LETTURE di Gianluca D’Andrea (39): CAPOVOLTI NELLA TRASPARENZA

baselitz

Georg Baselitz, The Bridge Ghost’s Supper, 2006

di Gianluca D’Andrea

Sperimento il fatto della caduta, la scomparsa o l’essere capovolto nel riflesso del me esterno che beveva luce solare anche quando si addormentava nell’incubo intermittente del pulviscolo televisivo, alla fine di ogni trasmissione, nel silenzio notturno e ronzante.
«Una luce felice e cattiva», diceva il poeta (P. P. Pasolini, La Divina Mimesis, 2006, p. 8) e fingeva di aver perso la poesia nel rimpianto del canto, nella prosa infingarda di chi vuole invece tornare a cantare, ad abbeverarsi di un sole ritmico che nel tempo scandiva la giornata. L’irraggiamento impatta in modo artificiale i nostri volti riflessi, è una luce apatica, cattiva, quella che ci viene incontro senza sforzo o cammino intrapreso? È questa passività di ricezione la scomparsa o una nuova passione che s’insinua con un linguaggio ancora incomprensibile?

«Mi sta contro una selva, le parole, da attraversare seguendo un tracciato che si forma via via che si cammina, in avanti (o a ritroso) verso la trasparenza, se è questa la parola giusta del futuro».

(Vittorio Sereni, Senza l’onore delle armi, 1986, p. 63)

LETTURE di Gianluca D’Andrea (38): COLLINA

cezanne

Paul Cézanne, Mont Sainte-Victoire visto da Bellevue (1885)

di Gianluca D’Andrea

«Ogni sabato, al mattino, con i due terrier Lakeland, giusto per fare una passeggiata, arrivavi in cima a una collina e te ne stavi lì a braccia aperte contro il vento a guardare i cani…»

(Brian Friel, Tutto in ordine e al suo posto, 2017, p. 173)

L’epoca degli spettri è anche il tempo affondato nella sua immagine. Ecco perché il passato non possiede una dimensione nostalgica, ma è inghiottito nel presente costante, monodimensionale, fissato ma sfuggente nella sua ambiguità liquida.
Forse il fonte di Narciso si è trasformato in un acquario privato, ricco di confort e cure: il regno del solipsismo e dell’illusione di presenza.
L’assiduità e l’insistenza sul se stesso ricoperto dai flutti casalinghi, dagli schermi riflettenti, dalle acque mosse dall’artificio, purificate (o abbellite) dall’apparato di filtri, è il nuovo paradigma della storia e, quindi, il nuovo racconto.
Sotto la superficie liquida non occorre la parola ma il segnale, l’immagine – forse accattivante, forse disperata – lanciata per captare l’attenzione dell’altro e che risponde, mi verrebbe da dire per reazione, alla scomparsa.
Non so se riuscirò a immergermi completamente nell’acquario della scomparsa, per un senso d’apprensione o incapacità respiratoria (cos’è la libertà se non un limite d’accettazione, una resistenza insufficiente?), ma la parola per me possiede il senso della fuoriuscita, della traccia o del raccordo attraverso il ricordo. Il racconto e il ritmo slacciati dal fissaggio dell’istante. Se l’immagine è testimonianza, quindi posa mortuaria da lasciare al futuro, la parola, pur testimoniando, lo fa sfrangiando il tempo. Essa è viva proprio nella potenziale perdizione del senso, non è solo “testimoniale” ma vitale come un richiamo che può vibrare nel vuoto, diversa dal silenzio reclamante nell’esubero, nel troppo pieno, dell’immagine.
La parola richiama una scomparsa perché si attivi una presenza, l’immagine simula una presenza nell’avvenuta scomparsa. Non esiste una distinzione etico-estetica tra parola e immagine, per ora siamo dentro la loro commistione o separazione nel mutamento.

