Antonio Riccardi: una poesia da “Tormenti della cattività” (Garzanti, 2018) – Nuove Postille ai testi

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Antonio Riccardi (Foto: Dino Ignani)

di Gianluca D’Andrea

Antonio Riccardi: una poesia da Tormenti della cattività (2018)

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Tutti essendo fanciulli, abbiamo potuto tener dietro coll’allevare
rane allo sviluppo delle membra a spese della coda.
Quante volte abbiamo osservato i girini mutarsi in rane
e abbiamo visto la coda ridursi
in misura che le zampe s’allungavano?

E noi Monetina restando sull’orlo
della stessa campagna di allora
perderemo con discrezione la coda
o il senso della coda restando ancora cosa?


Postilla:

Toni sapienziali, come sempre nell’opera di Riccardi, e l’incognita del futuro che incrocia la necessità del ricordo.
Il testo, in apertura, presenta l’osservazione di un naturalista “sulla classe degli animali anfibi” che caratterizza l’intera serie all’interno della raccolta. Nella finzione del racconto è messo in dubbio il procedimento induttivo e la plausibilità complessiva di ogni legge universale. Il «regno intermedio», reso manifesto da esseri di transito (dall’acqua alla terraferma), le rane “allegoriche” di cui disquisisce il naturalista, è il tempo, il nostro “tempo dimezzato”, in piena metamorfosi. Ma come leggere la trasformazione che arriva se non come possibilità dentro un reticolato di incognite?
Le interrogazioni all’interno del componimento hanno funzione argomentativa, riducendo a incertezza entimematica le premesse “naturalistiche”. «Restando sull’orlo», il tempo “raddoppia” e la riflessione su futuro e passato sfalda il presente, la sua presunta “eternità”. Il linguaggio della poesia, allora, ha il compito (la possibilità, dicevamo) di “verificare” – e vivificare? – la “cosa” inerte che rischia di diventare il mondo. Nell’«orlo» tra cosa e animale, o forse sarebbe meglio dire tra linguaggio ed esistente, si dipana, come sempre, la “nuova” affabulazione che è la nostra vita.

Vanni Bianconi: una poesia da “Il passo dell’uomo” (Casagrande, 2012) – Nuove Postille ai testi

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Vanni Bianconi

di Gianluca D’Andrea

Vanni Bianconi: una poesia da Il passo dell’uomo (2012)

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Cosmogonia

«I know», dici a Loren anche se non sai che cosa sia
a farla piangere (un pianto diverso da quello che alle sei
ci sballa il giorno, o di noia, stizza, fame), «I know».
Così i cosmologi postulano dark matter, energye flow.

Tanti sforzi per capire si consumano come un alka-seltzer
posato sul bagnato del ripiano di cucina, li incalza
la traccia di un’ombra e se si manifesta nella lingua,
nelle sue misure di respiro e di materia, si ha una tregua.

Ma le cose oscure, la vita invisibile sul farsi,
di tanto in tanto le stanavano i tuoi occhi i mesi scorsi
nel punto d’aria che a ogni battito di ciglia è rime
alterne tra le tue pupille nere e luce e rimmel.

Urti in uno spigolo e Loren che non parla, ti dice: «ainóu» –
e se versi una lacrima è lenta, zuccherina, un po’
come i tuoi bui baci da seta o il chiaro del fiore di trifoglio,
degli sgoccioli di latte tra di voi e di questo primo foglio.


Postilla:
In cosa consista la capacità di dire la relazione si può avvertire in questo testo di Vanni Bianconi, il quale mirabilmente intreccia il quotidiano e l’universale, l’individuale e l’assoluto. Gli “universali”, appunto, che fanno il nostro mondo risiedono nelle minime tracce che la vita conserva e che l’interfaccia linguistica ogni tanto fa emergere.
A colpire è la necessità delle associazioni che, però, avvengono fuori fuoco, infatti le parole-rima giocano con l’imperfezione sonora che ne unisce il senso fallendo la reciproca collimazione (per questo, ad esempio, «rime» e «rimmel», ai versi 11 e 12, possono sì risuonare tra loro, ma non possono nascondere il senso di artificio che lo strumento linguistico fa tracimare nell’esistenza).
La lingua manifesta pienamente le sue oscillazioni semantiche proprio in queste imperfette epifanie sonore: «I know», pronunciato con ogni probabilità da una madre in risposta a un pianto inconsueto della figlia, apre una voragine associativa e, per opposizione, conduce al massimo dell’inconsapevolezza. Dalla «dark matter» dei «cosmologi» all’inventio del “soggettivo «ainóu» (pronunciato stavolta dal padre/autore), giù fino all’irrazionale e “sensitiva” conclusione, giocata, ancora una volta, sull’alternanza metaforica tra buio e chiarezza («come i tuoi bui baci da seta o il chiaro del fiore di trifoglio») in funzione della nascita “perfetta” – nelle imperfezioni – tra fiori e «sgoccioli di latte».
“Tra”, cioè relazione di cui la poesia si fa, appunto, interfaccia, per cui la lingua dell’informazione (l’inglese scientifico) si avvicina al richiamo istintuale (l’onomatopea nel verso immaginario della bimba), riconfigurando un nuovo contesto di ri-nascita (come la rima “esatta” «trifoglio», «primo foglio» sembra sostenere).

