BREVI APPUNTI SULLA FINE V – “Mappe del genere umano” di Flavio Santi, Scheiwiller, Milano, 2012.

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Flavio Santi

BREVI APPUNTI SULLA FINE V: Mappe del genere umano di Flavio Santi, Scheiwiller, Milano, 2012.

negli specchi di ghiaccio mille occhi di lei
A. Porta

Mappe del genere umano_COP--286x424Che mappatura sia termine caro a quella generazione nata tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, è evidente anche grazie al titolo, mi verrebbe da dire riassuntivo, di questo libro di Flavio Santi.

La necessità di orientamento è esplicitamente confermata in nota proprio dall’autore, e anche se programmaticamente volontaristica – o militante, ma di una militanza ritardata e menomata giustamente dell’afflato lirico, ma vedremo come –, l’urgenza di scrittura in realtà finge di «mappare il genere umano» (p. 167). Si tratta invece di una poesia scissa per cui la finzione letteraria cozza e fa attrito col mondo proprio quando il linguaggio desidera aderirvi, riducendo ogni sussulto agonistico in agonia.

Se il primo movimento della raccolta – già rintracciabile in forma embrionale in una raccolta del 2004, pubblicata dall’allora virtuosa collana di poesia della rivista Atelier –, Il ragazzo X, è già specchio del gioco di specchi o illusioni virtuali (si “finge” la clonazione di Leopardi) messo in atto da Santi per riorientare il soggetto poetante in un mondo reso irriconoscibile dalle trasformazioni/deformazioni della tecnica, è anche vero che la stessa tecnica è presentata come segno di una chiave di lettura aprioristicamente negativa del reale. Tra repulsione e attrazione si muove questa poesia “dialettica” e cioè ancoratissima a matrici novecentesche. Dal contrasto col mondo, che sembra essere presupposto di poetica, programma, si sviluppa però nella pratica linguistica un appiattimento tonale. L’elusione ritmica evidenziata dalle spezzature e da inarcamenti in versi che si dirigono alla prosa è il segnale evidente di un’ambizione anti-lirica: «sono cambiati i sensi di marcia / delle carrozze, molti più segnali per strada / e i cocchi vanno veloci che è una meraviglia…» (Comincio a crescere…, p. 26, vv. 11-13). Ricordando che Santi è soprattutto un narratore, occorre precisare che l’attenzione “epica” per la storia aspira alla dispersione del soggetto, anche se in Mappe del genere umano si ottiene, al contrario, una posizione privilegiata d’osservazione intellettuale. Per quanto le ragioni espressionistiche evidentissime in alcune aperture surreali, «Come un mammut sono riemerso / dai ghiacciai e sono passato / dal canapè all’atomica» (Mi presento?, p. 29, vv. 1-3), ma che tutto il poema iniziale in fondo non fa che confermare, «Intanto qui il tramonto è una fila / di fucili dritti al petto» (La vita quotidiana in Italia dal Settecento al Duemila, p. 63, vv. 1-2), tentino l’impresa ardua di rinnovamento linguistico del mondo, si avverte d’altro canto la resa a un “novecentismo” di maniera.

Nel segno di una sperimentazione che purtroppo si fa doma per quanto decisivi sembrino i riferimenti di partenza – mi viene da pensare ad alcuni passaggi di Antonio Porta e al versante fruttifero della neoavanguardia: «tra le tue braccia non tieni l’uomo nuovo, contro la tua volontà è la specie che continua» (A. Porta, Balene delfini bambini, 4, in Invasioni, Mondadori, Milano, 1984, p. 19, vv. 7-8) – Santi imbastisce la sua cartografia che si vorrebbe straniante, ma che i toni più arrendevoli rispetto ai modelli, rendono invece abbastanza conforme: «Così io non sono io, sono una parte, / un fantasma» (La vita quotidiana in Italia dal Settecento al Duemila, p. 63, vv. 19-20), in cui si proietta banalmente l’io-fantasma novecentesco (basti pensare a Sereni o al Caproni ultimo di Parata, tra gli altri), su un io-clone desiderante all’infinito la solita fine.