La collina

luce la luce di Romeo
Paradiso, VI, v. 128

Nessun sentiero al pellegrino,
al suo disdegnoso ribellarsi, ora che vedo
nel ricordo la collina dove il mistero
e l’osso di capra fanno del cadavere
una scoperta.
Inscena lo schianto di paesaggi
nella memoria, la caduta
scivolando nella scarpata e portando
in salvo il corpo. Ecco
quello che interessava tutti i ragazzi,
l’avventura che avveniva e il mondo
nuovo che leniva il desiderio.
Siete voi qui, vecchi amici?
Non che resti altro oltre l’ombra,
eppure è stato il nostro un rapporto,
voi un riferimento, la compagnia
degli anni e l’abbandono nella trasformazione.
Le strisce di cielo su cui si stagliava
la sagoma dei corpi giovani, il piede
sul monticello di terra o nella buca
scavata coi bastoni. Chissà, il castagno
o la scorza di pino marittimo
non dicono se non l’antico respiro,
la gioia ariosa delle ore pellegrine.
S’illumina di luce meridiana
la sagoma di questo corpo di allora,
come allora senza sentiero. Nella radura
contavamo palline di sterco nel riposo
da un cammino che già conosceva,
fingendo, il suo comico, poco eroico
ritorno. Così umilmente ardeva
nella pioggia lieve il respiro
nel passo di ragazzini che riscendevano
dalla collina a una periferia
mediterranea di città già invasa
di antenne e fili
e panni stesi e voci tra le mamme
dai balconi e padri al lavoro,
dispersi come i figli nell’incertezza
fraintesa dei ruoli. Vivevamo
fra le rovine di qualcosa d’ignoto,
avi e sulla cima il fortino spagnolo
da cui guardare per un attimo
la distesa del mare, delle nostre estati
arroventate sui sabbioni.
Chi ad arrostirsi per scelta, noi
nei giochi svelti, nelle partite
su campi riarsi al margine delle rive,
pronti allo slancio nel refrigerio dopo
le fatiche. Ora, questo scherzo
dal passato rivive solo come spasmo
di dispersione, in chi, nel dissesto
di schermi e dita, reclama la parola
e il racconto per confermare il nesso,
ma il nodo è ormai disciolto.
Le maglie sfilacciate per una sicurezza
che sento, da altri ragazzi
distante, rastremata in un pugno
d’immagini che vibrano in un nuovo
contatto. Ecco, le ombre di ore
passate si riallacciano al quadro
di un futuro in ascesa,
pluridimensionale, inaudito,
o più semplicemente, nascente.

(Gianluca D’Andrea, Inedito)

“Il tempo del consistere” di Gianfranco Fabbri, L’arcolaio, Forlimpopoli 2016

Fabbri

Gianfranco Fabbri

Il tempo del consistere di Gianfranco Fabbri, L’arcolaio, Forlimpopoli 2016

consistereIl libro di poesia più bello letto in questi primi mesi del 2017 è un libro di prose. Lo ha scritto Gianfranco Fabbri ed è stato pubblicato dalla da lui fondata casa editrice L’arcolaio che, dal 2008 a oggi, è diventata una delle realtà più vive e propositive proprio nell’ambito della pubblicazione e diffusione della poesia in Italia.
A contraddistinguere Il tempo del consistere, evidenza che con ogni probabilità me lo ha fatto più amare, è la presenza del pudore, e quindi di un’etica del rispetto, che si espande dal ricordo e che si fa presenza assoluta, atemporale. Una costumatezza, dunque, che coraggiosamente si oppone alla volgarità del mondo, accompagnandosi allo stupore per lo stesso e a un’attenzione tutelare verso lo strumento linguistico che deve prendersene cura:

«Fuori, intanto, bianco s’apposta il manto sulle case del paesaggio. (Mondo)
Ho cancellato paesaggio e ho preferito inserire al suo posto il termine “mondo. Perché?
Soltanto perché più liquido-tondo-breve-universale?
Non solo per questo.
Il di più non lo saprei spiegare»

(Anche una forte nevicata avrà la sua bella sintassi, p. 87).

