Lo spettacolo della fine – XXVI.

Lo spettacolo della fine – XXVI.

La luce era calata, aveva assunto sfumature brune, poi violacee sempre più distanti. L’atmosfera, all’interno della capsula, stava tornando alla consuetudine per cui era possibile concentrarsi e raggiungere la console. Sentivo apprensione per gli abitanti delle altre capsule – come ogni volta che i bagliori diventavano insostenibili. Infatti, la sosta condivisa sembrava attenuare il disagio di dover accusare passivamente le azioni del mondo esterno. Ma la sensazione di aver subito una violenza fu presto sostituita dal desiderio di attrazione del momento, ed esserci dentro cancellò ogni malessere. Nella contemporaneità assoluta che solo i brevi momenti di rottura creati dalla luce esterna incrinavano, raggiunsi la console e avviai un video in cui istantanee con un’esposizione superiore e con soggetti d’ombra si susseguivano senza un significato apparente, ecc.
Molte volte la sensazione mi sorprese
d’inadeguatezza a seguito dei dolori
scaturiti da difetti congeniti
e da un’educazione da tempo dispersa
nel silenzio di queste notti
e giorni reinventati. Forse il cosmo,
questa luce plastica che si riflette nei corpi,
è una luce bruna in fuga
sulle grandi distanze tra i corpi.
Se non esiste prospettiva ma solo un grumo
di figure che illudono lo spazio
nella molteplicità infinita dei punti di vista,
non resta che l’accumulo
di immagini, mai ricomponibili in un racconto,
o in un raccordo col dopo
che qualcuno pazientemente ricostruirà?
Poiché la celebrazione della libertà è un sogno retorico, una montatura di parole che toccano valori condivisi iniettati di storia occorre ripetere con veemenza i concetti cardine di una volontà individuale che coinvolge l’altro, per indirizzarlo, ecc.
La libertà come valore scaduto, come residuo di un’illusione che supera il mondo. Il desiderio diventa reale nell’istante in cui tra medium e individuo non esiste confine ma un’unica appartenenza, un mondo unico in cui soggetto e oggetto sono attivati in uno scenario che scaturisce dal desiderio dello stesso soggetto e ne realizza la pienezza. Unico come uniforme o crepa nel dubbio e nella scelta? Unico come pienezza o inibizione?

Unico come tensione sempre irrisolta verso una totalità assente, uno sguardo sull’incompiuto, sull’apparato cunicolare che può ammettere una fuoriuscita ma non ne considera la necessità. Diversamente sarebbe uno scontro dialettico, con servo e padrone costantemente interscambiabili, invece a me – e a tutti i soggetti delle capsule – era toccata in sorte l’osservazione dei fatti accaduti, impastarsi nel fango virtuale di un mega-archivio, per selezionare barlumi e reimmetterli in un racconto impossibile, ecc.
Nel solco di mezzo, nella solitudine manierata che contraddistingue questi giorni nuovi – come sempre – traccio connessioni possibili tra gli eventi. Una maschera dopo l’altra, uno svelamento nel suo procedere.

Vanni Bianconi: una poesia da “Il passo dell’uomo” (Casagrande, 2012) – Nuove Postille ai testi

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Vanni Bianconi

di Gianluca D’Andrea

Vanni Bianconi: una poesia da Il passo dell’uomo (2012)

il passo

Cosmogonia

«I know», dici a Loren anche se non sai che cosa sia
a farla piangere (un pianto diverso da quello che alle sei
ci sballa il giorno, o di noia, stizza, fame), «I know».
Così i cosmologi postulano dark matter, energye flow.

Tanti sforzi per capire si consumano come un alka-seltzer
posato sul bagnato del ripiano di cucina, li incalza
la traccia di un’ombra e se si manifesta nella lingua,
nelle sue misure di respiro e di materia, si ha una tregua.

Ma le cose oscure, la vita invisibile sul farsi,
di tanto in tanto le stanavano i tuoi occhi i mesi scorsi
nel punto d’aria che a ogni battito di ciglia è rime
alterne tra le tue pupille nere e luce e rimmel.

Urti in uno spigolo e Loren che non parla, ti dice: «ainóu» –
e se versi una lacrima è lenta, zuccherina, un po’
come i tuoi bui baci da seta o il chiaro del fiore di trifoglio,
degli sgoccioli di latte tra di voi e di questo primo foglio.


Postilla:
In cosa consista la capacità di dire la relazione si può avvertire in questo testo di Vanni Bianconi, il quale mirabilmente intreccia il quotidiano e l’universale, l’individuale e l’assoluto. Gli “universali”, appunto, che fanno il nostro mondo risiedono nelle minime tracce che la vita conserva e che l’interfaccia linguistica ogni tanto fa emergere.
A colpire è la necessità delle associazioni che, però, avvengono fuori fuoco, infatti le parole-rima giocano con l’imperfezione sonora che ne unisce il senso fallendo la reciproca collimazione (per questo, ad esempio, «rime» e «rimmel», ai versi 11 e 12, possono sì risuonare tra loro, ma non possono nascondere il senso di artificio che lo strumento linguistico fa tracimare nell’esistenza).
La lingua manifesta pienamente le sue oscillazioni semantiche proprio in queste imperfette epifanie sonore: «I know», pronunciato con ogni probabilità da una madre in risposta a un pianto inconsueto della figlia, apre una voragine associativa e, per opposizione, conduce al massimo dell’inconsapevolezza. Dalla «dark matter» dei «cosmologi» all’inventio del “soggettivo «ainóu» (pronunciato stavolta dal padre/autore), giù fino all’irrazionale e “sensitiva” conclusione, giocata, ancora una volta, sull’alternanza metaforica tra buio e chiarezza («come i tuoi bui baci da seta o il chiaro del fiore di trifoglio») in funzione della nascita “perfetta” – nelle imperfezioni – tra fiori e «sgoccioli di latte».
“Tra”, cioè relazione di cui la poesia si fa, appunto, interfaccia, per cui la lingua dell’informazione (l’inglese scientifico) si avvicina al richiamo istintuale (l’onomatopea nel verso immaginario della bimba), riconfigurando un nuovo contesto di ri-nascita (come la rima “esatta” «trifoglio», «primo foglio» sembra sostenere).