Sul versante dell’enunciazione, il tentativo di intravedere il “nuovo” è solo un altro modo di riproporre la fine di un’identità (e del mondo ad essa sottesa) senza che avvenga realmente la fine del soggetto; così la mimesi nell’enunciato si risolve in accostamenti ironici e, apparentemente, inauditi. Penso anche al romanzo d’esordio di Santi, Diario di bordo della rosa del 1999, così come al primo lavoro in poesia, Viticci (1998), in Mappe del genere umano ripreso e al romanzo accostabile, in cui il linguaggio tenta una plasticità innovativa sciorinando virtuosismi in direzione di un “nuovo” più presunto che reale:

«L’amore in stalla

Il paese era un’esistenza agra da affrontare: i campi di patate pustolosi, tra il rubecchio di fuoco fatuo, scorbutico e scornato e un verde vaiolo, folti come un campo di spade seminate, vibranti alla tosse dell’aria, o gli alberi di noce come candele piantate in tante file, pieni e lunghi, a ceppo duro e mordente, definitivamente insediati fra le felci; la chiesa di pietra grigio tozzo, cavallino, bassotta e la campana slargata come una donna partoriente, che segnava le domeniche identiche alle prediche del parroco; la gente con i volti usurati, quasi che gli zigomi si deteriorassero tanto gli occhi altrui se li mangiano. Occhi di spine. Ma tutto questo creava la possibilità di un’intimità mascagna, e in gattabuia alla legge, quando oramai, piena, possedevate la certezza di esservi fatti tra un taglio del vino rosso emorragia, una brocca del tocai e una partita a tressette un calco di gesso da sovrapporre alla nudità della vostra natura. Comodo. Così la domenica prendevano posto nel bar di Nibbi Gjorgjùt, il locale della tranquillità, i contadini dopo messa, e pigliavano le sedie e un mazzo di carte umidiccio come una mano sudata.

A sinistra.
Una sedia».

A questo punto occorre ricordare che i tentativi e le sperimentazioni di Santi, per un periodo hanno anche coinvolto il dialetto, un dialetto che, seguendo le parole di Pusterla, «è come spostato dalla sua tradizionale orbita» (F. Pusterla, Appunti sulla poesia di Flavio Santi, «Idra», Q, 1997, pp. 9-12, ora anche id., Il nervo di Arnold – Saggi e note sulla poesia contemporanea, Marcos y Marcos, Milano, 2007, pp. 122-126) e che non «si illude di rappresentare il medium linguistico che possa ricompattare il mondo attorno a un valore archetipico» (F. Pusterla, Il nervo di Arnold – Saggi e note sulla poesia contemporanea, cit., p. 125) a manifestare ancora, dal punto di vista dell’enunciazione, un rifiuto del “vecchio” mondo che, purtroppo, non si risolve in un rinnovamento. In ogni caso, questa parentesi “friulana” giustifica soltanto la scelta definitiva di una produzione poetica in lingua, perché anche in questo contesto l’innovazione linguistica è ridotta ad accostamenti virtuosi, sì stranianti ma per niente sorprendenti, quanto decisivi per concretare un certo manierismo, che forse è la cifra essenziale di tutto il lavoro di Santi fino a oggi svolto:

Atu viodût il Videodrom
di Cronenberg, chel cui
televisôrs sfrustâts?
«…».
Atu cjalât il film di Cronenberg
concresion dal me ciuviêl?
E mai ‘sti suns iò o dis e o feveli
ma te casse craniche a vivin.
«Ma no l’è come
‘n paisag là ch’i gjavin i colôrs?»
Vive le gnove cjâr!
a disevin laiù, tal video: ma
iò capiss li’ tôs perplesstâts:
i paisags ch’o viv
son di vôs e a risunin dentri,
e al pîd crot su la vie
mai tocje un madrâc velenôs,
ma dome al ciurviel
intrusions magnetiches,
trist sanc in miêc ai baits,
energies sflancjnades,
mal-strengiudes cravates.
«…».

Hai visto il Videodrome / di Cronenberg, quello con i / televisori frustati? / «…». / Hai guardato il film di Cronenberg / concrezione del mio cervello? / E mai questi suoni io dico e parlo / ma nella scatola cranica vivono. / «Ma non è come / un paesaggio senza colori?» / Viva la nuova carne! / dicevano laggiù, nel video: ma / capisco le tue perplessità: / i paesaggi che vivo / sono di voci e risuonano dentro, / e al piede nudo per la via / mai tocca un serpente velenoso, / ma solo al cervello / intrusioni magnetiche, / cattivo sangue tra i bytes, / energie stentate, / cravatte male annodate. / «…».