Sì, emerge infatti, nei testi di questo libro, un senso di apprensione relazionale non facilmente riscontrabile in altre operazioni coeve. Ed è proprio la poesia a essere trattata con rispetto da chi rinuncia all’evidenza del verso trasmettendone il ritmo in una prosa pregnante ed eterea allo stesso tempo, quasi in un respiro che immetta il suo fiato nei momenti di raccoglimento e riflessione, per poi diffonderlo, senza infingimenti o esorbitanze, nel giro della relazione o del contatto col mondo.
Tanti sono i passi in cui un’attrazione desiderante nei confronti del contesto si rende manifesta, sin dagli esordi passionali di una ritualità nostalgica nella sezione Echi del passato, in cui il presente si riattiva per mezzo dei ricordi, in attimi di disorientamento:

«Non mi va stamane di alzarmi.
All’improvviso mi sono ricordato di me»

(p. 13)

oppure,

«Il gioco è stato ricreato.
Un’idea venuta così per caso.
L’idea dell’infanzia, nello specifico»

(p. 15).

Certo, se la nostalgia non fosse sostenuta da un’essenziale ironia, la quale riesce a mettere tra parentesi il soggetto confermandone il ruolo di testimone decentrato, allora l’intera operazione rischierebbe d’impantanarsi nel rigagnolo di una verbalizzazione intimista e per ciò stesso stucchevole. Questo non avviene grazie alla maturazione di un’autoconsapevolezza (anche temporale, i testi de Il tempo del consistere, infatti, “sono stati scritti negli ultimi quattro anni del Novecento”, quindi pubblicati a notevole distanza dalla loro composizione), in cui al pudore e all’ironia sembra saldarsi la tenerezza onnicomprensiva della grazia:

«Nel giardino di casa, Hitler un giorno andò incontro al suo cane lupo per accarezzarlo. La bestia all’inizio si ritrasse con occhi timorosi; poi, come convinta da una forza superiore, accettò le effusioni con cautela»

(Lager, pp. 34-35).

Affiora un senso di fiducia solo grazie alla scomparsa della pretesa dell’io a un’autodeterminazione:

«Perdi i capelli, mio caro.
Sei quasi più bello.
Non vorrei che fosse altrimenti: non saresti tu»

(p. 40).

È in atto la cognizione del deperimento dell’essere che può persistere solo nella “consistenza”, cioè nello stare saldo (finché è possibile) insieme al mondo, riconoscendone la necessità.
Allo stesso modo il linguaggio si arrende alle referenze e affida alla sola presenza la possibilità di un senso:

«Poi, quando la notte gela, sembra che tutto contragga in sé. Sui tetti, i rivoli d’acqua si solidificano in una morte soltanto apparente»

(Quando soffia la calma strana dell’inverno, p. 58).

Nessuna risposta, ma la resa a quella “forza superiore” che in Fabbri è ricollegabile a una fede religiosa ben definita, e che nel lettore potrebbe suscitare la percezione dell’umiltà necessaria per un vero accesso al mondo. Come negli splendidi quadri della sezione La suggestione della cultura, in cui nel testo dedicato ad Anna Frank si può leggere:

«come sempre è il cuore a rivalutare il senso dell’esistenza; con i cantucci nella soffitta, dove i due ragazzi mondano le patate e possono ammirare il cielo pieno di nuvole al tramonto.
Per un miracolo ancora, il mondo si ripete»

(Anna Frank, p. 70).

Abbiamo osservato come al tentativo, a questo punto realizzato, di accesso al mondo, si affianca la riflessione sullo strumento linguistico, con cui si rende possibile l’estatica comprensione dell’alterità, la “consistenza”, appunto, nel tempo della relazione:

«All’alba della scrittura è possibile cogliere l’esatto momento dell’estasi»

(Tra Rimini e Forlì, in treno: ore 21,15, p. 77).

Estasi che parte dal consistere: un movimento che cerca di consegnare il senso di una fuoriuscita dal sé per confermare la “presenza” nel contesto:

«Poi sempre mi dimentico della ragione per cui volevo scrivere»

(p. 83).

Proprio quando più pressante si fa l’urgenza di una riflessione sulla scrittura (la sezione Il rovello della scrittura quasi conclude il libro, se si eccettua l’explicit Frammenti e aforismi, che, però, pare aprire a considerazioni ancora in divenire, come l’afflato civile dell’ultimo testo dedicato alla strage di Bologna, e che riportiamo per intero al termine di questa riflessione, sembra stare a dimostrare), allora si staglia la profonda motivazione poetica che guida Fabbri: la mimesi tentata in tempi di metamorfosi anche troppo esposte, conduce a una trasposizione (perché sempre di finzione si tratta) il più possibile naturalistica:

«Per riprendere il buon Leopardi, potremmo affermare una sua idea: dire cioè che lo stile dà perfezione all’opera e l’opera è tanto più perfetta quanto più risulta imitazione della Natura»

(p. 86).