SEGNI – DESTINO DELLA POESIA

di Gianluca D’Andrea

SEGNI – DESTINO DELLA POESIA

Anche il destino, come il carattere, può essere osservato solo in segni
W. Benjamin

Segni: prendere spunto da ciò che attira è un’ambizione di riconoscimento. Occorre riconoscere l’importanza dell’individuo per la sua capacità mimetica, non per la sua originalità. Solo dall’abilità mimetica può scaturire l’opera (non è possibile pensare a uno spunto di originalità, rispetto a quale “originarietà” poi, in un’epoca ad altissimo tasso di riproducibilità).
Le corrispondenze immateriali di Benjamin passano sempre più dalla scrittura all’immagine, fu già lui a constatarlo e il nostro tempo a confermarlo. Eppure, sembra possibile anche un movimento contrario. In tal caso la scrittura non è solo “archivio di somiglianze non sensibili”, ma archivio interpretativo differenziato. Solo l’aspetto semiotico della scrittura sembra avere un destino (ecco perché la prosa ha maggior impatto rispetto alla poesia, almeno del vecchio concetto di poesia), mentre l’aspetto “onomatopeico” è trasferito in quello visivo: la somiglianza è sostituita dalla veridicità. L’aspetto creativo della scrittura ormai risiede nel distanziamento ritmico e sonoro – anche se alcune associazioni foniche sembrerebbero funzionare come apparato residuale del passato, permettendo ancora una trasmissione. Sul piano del senso, se visione e musica sono ormai dispositivi autosufficienti e in commistione, occorre verificare se la scrittura può realizzarsi proprio in quest’ultima commistione. L’aspetto connettivo della scrittura, la sua “tattilità” per così dire, produce ancora informazione. Essa, a prescindere dalle forme e dai generi, è sempre “poetica”, cioè ri-creativa: perché mantiene la sua funzione di supporto a linguaggi altri (immagine e suono). Il senso di ciò che accade è espresso e ancora esprimibile attraverso il linguaggio; la scrittura funge da scansione temporale rallentata – una specie di slow-motion – che mantiene un piano plurudimensionale e opaco. L’unidimensionalità dell’immagine, confermata dalla sua manifestazione, un’epifania che si consuma nel presente, riguarda anche il fenomeno dell’archiviazione perché il senso, comunque, si spegne dopo la visione.
Il continuum semiotico è dato dalla tessitura dei segni. In tal caso anche l’intreccio di immagini può dar luogo a un plurisenso (basti pensare ai film o all’arte fotografica). La poesia ha sempre “significato” per mezzo del suo statuto ibrido, inteso come connettività multimediale. La concatenazione tra parola e altri mezzi espressivi oggi raggiunge possibilità altre, poiché la parola non ha più bisogno di fingere la propria originalità, ma di manifestare se stessa nella commistione con altri media. Se all’interno di un testo “canonico” è possibile inserire un brano musicale, un video o un’immagine, non si è fatto niente di nuovo ma si è resa evidente la possibilità di abbracciare un senso multimediale – in cui strumento e scelta soggettiva si fanno ancora opera – da sempre sotteso, lo ribadiamo, al gesto della poesia. Il senso effettivo di “poesia” travalica ogni postura legata ai generi, perché da sempre riguarda le capacità segnaletiche che permettono di manifestare e ri-creare il circostante. La crisi del “genere poesia” non è fisiologica, con buona pace di tutti i suoi detrattori, quanto terminologica: è la sclerotizzazione della sua definizione a confinare la poesia nella gabbia dei generi, quando invece essa si perpetua nell’aspirazione alla propria esistenza o, in assoluto, alla rigenerazione della semplice esistenza.

(Aprile 2018)

Lo spettacolo della fine – XXVIII.

tramonti

Lo spettacolo della fine – XXVIII.

Dalla luce indifferente e dorata
al tramonto dei sensi
nel cuore del desiderio, ecc.
Sdraiato sul letto dietro la console
osservo un tramonto terrestre.
La steppa confonde e disorienta,
i suoi odori provengono da ricordi
industriali ed erbe innominabili
suscitano un approccio tattile e un calore
estinto s’insinua nella distanza dal mondo
del prima. Il viola ostile
che si appressa ai campi e la bruma
sulla striscia aerea che avvolge
lo sguardo scende da un cielo immutabile.
Poi, come in una notte d’estate,
l’imbrunire trasforma il paesaggio,
la comunione crepuscolare e mediterranea
dei corpi in un riverbero, nel canto basso
all’orizzonte di una sfumatura dorata,
la fine nuda che chiude ogni riflesso.