Enrico Testa: una poesia da “Cairn” (Einaudi, 2018) – Nuove Postille ai testi

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Enrico Testa

di Gianluca D’Andrea

Enrico Testa: una poesia da Cairn (2018)

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Cairn

altrove li chiamano Steinmänner, uomini di pietra.
Da queste parti invece, un po’ maldestramente, ometti.
Sono le piramidali montagnole di sassi
che sull’altopiano invaso dalla nebbia
amichevolmente indicano la traccia:
quella da seguire senza cadere nei crepacci
o scivolare giù in ghiaioni ignoti e improvvisi.

In tempi remoti, monumenti:
sepolture o santuari di pietra lavica o calcare
eretti, sotto le male nuvole
e i corvi in pattuglia ritornanti,
in forma di pegno o rispetto per i morti
o forse (ambigue le sragionevoli ragioni
dei viventi) per impedir loro di svegliarsi.
Ora però ci dicono, in tanto affannarsi,
qual è il sentiero irriconoscibile.

Segnavia e segnavita.

Talvolta, tra fossati asciutti
dove abitano neri millepiedi
e qualche lucertola passa sul mezzogiorno,
vi crescono attorno cespugli di rovi pungenti:
more mature e amare.
Assaggiale. Sanno di sangue.


Postilla:
Cairn è il tentativo di orientarsi dentro un mondo di scomparse. In primo luogo a emergere è la sensazione di pericolo che l’andamento discorsivo e un dettato sobrio mascherano di “normalità”. L’atmosfera sfiora l’ironia e, infatti, l’aggettivazione («le male nuvole», «le sragionevoli ragioni», «il sentiero irriconoscibile») estremamente esposta sottende un certo moralismo, per fortuna stemperato dalla “serietà” tematica e, ancor più, da una sonorità (vedi alcuni giochi allitterativi anche abbinati per “contrasto”, come nel quasi ossimoro «more mature e amare») che riesce a costruire coesione ritmica e tonale in funzione di una vera e propria agnizione. Il “cairn”, il mucchio di pietre tombali ma anche traccia nei tragitti montani («segnavia e segnavita»), è il segnale allarmante (per traslato, ovviamente, è la stessa parola) che assume, come sempre nella parabola poetica di Enrico Testa, funzione etica. Questa parola, quindi, mai pacificata, agonistica, è sì un reperto a rischio di estinzione, ma che necessita di un costante ritorno alla luce. Nella sua capacità di produrre frutti che «sanno di sangue», vitali ed esiziali allo stesso tempo, la poesia, sembra dirci Testa, va “assaggiata” proprio per il portato etico del suo messaggio, vero perché mette in campo tutte le ambivalenze dell’esistenza, rifiutandone le potenzialità uniformanti.

Postille (su Officina Poesia Nuovi Argomenti)

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Susan Hiller, After Duchamp, 2017-2017

Postille (tempi, luoghi e modi del contatto) di Gianluca D’Andrea (L’Arcolaio, 2017), con prefazione di Fabio Pusterla, è un percorso antologico attraverso alcuni testi campione, annotati, della poesia del Novecento. Pubblichiamo le parti su Milo De Angelis, Andrea Zanzotto, Antonella Anedda, Amelia Rosselli, Eugenio Montale.