Allora, dopo aver considerato la tensione al reale della presenza, partendo dallo stupore che il soggetto perpetua nei confronti dell’esistente, il suo “consistere” o resistere comune, non ci resta che riportare l’estrema testimonianza, che Fabbri infatti incastona in conclusione, di un trasporto alla vita collettiva e relazionale che è anche consapevolezza della sua possibile cancellazione per mezzo della violenza e del terrore. Su questa voragine che si spalanca come un monito si chiude anche la nostra analisi:

Accumulazione paratattica per una tragedia

(Due agosto, 1980 – Bologna)

Un’esplosione. Un tonfo immane.
Il bar sul primo binario, il piano di sopra.
La sala d’attesa, l’atrio centrale. Un’iradiddio, la voragine sul
pavimento; i vagoni dell’espresso sotto la pensilina numero
uno; il primo occhieggiare di certe braccia staccate, l’avvento
epifanico delle membra – i corpi fatti a brani – sotto le
carrozze, come nella hall e nel piazzale antistante.
Corpi sotto i taxi.
Cadaveri tornati bambini, bianchi di polvere.
Il bus 37 reso furgone funebre.
Lenzuola come tende ai finestrini.
L’occulto diniego della morte.
Il bus 37 corre all’impazzata lungo la via Indipendenza col
suo reperto di persone arrese – una macelleria in
movimento, al tempo del clacson intermittente.
Grida, bestemmie della folla.
Una fuga di gas?
Non una fuga – la bomba; lo squarcio delle sinapsi; le
trombe di Eustachio frantumate.

Sotto l’hotel Milano, la prima postazione RAI; l’attesa della
diretta.

Per tutto il giorno, un accorrere di pompieri, di reporter di una
Tv locale, degli inservienti d’ospedale; i semplici barellieri,
nella loro dinamica umiltà, da sotto le automobili tirano fuori
i corpi disarticolati e le loro anime bruciate dallo
spostamento d’aria.

E anche a sera, anche a notte fonda, alla mercé di un caldo
africano [torvo marrone demoniaco] i gruppi elettrogeni, con
le loro luci innaturali, eccoli pronti a fare il terzo grado agli
ultimi resti umani.

Più in là, isolata e muta, attonita a se stessa, spicca una
scarpa bene calzata al piede orfano della gamba.

Gianluca D’Andrea
(Maggio 2017)

LETTURE di Gianluca D’Andrea (37): AL TEMPO CHE TIRA GLI SPETTRI

fiona

Fiona Hall, Inferno, Canto XIII: The forest of the suicides, from the series Illustrations to Dante’s Divine Comedy (1988). (Fonte: Art Gallery of New South Wales)

di Gianluca D’Andrea

… il Tempo tira
la sua palla di pietra
a un centimetro da me…

(Cristina Annino, Anatomie in fuga, 2016, p. 32)

La dimensione dell’incontro dopo la morte: riattivazione di un ricordo o parallelismo? Non è la specie, è la civiltà messa a repentaglio da una resa linguistica. Perciò ad accomunarci sono i soliti sentimenti, l’accensione o necessità di sentirci “in comune”, riconosciuti dentro un contatto famigliare.
Quale conforto, però, se i padri rifiutano la loro presenza? La scomparsa è il cruccio di questo primo scorcio di millennio, l’eredità di un secolo, il ventesimo, che ha disperso la generazione dei padri.
Non c’è una tradizione, o meglio si è tramutata in anti-tradizione, in autonomia presunta e consolidamento di una dipendenza che non può più essere riconosciuta:

… «Tua me, genitor, tua tristis imago
saepius occurrens haec limina tendere adegit;
stant sale Tyrrheno classes. Da iungere dextram,
da, genitor, teque amplexu ne subtrahe nostro».
Sic memorans largo fletu simul ora rigabat..
Ter conatus ibi collo dare bracchia circum,
ter frustra comprensa manus effugit imago,
par levibus ventis volucrique simillima somno.

