IN CASO: NICE – NIKE

di Gianluca D’Andrea

In caso: L’apprensione di stare insieme – NICE – NIKE

NICE – NIKE

A Nizza sono stato da piccolo
ma ricordo meglio Montecarlo,
la curva “Grand Hotel Hairpin”
una baia azzurra come l’immaginazione,
la mia, di allora. Allora devo distanziarmi
dai ricordi e conoscere le incursioni
su questi territori che non sembrano avere storia,
ma ce l’hanno. Nizza Marittima
e barbetismo, resistenze clandestine
ai mutamenti di confine, alle atrocità
per ottenerli quando esisteva un popolo,
una sovranità, un tracciato.
Ma ora le linee sono infinite,
esternate in una moltitudine
con i suoi punti forti: isole d’individui
sovranazionali. Ora che il desiderio del cosmopolita
è realizzato in uno schema di partenze e ritorni
senza un dove da scoprire, ora sempre ora,
posso ricordare una strada cui da piccolo
non feci attenzione – invece ricordo
un tipo che a un semaforo, dopo
un alterco con mio padre,
ci fece notare un bastone
sulla sua auto per ricordarci le buone maniere –
“Promenade des Anglais” e ricordo
le parole di Hobbes che traduce
Tucidide: «E la grande licenza,
che si diffuse nella città anche in altri
ambiti, cominciò all’inizio con questa malattia.
Poiché ciò che prima un uomo
non avrebbe ammesso che potesse essere
fatto per il proprio piacere, ora
osava farlo liberamente, vedendo
davanti ai suoi occhi una così rapida
rivoluzione».

Gianluca D’Andrea


NOTA

Il 14 luglio 2016, un Tir “invade” la “Promenade des Anglais” a Nizza. Muoiono 84 persone, 200 i feriti.
Nizza e Montecarlo, sulla Costa Azzurra, nell’immaginario collettivo sono attrazioni turistiche.
Nizza Marittima era il nome della città in epoca sabauda (per distinguerla da Nizza Monferrato in provincia di Asti).
Con “barbetismo”, o movimento dei “barbets”, si indica la resistenza clandestina dei nizzardi all’occupazione dei francesi nel corso della “Guerra della prima coalizione” (1793).
«… Ora che il desiderio del cosmopolita / è realizzato in uno schema di partenze e ritorni / senza un dove da scoprire…», per questi versi vedi: Jules Verne, Il giro del mondo in 80 giorni e Peter Sloterdik, Il mondo dentro il capitale, Meltemi, Roma, 2006.
La citazione da Hobbes proviene da The Second Book of the History of Thucydides (1629), ma l’ho estrapolata da G. Agamben, Stasis – La guerra civile come paradigma politico, Bollati Boringhieri, Torino, 2015, p. 57.

 

Carteggio XXXV: Ferita, ritorno, straniamento

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Antéchrist assis sur le Léviathan. Liber Floridus (Ghent University) 1120

di Gianluca D’Andrea

Carteggio XXXV: Ferita, ritorno, straniamento

Il suo luogo è esterno non solo rispetto alle mura della città, ma anche rispetto al suo territorio, in una terra di nessuno o nel mare».

G. Agamben

Ennesimo ritorno al non-so-mai-dove, più che una casa, abitare è un rifugio, meno di una casa, il luogo che occorre alla bestia per nascondersi nella sua ferita. Infine, amici, ci raggiungono parole troppe volte sentite, la gioia piuttosto indecisa di essere negli stessi luoghi della nascita, che un giorno rifuggiamo, un altro cerchiamo come un’avventura, una missione per salvare nel ricordo i giorni di un altro. Poi riaccade il presente, cioè l’attesa dell’incontro e della fuga, la scomparsa e l’emersione di un evento che sembrava ritardato dalla ferita, dal dolore che blocca le vicende e le raccoglie nell’intimità, negli appigli umani che ognuno crea per regalare agli altri una scarica della propria inefficienza. Che l’amore non sia altro che questa paura di una solitudine cui non si sa rispondere se non lanciando argani, àncore, macchinazioni, parole che trasportino e leghino l’altro a sé. Da qui la necessità di costruire il mostruoso e bellissimo alibi della responsabilità, costruire sul trauma fragile della partenza il viaggio della casa, il ritorno che non sarà mai, se non un’urgenza minima che poi cresce, si fa ossessione. Infine dovere, giustificazione, racconto che nei suoi particolari rende eroica la ferita e spera che nel ricordo sia più accettabile la nostra scomparsa.