MILO DE ANGELIS: UNA POESIA DA INCONTRI E AGGUATI
(Mondadori, 2015)
(28/06/2015)

Il tempo era il tuo unico compagno
e tra quelle anime inascoltate
vidi te che camminavi
sulla linea dei comignoli
ti aprivi le vene
tra un grammo
e un altro grammo
bisbigliavi l’inno dei corpi perduti
nel turno di notte
diceva cercatemi
cercatemi sotto le parole e avevi
una gonna azzurra e un viso
sbagliato e sulla tua mano
scrutavi una linea sola e il nulla
iniziò a prendere forma.

POSTILLA:
Certo è il tempo della fine a interrompere ancora il flusso. «Anime inascoltate», «corpi perduti» e una notte che s’inten– sifica e copre le parole. I personaggi sono spettri, ombre che giungono da una realtà a stento percepibile, «una gonna az-zurra e un viso» sono segnali più che dati concreti (e, infatti,lo stesso viso è «sbagliato», come in tensione verso una alte-rità ignota). Eppure dalla ricerca scabra, un male si annun-ciava – «ti aprivi le vene / tra un grammo e un altro gram-mo» –, piano emerge una nuova possibilità: «sotto le parole» il minimo disegno si allunga «e il nulla / iniziò a prendere forma».

ANDREA ZANZOTTO: UNA POESIA DA METEO
(Donzelli, 1996)
(12/09/2015)

Leggende
Nel compleanno del maggio
«Tu non sei onnipotente»
dice la pallida bambina

*
Polveri di ultime, perse
battaglie tra blu e verde
dove orizzonti pesano sulle erbe

*
Lievi voci, api inselvatichite –
tutto sogna altri viaggi
tutto ritorna in minimi fitti tagli

*
Forse api di gelo in sottili
invisibili sciami dietro nuvole –
Non convinto il ramoscello annuisce

*
Voglie ed auguri malaccetti,
viole del pensiero
sotto occhi ed occhi
—————— quando maggio nega

*
Il bimbo – grandine, gelido ma
risorgente maggio,
«Non sono onnipotente»
batte e ribatte sui tetti

*
«Mai più maggio» dicono
in grigi e blu
segreti insetti grandini segrete

*
Mai mancante neve di metà maggio
chi vuoi salvare?
Chi ti ostini a salvare?

*
Come, perché, il più cupo
maggio del secolo – cento
anni d’oscurità in un mese?

*
Acido spray del tramonto
Acide radici all’orizzonte
Acido: subitamente inventati linguaggi

1985

POSTILLA:
Mistero del tempo, cronologico, atmosferico? Come sempre cupezza e luce in Zanzotto s’innestano sulla riflessione della “propria” contemporaneità.
C’è, in principio il tentativo del racconto, l’atmosfera del mu-tamento (climatico?) e l’azione “acida” è quella dell’uomo cui spetta un finale arrembante: anafore e climax a seguire, a perseguitare l’orrore dell’azione distruttiva, in bilico tra l’ibri-dazione («Acido spray del tramonto», spray che traccia l’an-nientamento del tramonto o tramonto che si trasforma nel nuovo scenario del negativo?) e l’innovazione che è conse-guenza di un’evoluzione, un diverso attraversamento («Acide radici all’orizzonte»). E infatti l’«acido», sema di dissoluzione, si apre a immediate trasmutazioni, invenzioni, nuovi «lin-guaggi».

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Durs Grünbein: una poesia da “A metà partita” (Einaudi, 1999) – Nuove Postille ai testi

Grunbein

Durs Grünbein (Foto di Dino Ignani)

di Gianluca D’Andrea

Durs Grünbein: una poesia da Trappole e pieghe (1994)

a metà partita

Alba

Endlich sind all die Wanderer tot
Und zur Ruhe gekommen die Lieder
Der Verstörten, der Landschaftskranken
In ihren langen Schatten, am Horizont.

Kleine Koseworte und Grausamkeiten
Treiben gelöst in der Luft. Wie immer
Sind die Sonnenbänke besetzt, lächeln
Kinder und Alte aneinander vorbei.

In den Zweigen hängen Erinnerungen,
Genaue Szenen aus einem künftigen Tag.
Überall Atem und Sprünge rückwärts
Durchs Dunkel von Urne zu Uterus.

Und das Neue, gefährlich und über Nacht
Ist es Welt geworden. So komm heraus
Aus zerwühlten Laken, sieh sie dir an,
Himmel, noch unbehelligt, und unten

Aus dem Hinterhalt aufgebrochen,
Giftige Gräser und Elstern im Staub,
Mit bösem Flügelschlag, Diebe
In der Mitte des Lebensweges wie du.