(Eneide, VI, vv. 695-702)

Certo, la vita non è apparenza ma trasformazione, ma come tracciare gli indizi del mutamento se è scomparsa la presenza, se l’unica realtà concreta è la nostra immagine?
Il fantasma del padre è il peso: eppure in Virgilio è guida, per quanto fantasmatica, così come in Dante la guida si fa “concetto” d’Amore. Ecco, forse l’astrazione d’amore rompe la relazione e il tempo – o ritmo oscillante – del rapporto di trasmissione. Senza questa trasmissione siamo sull’orlo dell’abisso e veramente il tempo rischia di schiacciarci.
L’orlo è lo spezzarsi della resistenza dell’essere, quando non è possibile riconoscere un “senso” fuori dall’essere stesso. Come dire che la fine dell’anima è anche l’estinzione dell’animus, del coraggio di un’agnizione che si ricompone solo fuori da se stessi. Non più padre, anche perché i padri oggi non trovano nella paternità la loro trasmissione: il padre si nasconde nel figlio, o dal figlio?
La spezzatura di sé significa interruzione del tragitto «che da neun sentiero era segnato» (Inferno, Canto XIII, v. 3), non è forse la perdita dell’Altro a dissolvere l’io? La selva del rispecchiamento è abitata da spettri superbi e noi non abbiamo un dio o un io a guidarci, ma solo l’ombra di un ricordo e con queste immagini riaffioranti in un presente sempre prossimo alla sua fine, proviamo a costruire un altro tempo:

It was the age of ghosts

Era l’epoca degli spettri. Delle torce in mano.
Luci si muovono in distanza divinate per un chi
e per un perché: la veglia di chi e in che casa sulla strada…

(Seamus Heaney, Catena umana, p. 103, vv. 1-3)

SalvaSalva

Transito all’ombra | Gianluca D’Andrea Marcos y Marcos, 2016 Recensione di Gabriele Belletti – su Zest letteratura sostenibile

Transito all’ombra | Gianluca D’Andrea
Marcos y Marcos, 2016

Recensione di Gabriele Belletti

«Recando passati e passando»:una resa in visione del mondo

L’esergo (p. 9) che apre la raccolta di Gianluca D’Andrea, Transito all’ombra (Marcos y Marcos, 2016), dichiara, quasi fosse brano di poetica esplicita, un’intenzione. L’autore lascia infatti a Mandel’štam il compito di esprimere il suo (primo) pensiero e, con esso, la sua volontà: la rinuncia a considerare un destino e una storia come meramente personali e optare per un procedere distante da chi «l’ombra sua non cura», capace invece di attraversare l’ombra stessa, evitando il «niente» in cui le parole potrebbero finire («le parole finiscono nel niente / oppure si agganciano in noi», Cambriano, p. 62).

Il transito prende effettivamente le mosse nella prima sezione, La storia, i ricordi, dove il soggetto, con la sua voce, si disloca in un passato stratificato, per riportare nel presente, in anni «‘serraturizzati’ a blocchi» (XII, p. 34), un canto da tempo interrato. Chi lo canta, infatti, si reca in una posizione di retroguardia rispetto all’oggi in cui vive e attraverso cui, lente, interpreta ciò che è stato (dinamica questa che ricorda per certi aspetti il D’Ormesson de Le rapport Gabriel). Da una tale postazione, l’autore ri-porta ricordi assemblati in paesaggi individuali e collettivi, ricostruisce e si ricostruisce scavando in un humus comune. L’assemblaggio permette di ricomporre anche un noi-agglomerato («ci riconoscevamo negli scoppi», I, p. 14), una sorta di comunità coetanea e giocosa, colta in formazione col soggetto in un contesto mutevole («Il gioco già mutava in clangore», IV, p. 18), in cui sono spesso altri, dall’alto, a decidere («Aprivano e chiudevano le frontiere», X, p. 30).

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LETTURE di Gianluca D’Andrea (36): LA VERTIGINE DEL LIVELLAMENTO

naiadi

Scheletro di Homo naledi (Fonte: Repubblica.it)

di Gianluca D’Andrea

«I nostri padri strapparono il pane da tronchi e da pietre».

