente, sulle “beghe” personali, alla fine prevale la poesia, pur se non senza qualche polemica difficoltà. Nella raccolta Linea Kdel 1951 (per incidens: l’espressione Linea lombarda riesce ad Anceschi fondendo Linea K di Erba a Canzone lombarda di Sereni) la poesia “Tabula rasa?” presenta i versi: “Ho una cravatta crema, un vecchio peso / di desideri”.
Se l’espressione tabula rasa, come ci ricorda Scaffai, era già stata usata da Erba nella lettera inviata a Sereni da Parigi il 9 febbraio del 1948, “di mito della cravatta” parla Sereni in una lettera in cui il “professore” dapprima tratta malissimo l’ex allievo: “Ho ripensato spesso a te e anche alle tue cose: le quali, a furia di trovarmele sotto il naso, han finito coll’interessarmi nettamente di più che all’inizio”. Poi finisce quasi con l’abbracciarlo: “Infatti, se mi dà fastidio sentirti parlare di mito della cravatta, proprio la poesia in cui se ne parla nel modo più persuasivo m’è tornata alla mente assai spesso, tanto da farmi desiderare di averla scritta a suo tempo”.
Decisi pertanto di concludere la mia presentazione leggendo a Scaffai e al pubblico due poesie dedicate a Sereni: una recentissima (appare in Avrei fatto la fine di Turing, Donzelli, ottobre 2015), l’altra risalente alla morte di Sereni. E di mio padre: pure lui ufficiale di fanteria e prigioniero dal 43 al 45. Una generazione di uomini che la cravatta su camicia bianca la mettevano anche la domenica per andare allo stadio.

Vittorio Sereni ballava benissimo

Vittorio Sereni ballava benissimo
Con sua moglie e non solo.
Era una questione di nodo alla cravatta
E di piega data al pantalone,
Perché quella era l’educazione
Dell’ufficiale di fanteria,
Autorevole e all’occorrenza duro
In famiglia e sul lavoro,
Coi sottoposti da proteggere
E l’obbedienza da ricevere
Assoluta: “E’ un ordine!”,
Riconoscendo i pari con cui stabilire
Rapporti di alleanza o assidua
Belligeranza.
Ordinando per collane la propria libreria.

*

Di quando la giornata è un po’ stanca

Di quando la giornata è un po’ stanca
E cominciano le nuvole a tardare
Invece del nero all’alba che promette
Costruzione di barche a Castelletto con dei legni
Morbidi alla vista, già piegati.
Non con la ragione ma con quella
Che in termini di religione militante
E’ la testimonianza
Ti dico: tornerai a San Siro,
Sotto vetro la cravatta a strisce nere
Sul triangolo bianco del colletto
Come nella fotografia del cimitero.

“I camminatori” di Italo Testa, letti da Gianluca D’Andrea, su °punto critico

ITALO TESTA

Italo Testa

I camminatoriNuovi inizi: su “I camminatori” di Italo Testa (Valigie Rosse, Livorno 2013) – di Gianluca D’Andrea

 

Ancora non era morto.

Ma già aveva accesa in mente

la cecità del veggente

G. Caproni

 

I 19 testi di quest’unico poemetto che è I camminatori valgono innanzitutto come risposta audace in termini di possibilità tecniche della parola poetica in tempi di ibridazione prosaica e mescolanza dei generi. Le scelte di Italo Testa, infatti, sembrano convertire le «impurità» dell’anti-stile di marca tardo-novecentesca (questo è uno dei motivi che permettono, in epigrafe, l’inserimento di alcuni versi del Caproni postumo) in una nuova ricerca di funzione per quelle accortezze retoriche (e quindi stilistiche), riconducibili soprattutto all’aspetto ritmico e sonoro. Per questo, pur sapendo di correre un bel rischio, mi accingo a definire l’ultimo lavoro di Testa come un’operazione neo-melica, perché riesce a riconsiderare l’elemento primigenio del linguaggio, il canto, alla base dell’espressione poetica. Certo, la musica de I camminatori è litanica, sia in senso stretto, religioso (e l’ultimo componimento della raccolta, agendo da monito per il lettore, sembra confermarlo, ma lo vedremo in seguito), agendo da invocazione all’attenzione per le presenze fantasmatiche, senza nome e tratti, di questi attori urbani – eppure così concreti, infatti «abbattono/ le protezioni/ scavalcano/ i cancelli le reti/ e entrano/ dentro i cantieri» (p. 28, vv. 8-13) –, sia in senso figurato: la serie di componimenti tratta ininterrottamente di questi camminatori, cantandone ipnoticamente le gesta (il movimento ipnotico, realizzato attraverso l’utilizzo delle sdrucciole e del ritmo ternario, è stato ottimamente compreso da Paolo Maccari nella nota finale), i gesti, di questi piccoli eroi in nuce, e per questo ancora indefiniti, che si stagliano dal niente, dalla più grigia e comune dis-identificazione.

La ricerca di Testa, è noto, rastrella, affondando i suoi strumenti, il campo qualitativamente immenso della tradizione novecentesca, nel caso specifico de I camminatori il riferimento di maggior impatto sembra essere proprio il Caproni richiamato all’inizio di quest’analisi. È tentata, in prima istanza, una ricoagulazione dell’io, del soggetto che, pur ridotto a semplice osservatore del mondo, esprime un barlume di fiducia proprio nell’immersione, per quanto apparentemente alienata, nel contesto. Vale, a dimostrazione di quanto detto, riportare per intero l’ultima stazione della processione visiva e liturgica elaborata da Testa:

non sembrano

mai farti caso

proseguono

e niente li distoglie

s’avviano

semplicemente

ognuno alla sua meta

ma simili

e sempre più numerosi

s’avvistano

lungo le strade

si incrociano

in ogni luogo

ovunque tu cammini

camminano

(p. 35).

 

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