*

Alba

Morti alla fine sono tutti i viandanti
e ammutoliti i canti degli sconvolti,
dei malati di paesaggio nelle loro
ombre lunghe, all’orizzonte.

Brevi parole tenere e ferocie
volteggiano nell’aria. Come sempre sono
le panche al sole occupate, vecchi e bambini
si passano accanto, sorridendo.

Nei rami acrobazie di ricordi,
nitide scene di un giorno a venire.
Respiri, balzi in avanti,
nel buio, da urna a utero.

E la novità, rischiosa e repentina,
è diventata mondo. Su, vieni fuori
dal groviglio dei lenzuoli, e guardali:
cieli non ancora assillati, e sotto,

sbucate dall’agguato, erbe velenose
e gazze nella polvere, un maligno
sbattere d’ali, ladri a mezzo
del cammino della vita come te.

(Traduzione di Anna Maria Carpi)


Postilla:

La scissione alienante degli esordi, tra «parole tenere e ferocie» sembra assestarsi in una dialettica oscillatoria degli estremi se, «da urna a utero», il mondo è una «novità rischiosa e repentina». Eppure occorre ricordarle quelle origini del dissenso e della fine che concedono l’alba di questo “nuovo mondo”, perché è solo attraverso la memoria che si può ri-condurre la parola alla funzione di traccia. Da questo sistema – che ricorda quanto «Endlich sind all die Wanderer tot» – può emergere, tra gli altri indizi, un’etica del residuo. Liminari, infatti, le figure umane che appaiono nel componimento sono «vecchi e bambini» – inizio e fine della vita – margini e confini che «si passano accanto» come a riassumere quel “cammino” che riesce a svilupparsi «dal groviglio dei lenzuoli», per un soggetto che, finalmente, riconosce barlumi di compartecipazione – un po’ sull’esempio di Enzensberger – nel “fuori” «maligno» per cui tutti, soggetto compreso, sono «In der Mitte des Lebensweges», «come te».

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Francesca PiquerasSarmiento © (Après la fin, 2016-2017)

 

Antonio Porta: una poesia da “Invasioni” (Mondadori, 1984) – Nuove Postille ai testi

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Antonio Porta

di Gianluca D’Andrea

Antonio Porta: una poesia da Invasioni (1984)

Invasioni

 

Ottobre oggi è un mese rovente
la vagina che si apre sporge una lingua di vitello
un albero affonda le sue radici nell’utero
ma come il sole ricade dietro la collina sacra
il gelo tagliente mi ammonisce:
era l’ultima occasione. Sì, sono
stato felice. Là dove era Firenze
un lago così blu stende il suo dominio
che le anatre planano sul ghiaccio. Più sopra
una falce di luna con occhi di volpe ai lati.
La mia gola soffia senza lingua e questo
è l’ultimo senso.

I.I0.I981


Postilla:

Tante volte abbiamo notato come la trasformazione del contesto apra vertigini di senso, e quel disorientamento inevitabile, che introducono a una nuova ricerca. La necessità di “nuovo”, in nessuno forse come in Antonio Porta, produce un’esasperazione linguistica in cui i parossismi delle immagini tendono a ri-creare dalla “vacanza” del senso dei significati. Il surrealismo straniante, le localizzazioni insolite – «Là dove era Firenze / un lago così blu stende il suo dominio» – tendono a una trasformazione delle referenze e manifestano un’angoscia primordiale per plausibili, imminenti, scomparse. La simbologia giocosamente apocalittica muta in qualcosa di molto serio. Si possono estrarre miti di rinascita: ribollire carnale che precipita nell’immutabile come in «la vagina che si apre sporge una lingua di vitello / un albero affonda le sue radici nell’utero». Se il soggetto era stato «felice» nel suo vecchio presente, in quello attuale può solo esprimere «l’ultimo senso» nella sua assenza di voce (almeno seguendo una direzione tradizionale nell’articolazione dei significati), perché a restare è un “canto” che «soffia senza lingua». Eppure, questo “ultimo senso” segue «nello stesso istante una folata di vento […] / sospinge la vita di continuo / e intreccia i semi tra loro, li annoda alla terra» (come si può leggere in un altro passo del libro), in una volontà di rinascita, di “nuovo” incontro che superi, in una speranza quasi utopica, ogni “invasione”.