(Robert Lowell, Figli della luce, 1943?, v. 1)

A parte che il termine “vertigine” richiama la dimensione lirica del soggetto in cerca continua di orientamento e accoglienza, ma in Dall’interno della specie, poesia tratta dall’omonima raccolta pubblicata da Andrea De Alberti per Einaudi agli inizi del 2017, ritroviamo ancora quel senso di sospensione ricollegabile a una malinconia che desidera il rigenerarsi di una vita di contatto. Sarà il tentativo di riscoprirsi nella relazione – nel caso del testo citato, paterna e filiale, ma anche d’appartenenza a un’umanità sull’orlo della trasformazione, e della “vertigine” che ne deriva, appunto, «dall’interno della specie».
Non m’interessa avventurarmi in un’analisi tecnico-formale approfondita del componimento, sono saturo di disquisizioni retorico-stilistiche – d’altronde il libro in questione non suscita in me alcuna tentazione in tal senso, semmai il desiderio di continuare a dire un ricordo –, mi attira lo “stupore”, cioè la sospensione, appunto, che allontaniamo da noi per non essere risucchiati dal gorgo della vertigine e del disorientamento. Infatti «ognuno tenta di lenire il proprio male con una scheggia, / con le prove concepite fuori da ogni possibile / orizzonte di stupore», ed è con questo male che livelliamo su altro male, che tentiamo di inibire lo «scandalo» della trasformazione. Cioè la nostra vera natura di mutamento cerchiamo di sostituirla con immagini fisse che rappresentino costantemente come desideriamo apparire: immobili nel riflesso perpetuo di una posa rassicurante per quanto limitante e, aggiungerei, esiziale.

Dall’interno della specie

Eppure nel frammento di ogni memoria,
nella natura di un sorriso che supera a volte il nostro sguardo
accarezziamo la vertigine con una mano
nello scandalo innaturale che ci trattiene,
eppure, dall’interno della specie,
ognuno tenta di lenire il proprio male con una scheggia,
con le prove concepite fuori da ogni possibile
orizzonte di stupore.

(Andrea De Alberti, Dall’interno della specie, 2017, p. 15)

Ma dopo questo testo mi attrae un’altra coppia di versi della raccolta: «Esseri o prodotti di esistenze / a un minuto dall’abisso?» (Il vuoto, in Dall’interno della specie, cit., p. 23, vv. 7-8), forse perché questo lirismo della realtà apparente riesce a tollerare la scissione, la crepa che ancora ci determina. Una frattura non più tra fisica e metafisica, quanto tra conservazione e trasformazione di una figura concreta che si auto-tramanda attraverso il linguaggio. In poche parole è possibile ancora “raccontarci” ora che siamo a un passo dalla resa del linguaggio verbale? Forse non importa lo strumento ma ancora e soltanto la frattura relazionale, la separazione o sospensione che si crea tra soggetto e mondo:

«Noi siamo la scissione. Io sono la scissione. E finché l’Io presume che la scissione si trovi nell’insieme delle cose, e non in se stesso, se ne sta rannicchiato nella trappola del suo stesso inganno, della sua illusione».

(Thomas Hürlimann, L’ombrello di Nietzsche, 2017, p. 24)

Senza scissione sarebbe solo il livellamento, cioè l’espletamento di un desiderio di iper-attivazione dell’Io in funzione della promozione (e proiezione) della propria immagine e della conseguente insostenibilità di ogni attrito (una prospettiva di nevrosi e depressioni, come già avviene).
Come dice Günther Anders:

«Chi si ausculta in segreto? Chi osserva se stesso in camera dal buco della serratura? Occupazioni sconosciute.
Non c’è più alcun buco della serratura, perché non c’è più bisogno di chiavi. Non c’è più bisogno di chiavi, perché non c’è più la porta. Non c’è più la porta, perché la camera buia di ieri è oggi uno spazio come un altro».

(Günther Anders, Amare, ieri – Appunti sulla storia della sensibilità, 2004, p. 19)

Cioè l’anonimato insito nell’iper-specialismo dell’autopromozione nell’apparente trasparenza, è in realtà la caduta del mistero e del particolare. L’avvento della specie.