(F. Santi, Rimis te sachete, Marsilio, Venezia, 2001, pp. 78-79).

La trasformazione dell’uomo in ombra, cioè la mutazione antropologica in corso e così sentita sin dalla seconda metà del Novecento anche in poesia, non è allora descrivibile se non attraverso figurazioni ibride. Ibridazione che Santi percepisce sul piano intellettuale ma che non riesce a tradurre in termini linguistici. A conferma del manierismo sostanziale che anima questa poetica e che si manifesta anche sul piano tonale, si consideri questo passo ancora da La vita quotidiana in Italia dal Settecento al Duemila (p. 64, vv. 32-37): «Costeggiano i vialetti i cespugli / di croco su cui condurre il carrello / i passeri sono sospesi ai rami, / il verde è sempre il verde / mercé la merce alquanto merdosa / eccoci a far la spesa al Mercatone». Nell’estratto, il tentativo di descrivere con il linguaggio della poesia una situazione quotidiana, non conduce allo straniamento probabilmente auspicato, bensì a una sensazione di forzatura che slega definitivamente due mondi non collimanti. Questa modalità si trascina anche altre forzature come, lapalissiana sul piano fonico (e tonale, appunto), l’allitterazione “moralisticamente” meccanica “mercé, merce, merdosa, Mercatone. Con queste scelte in apparenza dissacratorie, a perdersi è proprio la carica espressionistica che è ridotta a connotazione conformistica nell’apparente neutralità denotativa.

Tra espressionismo e oggettività, l’indecisione: «Vaghe stelle e solitarie notti da masturbare, / e tu luna, che fai tu luna? / Abbandonato, occulto / tutta la notte con in mano il rasoio / del proprio cazzo…» (Canto notturno di un navigatore errante in perenne connessione, p. 66, vv. 1-5).

Altri segnali di dissolvimento rappreso attraverso una forma tradizionale sono nelle due sezioni successive della raccolta. Anzi, se il poemetto assume una sua coerenza pur nella disomogeneità tra connotazione e denotazione, il “postmodernismo” esasperato delle sezioni successive si manifesta in un susseguirsi di frammenti in attesa di definizione e sistemazione.

In La clonazione altrui, con evidente volontà “espansiva” rispetto al primo movimento (dall’io al mondo), la sensazione di resa a una dimensione totalmente “intellettualizzata” – e quindi fagocitata nella connotazione soggettiva – si esprime in una visuale a distanza dei fatti concreti (a imporsi, lo ripetiamo, è la “letterarietà”). I «suoni si sono ormai fusi» (Girone di laurea, p. 96, v. 20), quello del mondo con l’eco risonante delle considerazioni del poeta, confondendo l’ascolto del primo. Così la “cialtroneria” stilistica (segnalata ancora in nota da Santi), si trasforma in una convinzione/convenzione stilistica, un presupposto di poetica che, però, la pratica linguistica disillude. Stilemi che si appoggiano sul citazionismo e sulla materia intellettuale e che confermano l’impossibilità di fuoriuscita del soggetto nel mondo (la resa agonica e la rinuncia all’agonismo di cui si è discusso in precedenza): «…Ruggine dolcissima / tu che puoi fallo: / riducimi a istrice e a / scaglia, che io sia / la buona scala / rotta e precipite: e / che le lune siano / erpici e chiodi…» (Rimbaud di fango, p. 104, v. 38-45).

La dissidenza di Santi è ridotta a gioco verbale, così “l’altra vita possibile”, che resta domanda nel titolo dell’ultima sezione, Batteri (un’altra vita è possibile?), appunto, è un miraggio che vorrebbe chiudere dialetticamente la tesi della prima sezione, il soggetto disorientato e l’assenza di un’identità, e l’antitesi della seconda, in cui anche il mondo è solo il risultato di una trasformazione artificiale:

Piazzata di Hitler prima di morire

Fuori i russi ridono e sparano.
A letto non pensa e non grava
la salute della luce come del buio:
quando il rullo delle tapparelle
non ti riconosce come
suo cosacco e chiedi scusa scusa.
A questo punta la notte Nacht infatti:
a scioglierti come pasticca in
due gocce d’acqua. Dire guten ed
entrare poi in gola.
Svoltare l’angolo destro,
di nuovo a letto.
Forbici, apritevi
sulla luna nera
come bolle di catrame.