(Luglio 2016)

 

Spazio Inediti (22): Gabriele Belletti – di Gianluca D’Andrea

belletti

Gabriele Belletti

di Gianluca D’Andrea

Spazio inediti (22): Gabriele Belletti

22 mars 2016

Stéphanie lavora a cinquanta metri
dall’esplosione avvenuta nella metro.
Cindia arriva in ritardo
per i posti di blocco all’aeroporto.
Maureen dice che son amie était
dans le train précédent.
Isabelle è tornata a Bruxelles
chercher son fils immédiatement.

I miei studenti sono vivi.

*

Донецьк

Guarda le mie farfalle!
Ridono a crepapelle
anche se cadono
le bombe.

Su un foglio arraffato
sono state avvisate
e fuggono nel cielo
di un altro stato.

Il mondo per la bambina
è luogo solo
da immaginare
prima di essere
conosciuto

e anche se nel bunker
i rimbombi
dicono altro

il suo mondo
è più forte
e volare
è volare alto.


maelbeck

La fermata della metro Maelbeek a più di un mese dall’attentato (Fonte: Corriere della Sera)

Scelgo due inediti, dalla serie di  quattro, inviati da Gabriele Belletti. Li scelgo perché trovo una consonanza d’intenti e una compartecipazione “civile” (termine da considerare con ogni precauzione) che non trova riscontro in molta altra poesia contemporanea. Ma questa apertura al mondo è oggi più che mai un’inesorabile necessità che Belletti sembra avvertire senza ambiguità, con un approccio intenso e allo stesso tempo vibratile, senza toni assertivi o moralismi.
Una capacità di compenetrare gli eventi che, nel primo testo, 22 mars 2016, prende avvio da testimonianze dirette degli attentati di Bruxelles fatte da persone comuni – forse conoscenti dello stesso autore che, lo ricordiamo, vive in Belgio – manifestando più che un clima di tensione, l’urgenza per le condizioni dei propri cari. In questo approccio dal basso si divarica lo spazio tra prossimità e distanza: tutti, autore compreso, dopo i fatti sono attratti e indirizzati da un impulso di protezione verso il circuito della propria esistenza, i fatti “immani” della storia sfumano in secondo piano, una cornice di drammaticità che si ossida sulle parole dell’apprensione. E il modo di esprimere quest’apprensione si riduce a poche frasi, le più urgenti, mentre il mondo incombe dallo spazio spettrale aperto dal titolo ma abbandonato fuori testo.
Drammaticità, dicevamo, così in Donec’k, si verifica lo stesso slittamento di visuale per cui la vicenda della città bombardata durante la crisi dell’Ucraina orientale del 2014-2015, è sospinta sullo sfondo di una rappresentazione ancora “comune”. La bambina del testo è presentata in un’attività consueta in cui l’immaginazione, però, diventa l’indizio epifanico di un vero stravolgimento. Difficile, infatti, non cogliere il salto associativo nella “caduta delle bombe” da un lato e “il volare alto” della conclusione. In quest’attimo di rinascita nella distruzione si gioca, con ogni probabilità, il fulcro della cifra stilistica di Belletti – cifra stilistica che emergeva già nella raccolta del 2015, Krill, cui si rimanda [qui] – per il quale la consapevolezza del male della Storia non trascura mai di ricordare la nostra fragilità e, allo stesso tempo, la nostra capacità di rigenerazione.


Gabriele Belletti (1980) è originario di Santarcangelo di Romagna. Si è laureato in filosofia all’Università di Bologna con una tesi sull’estetica di Luciano Anceschi. Ha pubblicato articoli su rivista («Chroniques italiennes»,«Poetiche»,«Rivista di studi italiani») e due plaquette di poesia, Condominio (Cierre Grafica, Verona, 2010) e Beaujoire (Caratteri Mobili, Bari, 2013). Nel 2015 è uscita per Marcos y Marcos la sua prima raccolta, Krill.

Rubrica degli inverni di Paolo Lanaro, Marcos y Marcos – Le Ali, Milano 2016

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Paolo Lanaro

C’è una morale in tutto questo?
Probabilmente no.