Michele Ranchetti: una poesia da “Verbale” (Garzanti, 2001) – Nuove Postille ai testi

Ranchetti

Michele Ranchetti

di Gianluca D’Andrea

Michele Ranchetti: una poesia da Verbale (2001)

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Muoiono le figure dell’assenso
vite non più parallele s’interrompono
d’essere presente è il compito, non più la sorte.
Tu non sei
più vicino alla fine che al principio
e il dove è inesistente: ora precipita
o sale e si sottrae: si avverte
come presenza oltre l’assenza eterna.


Postilla:

Da questo reportage di matrice classica viene fuori un’immagine. Un barlume da un insieme di “illuminazione e ombra” (almeno a detta dell’autore); a noi sembra giungere una necessità di presenza dopo l’avvenuta fine. Di che? Dell’essere e del tempo di questo stesso essere, così particolare da divenire “figura”, paradigma di un umano non «più vicino alla fine che al principio», in un’equidistanza che annienta come in un paradosso la distanza stessa. La distanza da una relazione col percepibile che si propone «oltre l’assenza eterna», si ribalta in una “sensazione” del nuovo, in un rinnovamento appena avvertibile.
Da questo reperto-referto si estrapola un senso assoluto, come da un’epigrafe il sunto rappresentativo di un’opera. Quasi a margine dell’esistere, il segno che marchia il suo essere avvenuto e, allo stesso tempo, presenzia la sua ineffabilità, la speranza del suo avvenire “eterno”.

 

CON SETTEMBRE INIZIA LA NUOVA STAGIONE POETICO-LETTERARIA DE L’ARCOLAIO

GIANLUCA D’ANDREA – “POSTILLE (Tempi, luoghi e modi del contatto)” PREFAZIONE DI FABIO PUSTERLA – COLLANA “FOGLI DI CRITICA”

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Imitiamo la dinamica delle stagioni cinematografiche. Dopo il deserto africano di questa estate morente, vi anticipiamo alcuni libri in lavorazione in casa editrice. Sono progetti che potrete vedere realizzati nei mesi che precedono il Natale. Novità ragguardevoli e inaspettate che ci allietano e rendono più prezioso il nostro catalogo. Il lavoro che stiamo curando è dedicato a voi, carissimi lettori. Come sempre, vi auguriamo una lettura piacevole e innovativa.

La Redazione.

ALBERTO BERTONI – STEFANO MASSARI – PIER DAMIANO ORI

“STATI DI POESIA CONTEMPORANEA” NUOVA COLLANA “FOGLI DI CRITICA

GASSID MOHAMMED “ATTRAVERSO IL SILENZIO” COLLANA L’ARCOLAIO

ALEKSANDR BLOK (A CURA DI DARIO BORSO) “I DODICI” CON LA TRADUZIONE DAL RUSSO AL TEDESCO DI PAUL CELAN. 

AUTORI VARI (A CURA DI MATTEO M. VECCHIO E FABIO GUIDALI) – “Antonia Pozzi e la «singolare generazione»” COLLANA “FOGLI DI CRITICA”.

BILL RAMSELL “Il sogno d’inverno dell’architetto”, TRADUZIONE DI LORENZO MARI – COLLANA…

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Umberto Fiori: una poesia da “Chiarimenti” (Marcos y Marcos, 1995) – Nuove Postille ai testi

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Umberto Fiori (Foto di Dino Ignani)

di Gianluca D’Andrea

Umberto Fiori: una poesia da Chiarimenti (1995)

chiarimenti

Massicciata

Il treno si è fermato tra lo scalo
e la stazione. Ecco laggiù la cava
come un lago di buio
in mezzo agli orti.

L’ombra del serbatoio, lunga, sul muro,
quest’aria di ferro e menta:
hanno tutto presente, sentono
e vedono tutto, i morti.

I morti, io nel cemento
guardo i fiori
bellissimi dell’ortica
che mi separano da loro.