Sono queste le cose che
mi restano nel gelo
di pupa che muta, sul letto, la notte,
con penuria: l’estate turbata,
del miele scaduto,
la muffa all’angolo,
il fornello acceso.

(p. 154)

La mimesi apparente tra io e mondo nella rappresentazione storica entra definitivamente in scena come posa neutra di un’anima in deficit, così com’era già avvertibile nella seconda sezione:

Flavio non sa né piangere né godere.
Che sa fare allora?
Leggete questa poesia:

Sorveglio l’anima
come l’Asinara: ho
deciso per lei un tracciato
di rovi e imbarazzati
sorveglianti. Dicono
che il direttore del carcere
faccia vita grama, con
una famiglia spiritata.
Io so solo
delle sentinelle, delle zuppe
suonate nelle ciotole,
del desiderio di un questurino
di trasferirsi al faro
dove le agavi hanno spilloni
per radici. Per ora qui
hanno portato
il televisore a colori.

(p. 113)

Scissione, dicevamo, o «due paesaggi profondamente diversi» (F. Pusterla, Il nervo di Arnold – Saggi e note sulla poesia contemporanea, cit., p. 122), così tra ricostruzione e lacerazione immedicabile, la poesia di Santi, riletta oggi, perde il vigore della conflittualità che pare invece tramutarsi in accettazione (la resa di cui sopra) dell’essere postumo del soggetto. Emerge, allora, un sentore d’inettitudine crepuscolare che prende il posto della matrice espressionistica e i risvolti surreali (quasi preparatori di un mondo nuovo e un nuovo linguaggio), prima accattivanti, ora riflettono un’immagine statica, in attesa. Anche quando, e penso all’ultima sezione, la mimesi storica cerca di risolvere la questione soggetto/mondo a favore del secondo – almeno a mio avviso le reminiscenze storiche e la loro trasfigurazione hanno questa funzione, anche se in una dimensione pur sempre “diminuita” – giunge sempre ad inibire ogni slancio, al posto del controcanto ironico delle prime fasi, una cadenza che definirei elegiaca, perlopiù nostalgica:

Vorrei essere uno di quei
bei rivoluzionari d’agosto,
col cuore in spalla, sempre pronto
a ridere di Dio,
o del suo precedente
e dell’eventuale antagonista suo.
La voce sotto la lingua roca:
meno spine in bocca e più sorbe.
Abile nello scoprire
i buchi di talpa, nello
sragionare davanti
a cartocci di riso,
nel pregare.
Vorrei proprio esserlo, così,
rivoluzionario fitto convinto.
La mia speranza è ormai un delirio.

Non avrò mai la faccia
da Jugend deutsche,
fiero con efelidi,
biondo fieno. L’occhio
ricciolo dritto
al Führer, perfetto
come una chiglia
d’argento. E mai di notte avrò
la tessitura della luna e
l’arcolaio della seta
a brillarmi e rifarmi
i bordi della storia. E mai
sentirò le sue lenzuola nuove.

Scambierò sempre
casa per un sepolcro.

(pp. 117-118)

«Ma se abbiamo paura della morte in sogno / […] vita assassina come farò / a chiamarti bellissima?» (No logo, p. 165, vv. 11 e 14-15), l’equazione tra annientamento e rigenerazione sembra recludere la parola nel gioco tutto culturale di un’allegoria sconfitta. Senza la storia e il racconto tutto è ridotto a posteriorità, alla poetica del postumo, del sopravvissuto: «Qui dentro tutto è perduto / […] ogni tentazione o la possibilità / di costruirci una storia / è tamponata» (Ahmet, detenuto a Eskisehír, p. 160, vv. 1 e 3-5).

Decretata la fine della lirica, l’opera di Santi si è già spostata su altri versanti d’indagine, alla ricerca di quelle risposte che il testo poetico sembra aver esaurito (l’ultima operazione risalente al 2016 è un noir, La primavera tarda ad arrivare. La prima indagine dell’ispettore Furlan, Mondadori, 2016). Portando alle conseguenze ultime i dubbi emersi negli autori del Secondo Novecento (penso soprattutto alla Neoavanguardia, ma non solo), Mappe del genere umano è un libro-manifesto della caduta della poesia come “genere” letterario; se ancora Antonio Porta poteva dire nel 1958 «Un attimo prima di scivolare / nella fogna gridò: Sì» (Europa cavalca un toro nero, in A. Porta, I rapporti, Feltrinelli, Milano, 1966, ora anche id., Poesie 1956-1988 a cura di Niva Lorenzini, Oscar Mondadori, Milano, 1998), con Flavio Santi identità e volontà storica sono cloni di un vecchio reale che gira su se stesso e allora può sembrare possibile «morire di un virtuoso silenzio» (La notte prima della morte di papà, p. 134, v. 14).