Recensione a “Transito all’ombra” su “Poesia” 326 (maggio 2017) a cura di Lorenzo Materazzini

poesia

Poesia maggio 2017 - recensione su Transito all'ombra

Stefano Dal Bianco: una poesia da “Ritorno a Planaval” (Mondadori, 2001) – Nuove Postille ai testi

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Stefano Dal Bianco

di Gianluca D’Andrea

Stefano Dal Bianco: una poesia da Ritorno a Planaval (2001)

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La vacanza

Mi allargo e occupo il tuo posto momentaneamente vuoto
come se fosse la mia libertà ad accogliermi,
ma se tu chiami
da dentro una presenza di lenzuola, ecco
io sono pronto
a stringermi nel sonno, a prendere atto
di quanto sia rimasto, in questo letto,
e quanto sia, di te, rimasto fuori.


Postilla:

Sostituzione dei corpi che restano anche nella distanza. Distensione e contrazione, come un’onda verbale implicata nell’ambiguità oscillatoria dell’esistente, sono evidenti nel ritmo pronto a rompersi, inarcandosi al limite della prosa fino a raggrumarsi nel verso successivo. Si veda: «da dentro una presenza di lenzuola, ecco / io sono pronto», in cui l’io, quasi sospeso nella sua referenza fantasmatica, accennata nelle “lenzuola” del verso che precede, riacquista “presenza” grazie a un tu che sembra giacenza della memoria e la cui “concretezza” sopravviene solo attraverso un’apparizione, o una “visione”.
La parola è qui come in bilico tra due mondi (io/tu, corpo/visione, dentro/fuori), ma non in un’indecisione dialettica, bensì nella necessità di accoglienza per ciò che è esperito e per tutto ciò che è «rimasto fuori» dalla percezione e, quindi, da ogni possibile definizione.

LETTURE di Gianluca D’Andrea (35): MELANCONIA

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Pieter Bruegel il Vecchio, Cacciatori nella neve (1565)

di Gianluca D’Andrea

La sospensione non va ridotta a mero livellamento. L’irriconoscibilità dell’altro dipende dalla mancanza di attrito dovuto all’assenza di presenza. Per non rischiare di sprofondare nell’ombra – nel riflesso e nel “senza mondo” – il soggetto ha bisogno di segnali, segni evidenti, eccessivi, di una comunicazione che riempia la distanza. Purtroppo, ormai, occorre ripartire da un sentimentalismo derivante da un ritorno ingombrante di emotività. Nell’epoca dell’isolamento è già forte l’impulso alla relazione, ma il raggiungimento dell’altro è reso ancora più complicato dal diradarsi della presenza.
Il sentimentalismo spicciolo espresso dalla rapidità della comunicazione, si evidenzia in una simbologia che, nella sua banalità, sta però rendendo più complessa la sua struttura, aggiungendo sfumature derivanti da una gestualità inghiottita dagli schermi. Per non parlare dell’immagine – foto o video che sia – tesa a divenire la sostituzione rappresentativa di un percorso che la verbalizzazione aveva reso possibile. La storia oggi è espressa per immagini da individui che ne parcellizzano il senso, centralizzando nel momento che è avvertito come necessario (e desiderante) barlumi della propria esperienza. Il tutto è ricondotto alla dimensione della traccia, degli indizi che, chissà, un giorno potrebbero essere rielaborati da computatori ancora più raffinati degli attuali, per dare a un eventuale ente del futuro (?) un quadro della vita antropomorfa nel momento che precede la sua scomparsa.
L’apertura di senso può scaturire dall’insignificanza di questi indizi, o forse nella liberazione dal senso che il soggetto impone alla propria esistenza, alla sua necessità di “essere” a tutti i costi in un periodo in cui a essere è solo un insieme di frammenti per immagini.
Non penso sia ripristinabile una relazione “erotica” col mondo così come eravamo (alcuni, ultimi di una generazione) abituati a concepirla fino a qualche decennio fa. Siamo solo in attesa della catastrofe successiva, o meglio del disastro. Dis-astrum, come avviene in Melancholia di Lars von Trier (2011) e come si può leggere nell’analisi che di questo film ci presenta Byung-Chul Han (cfr. Eros in agonia, 2013, pp. 5-17) e a cui questa lettura è dedicata.