Postilla:

La scomparsa captata in uno spazio presente, guardato e intrapreso nell’attesa, mentre una vertigine di suoni prova a contenerlo.
Il movimento per cui il soggetto raggiunge il luogo di un riconoscimento – agnizione che, vedremo, lo distingue dagli scomparsi, o almeno tenta di farlo – è attivato da un mezzo di trasporto comune (il treno, sostitutivo di “classici” medium di approdo) che raggiunge quella sosta e che permette la correlazione tra due mondi. In sostanza è in scena un piccolo dramma, se, infatti, il «lago buio / in mezzo agli orti» e l’ombra della seconda strofa introducono la presenza/assenza di un al di là onnipervasivo («hanno tutto presente, sentono / e vedono tutto, i morti»), è anche vero che il soggetto che scrive si distanzia dalla suddetta pervasività, ricadendo nell’hic et nunc della contingenza.
Il treno non riparte e la “separazione” tra i vivi, rappresentati dall’autore e dalla sua percezione dei fatti, e i morti, è proprio il correlativo della percezione, in questo caso espresso da «i fiori / bellissimi dell’ortica» (e Fiori è il cognome del poeta). Questa “oggettivazione” del senso del reale non ha nulla di rassicurante, se è vero che l’incombenza dell’alterità può far sparire proprio quella contingenza presentata come ultimo appiglio, in contrasto alla deriva metafisica.
A fare percepire, questa volta al lettore, l’agone reale/irreale in corso nel componimento, è l’apparato sonoro che ha funzione di collegamento: a partire dalla sequenza orti, morti, ortica, con risonanze che conducono a una rinascita concreta (almeno in termini psicologici) del soggetto, dopo lo stallo intermedio in quella terra di nessuno «tra lo scalo / e la stazione». Constatata l’irriducibilità del legame tra vita e morte (almeno attraverso allitterazioni, consonanze, rime, assonanze, ad esempio in questa serie: menta, presente, sentono, fino al cemento, οἶκος metonimico non solo del soggetto ma dell’umanità tutta, «io nel cemento»), allora, l’ultima strofa ci indica l’illusione tutta verbale – per cui la poesia assolve il suo compito di “ostacolo” alla scomparsa – di una presenza resa stabile dall’assegnazione di nuovi spazi di nominazione: i morti ovunque ma “io” resiste nel linguaggio, nel vero margine che “può” dire, appunto: «i fiori / bellissimi dell’ortica / che mi separano da loro».

Arsenij Tarkovskij: una poesia da “Giornata d’inverno” (in “Stelle tardive”, Giometti&Antonello, 2017) – Nuove Postille ai testi

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Arsenij Tarkovskij

di Gianluca D’Andrea

Arsenij Tarkovskij: una poesia da Giornata d’inverno (1971-1979)

stelle tardive

Altre ombre che m’appaiono,
altra la miseria che canta per me:
il legatore ha dimenticato lo zigrino
e il tintore non tinge le tele;

la musica del fabbro, contata
in tre quarti, a tre martelletti,
non si svelerà oltre la svolta
prima d’uscire dalla città;

ai suoi crochet la merlettaia
non si siede alla finestra dal mattino,
e lo stagnino, uccello zingaresco,
non fa fumo con l’acido al fuoco;

l’orafo ha gettato il suo martelletto,
è finito il filo d’oro.
Osservare il morire dei mestieri
è come sotterrare se stessi.

E di già la lira elettronica,
di nascosto dai suoi programmisti,
compone versi di Kantemir
per finire con un proprio verso.

(Traduzione di Gario Zappi)


Postilla:

Lo specifico ardore dell’alterità in un paesaggio lirico che coinvolge il mondo. anche per questo le figure appartenenti a mestieri e professioni sul ciglio dell’estinzione sono strettamente intrecciate all’io che scrive cui “appaiono altre ombre”. Ma quali? L’unica immane ombra del futuro che sommerge le piccole, individue ombre artigiane – il passato.
«Osservare il morire dei mestieri / è come sotterrare se stessi», cioè la fine di un mondo che il soggetto sentiva ed era appartenenza, orientamento.
Non c’è, però, solo la fine, c’è un continuum per cui la tradizione simboleggiata dal poeta moldavo Antioch Dmitrievič Kantemir (1708-1744) è alterata metonimicamente in quell’ibrido metaforico che è «la lira elettronica», il cui futuro sarà quello di “comporre” nuovamente proprio la tradizione (basti pensare retrospettivamente alla funzione d’archivio dei nostri computer interconnessi) e, in autonomia, aggiungere un tassello d’innovazione «per finire con un proprio verso».
Il futuro di Tarkovskij lo stiamo saggiando, dal momento che il linguaggio della letteratura sembra essere sempre più dipendente dalle dinamiche di rete innescate dall’utilizzo dei calcolatori.