Gianluca D’Andrea
(Aprile 2017)

“Infine capovolti”, un inedito

11.03

Infine capovolti

“Let be be finale to seem”
Wallace Stevens

I piedi e la testa capovolti,
provando a profetizzare sul mondo
ci si trova scorticati e rovesciati
sul pavimento della storia.
Per questo vedo parrucche biondo
platino sfrecciare nei cieli notturni,
sbandierando un esotismo
che non vuole resistenza. Sherazad
sarà la storia o queste parole
a raccontarcela per dire che resistere
è questo sogno orientale e interessante,
fatto di sottosuoli sfruttabili, incroci
mercificati e scambi a fibre ottiche.
Perché non ti guardo straniero
che non voglio conoscere per il rischio
della diversità. Ma amo indossare
l’uniforme della mia mediocrità,
assiso sul mondo, sulla virtù
che ha sostituito con un cenno
la possibilità di condividerci.
Scià, presidente, spettro del reale.

(Gianluca D’Andrea, inedito)

LETTURE di Gianluca D’Andrea (34): L’ABITO D’ECCESSO

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Satu Kaikkonen – The Reindeer Act 1 (Fonte: The New Post-literate)

di Gianluca D’Andrea

… onde portai conforme
l’abito fiero…

(Giosuè Carducci, Traversando la Maremma Toscana, in Rime Nuove, 1906, vv. 1-2)

Ma in quale abito ritrovarci, in quale habitus? e in quale eccesso provare a fingere la nostra appartenenza a un valore, a un carattere?
Se «dimani cadrò» (Traversando la Maremma Toscana, cit., v. 11) come riconsiderare la presenza del mondo di un essere sulle difensive, richiuso/recluso nel recinto del suo autoriflesso? in quale lingua o codice riconoscersi?
Ma forse è in un altro sonetto – anche se la disillusione carducciana ha del rivelatorio – la “Premessa” dell’Ipersonetto nel Galateo in Bosco di Zanzotto, che si può rintracciare un indizio:

(Sonetto dello schivarsi e dell’inchinarsi)

Galatei, sparsi enunciati, dulcedini
di giusto a voi, fronde e ombre, egregio codice…
Codice di cui pregno o bosco godi
e abbondi e incombi, in nascite e putredini…

Lasciate ovunque scorrere le redini
intricando e sciogliendo glomi e nodi…
Svischiate ovunque forze e glorie, o modici
bollori d’ingredienti, indici, albedini…

Non più che in brezze ragna, o filigrana
dubbiamente filmata in echi e luci
sia il tuo schivarti, penna, e l’inchinarti…

Non sia peso nei rai che da te emanano
prescrivendo e secando; a te riduci
segno, te stesso, e le tue labili arti…

(Andrea Zanzotto, Il Galateo in Bosco, 1978)

Il codice disperso, la norma o l’ammaestramento sono in un passato di «fronde e ombre», di un esistente (natura, essere) estinto o in sospensione. Come le presunte e paradossalmente martellanti aposiopesi suggeriscono un’evasione contenuta in un plausibile rilancio di senso («egregio codice… / Codice di cui pregno o bosco godi»), così lo stesso senso balugina dalla sua scomparsa.
Il senza «peso» del segno emana comunque raggi – «rai», con tutto il peso dell’arcaismo – di comunicazione. Per quanto «labili», i segni, gli artifici senzienti dell’uomo, concedono non tanto una pienezza di senso quanto l’illusione di un attrito col mondo che è resistenza alla sua fine.

Poesia a lume di naso (intorno a “Transito all’ombra” di Gianluca D’Andrea) – Angelo Rendo

Nabanassar

“[…] Il messaggio lontano della fogna
che, muta e pregna, vomita nel mare.” (p. 16)

È l’olfatto il senso più desto in D’Andrea, i ricordi aggallano, la storia è una congerie escrementizia. Ma dal titolo ci si aspetterebbe un passaggio. Altro, rispetto al subbuglio che, sin dagli esordi, ha caratterizzato la sua poesia. Invece ombra, questo essere a metà. Una sosta, quasi a rischiararsi e ristorarsi, credi. Ma all’ombra il poeta indugia troppo; non un transito ma una “seduta”, più mestiere che vocazione.

Una storia, la sua, che è talmente irrorata dalle più diverse tracce mnestiche da caricarsi sul dettato e ingarbugliare la forma, che quasi mai combacia con la sostanza.

È evidente che la malìa filosofemica affascini questa poesia e la sporchi, a quando una bonifica? Inoltre, la contemporaneità con tutti i suoi gingilli e le sue perfidie batte sotto, titilla il civismo poetico, ma non si scioglie nel…

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LETTURE di Gianluca D’Andrea (33): IL VENTO PROIETTA LA SUA OMBRA

Snow Storm - Steam-Boat off a Harbour's Mouth exhibited 1842 by Joseph Mallord William Turner 1775-1851

William Turner, Tempesta di neve – Battello a vapore al largo di Harbour’s Mouth, 1842 (fonte: Tate)

di Gianluca D’Andrea

Così si allungano d’improvviso
le ombre alla fine dell’estate
e già producono l’antimondo
dell’inverno, all’inferno.

(Antonio Porta, Yellow, 2002, p. 6, vv. 8-11)

L’inferno dello straniero che è la nostra ombra, libra nelle nostre atmosfere l’aerea scintilla della forma, un nugolo di violenza che scema nel nulla della storia.

The wind cast its shadow and moves for the tree

(Nick Cave, Anthrocene, v. 18, dall’album Skeleton Tree, 2016)

La simbologia di un’oscura distruzione che è la morte che non può, non deve essere confusa con la vita, occorre ci trascini fuori dalla pozza che ci rispecchia e che, sempre più spesso, amiamo toccare:

«Isolare la morte dalla vita, impedire che l’una sia intimamente intrecciata con l’altra».

(Jean-Luc Nancy, L’intruso, 2000, p. 20)

Fuori, nel mondo che riteniamo distante dalla nostra intimità, è ancora percorribile il transito, quel percorso di distanziamento dall’io che ci avvicina al noi? Nel nostro “antimondo” che è la visione allucinata della nostra scomparsa “si allungano le ombre” di un “inferno”, quello dell’inserzione fraudolenta che soffoca la relazione:

«ci troviamo su di un crinale estremo e disperato: la necessità di salvare il mondo materiale dagli eccessi dello sviluppo può essere sostenuta solo dalla diffusione di comportamenti culturali che sappiano allontanarsi dall’abito dell’eccesso, che sappiano uscire, nell’esercizio delle forme comunicative, artistiche, letterarie, dal circolo illimitato del consumo fine a se stesso».

(Giulio Ferroni, Introduzione a Dopo la fine – Una letteratura possibile, 2010, p. XIX)

Ci troviamo, cioè, a dover affrontare l’estremità della “consumazione” e vestirci di un altro abito d’eccesso, quello della resistenza al consumo, è il vero modo di affrontare l’eccesso apparentemente astratto del ciclo del consumo stesso, superando ogni sterile minimalismo.

LETTURE di Gianluca D’Andrea (32): IL FORESTIERO

computer

Commodore CBM 4032

di Gianluca D’Andrea

Il forestiero è l’intruso, cioè il computato che scompare nel computare.

A un computer

In computisteria si decidono le sorti del mondo.

G. Leopardi

       Se più de’ carmi il computar s’ascolta…

G. Leopardi

Tutto rùmini di tutti
E ancora sputti e inputti
Per digitati tasti ai tremolii
D’un nulla di tivù
Che d’uno schermo ai verdi zufolìi
Iberna fasti e guasti
Placido al nostro non poterne più:
Di te, pèste e diabolica
Macchinazione elettronica!

Fatuo monatto – e a me
Vorresti dimostrare
Che meglio stia chi sa più presto
E più si bea chi va più lesto?…
Che essenza del reale
Sia più del computato il computare?
Ahi vacanza del pensiero,
Ronzìo tuo labilissimo
Mondo senza mistero!

1987-1998

(Giovanni Giudici, Save Our Souls e altri inediti, in I versi della vita, 2000)

Ecco svaniro a un punto,
e figurato è il mondo in breve carta;
ecco tutto è simíle, e discoprendo,
solo il nulla s’accresce.

(Giacomo Leopardi, Ad Angelo Mai, 1820, vv. 97-100)

Il non conosciuto distanzia il livellamento a patto che si accetti che lo stesso sconosciuto diventi noto. Popolazioni alle frontiere, le soglie che uniscono l’uomo alla sua capacità di rifiuto, d’indifferenza. Possibilità per l’uomo di trasformarsi in “rifiuto”:

«Giacché ora una tal vita non si può distinguere dalla morte, e dev’essere necessariamente tutt’uno con questa».

(Giacomo Leopardi, Zibaldone, 1. Maggio 1821, 1007)

«Non conosciamo ancora il mondo della chiarezza».

(Jean-Luc Nancy, Corpus, 2001, p. 41)

Il rigetto dell’altro che è in noi; la nostra parte malata? la nostra cattiva coscienza, l’inerzia che non vuole attriti, è questa la scomparsa:

«È solo una breve sequenza programmatica in una generale assenza di programmazione».

(Jean-Luc Nancy, L’intruso, 2000, p. 19)

Ma questa intrusione è un calcolo di prospettiva, la potenzialità di tutela che deriva dalla calcolabilità del rischio. Per questo le facoltà “computazionali” hanno mutato l’essere. Siamo esseri del “computo”, verificabili attraverso il nostro consumo, o meglio, la nostra “consumazione”. Eppure dietro l’astrazione del nostro essere calcolati aleggia il fiato di altri uomini: sono gli “stranieri” a ordire il complotto della nostra fine?

«È lecito contare gli avvoltoi tra gli uccelli da preda solo se è certo che hanno assunto voce umana».

(Paul Celan, Microliti, 1949, 2, 2010, p. 13)

LETTURE di Gianluca D’Andrea (31): SERIE DEL NULLA

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Ai Weiwei distrugge una vaso della dinastia Han (206 a.C.– 220 d.C) dopo averlo ridipinto con il logo della Coca-Cola (Fonte: Rapporto confidenziale)

di Gianluca D’Andrea

… paradiso per scherzo
di fato, non è nulla quello che tu cerchi
fuori di me che sono la rinuncia, m’annuncia
da prima doloroso e poi cauto nel suo
crearsi quel firmamento che cercavo.

(Amelia Rosselli, Serie Ospedaliera, 1969)

“Affinché i fatti «arrivassero» era necessario che la limitazione al risultato e la «riduzione allo smisurato» fossero revocati”.

(Günther Anders, Dopo Holocaust, 1979, 2014, p. 39)

Re-vocare, richiamare per trattare, mutare i propri convincimenti. In primo luogo nei confronti del soggetto della storia e della sua specificità “fatale”, dei suoi margini recintati. La ricerca “fuori” riguarda la rinuncia agli obiettivi, a una classifica, a una tassonomia.
La “serie del nulla” che è l’accumulo, elude la presenza del soggetto, il suo essere fattivo, conduce a una potenza “consumatrice”, al brivido della consumazione.
Dopo le atrocità avviate dal Secondo Conflitto, il mondo non ha finito di “cadere” nella sua scomparsa, che è scomparsa dell’individuo di presenza e ascolto. Al suo posto si “presenta” un ente impersonale, “virtualizzato” dalla sua necessità di consumo. Dalla “consumazione” dell’uomo all’uomo del consumo, in campo è una potenza distruttrice che fa dell’astrazione una nuova forma di violenza, che agisce sempre in funzione della scomparsa.
Revocare lo “smisurato” in un nuovo “firmamento”, cioè in qualcosa di saldo che possa ricreare nuove costellazioni di contatto.
Una camera, una stanza ospitale dove si raccolgono i forestieri, gli infermi che sentono la necessità di scambiarsi un racconto di esperienze prima della “vera” scomparsa. In questo luogo – il nostro luogo – il forestiero è il solo individuo “ospitabile”, nonostante i rischi che l’ospite si trasformi per esigenza vitale in mostro esiziale. Nella sua alterità lo straniero “mostra” la sua decisiva particolarità, scuote il livellamento della scomparsa con una “riconoscibilità” straniante.