 P. Lanaro

Rubrica-degli-inverni_webL’appartenenza a una stagione passata, il nucleo della recente raccolta di Paolo Lanaro potrebbe, a una prima lettura, essere la nostalgia. In effetti, la prima sezione del libro, Vetri appannati, potrebbe indurre a pensare di trovarci dentro una poesia di nominazione nostalgica – vedi le datazioni precise, 1981-2011 – nomi, soprattutto botanici e animali, ancora più definiti, precisi, apparentemente tesi a «tenere le cose in piedi» (Vetri appannati, p. 12, v. 1), a constatare il “nulla” incipiente.
Le prime pagine di Rubrica degli inverni, così, imprimono la strana sensazione di un risentimento contrito, facendo sorgere il timore di essere davanti a un’opera che tenti di “ritrovare” i tempi andati, trascurando il presente-futuro, tempo nefando e inappropriabile, nefando perché inappropriabile da chi ha vissuto ben altre stagioni.
A soccorrerci e liberarci da questa sensazione è la lettura complessiva e l’impostazione “ascendente” della struttura del libro, la sua “volontà” di fuoriuscita. Così, ritornando alla prima serie, dopo aver attraversato tutto, possiamo rintracciare in due testi abbastanza vicini un’incrinatura, una scissione o, meglio, una velatura percettiva: «Tutto è passato / e per questo ormai così strano» (Una volta, p. 13, vv. 2-3) e «Quel tempo è ora un lichene da considerare / finché ha nutrito ogni lineamento» (Ci fu un deserto, p. 17, vv. 9-10). Questi due passaggi rappresenterebbero il passaggio a uno straniamento nella percezione del tempo, aliena ai parametri di lettura del mondo acquisiti dal soggetto, la caduta di ogni rassicurazione del passato, il tentativo di revisione imposto al tempo stesso. Si fa breccia la speranza che, in un’atmosfera quasi estinta, possa ancora baluginare un percorso. Esiste una tensione non rassegnata nell’«omuncolo solitario» (Esercizi di ballo, p. 23, v. 9) che vaga nella neve, metafora semplice e raggelante della cancellazione della storia, che segue la direzione del “niente” e prova a riaprire gli occhi.
Per realizzare questa nuova apertura, occorre che il soggetto smussi gli spigoli di un’apparente “centralità”, occorre, appunto, una caduta: «Sapere che dopo un giorno ne verranno / mille altri o che dopo un eone / spunterà ancora l’alba su un campo di trifoglio / mi fa sentire un verme» (Eternità, p. 24, vv. 7-10), occorre la giusta dose di autoironia che “banalizza” il soggetto, lo spinge ai margini dell’opera:

Come back

Non si può tornare indietro.
Quell’espressione che pare una tagliola,
‘come back’, è un invito al nulla.
una volta deve averlo detto anche Thomas Wolfe,
riferendosi a una polpetta lasciata
un secondo di troppo sulla griglia.
Non è possibile riavere le carezze
che non ci sono state date.
E neanche si può tornare a quel giorno
in cui ci colse l’idea esatta e semplice del bello.
Né si può fare in modo che piova
per tutti i mesi in cui restammo all’asciutto.
Purtroppo l’acqua che vedi cadere sta sciupando
l’elicriso e i lillà, come temevo.

(p. 30)

Dall’indecisione iniziale, il libro compie il tragitto di una crescita, una consapevolezza che non si ferma sulla stessa autoironia, non corre il rischio di un minimalismo arreso, ma mantiene un equilibrio di accensioni di senso calibrando le dosi di straniamento:

Sulla statua della beata Giovanna Maria Bonomo tra le rovine di Asiago

Nella cartolina, in mezzo alle rovine
causate dalla ‘furia distruggitrice austriaca’,
spicca la statua intatta
della beata Giovanna Maria Bonomo.
Un episodio così è davvero raro,
come quando ci càpita di evitare un disastro
solo perché eravamo al telefono
o eravamo fuori a fumare.
Quando ne parlai con alcuni amici mi trovavo
dalle parti dello Stadio del Ghiaccio.
Tirava un vento fortissimo che piegava
le cime degli abeti e spazzava violento le strade.
All’improvviso da un tetto piovve una tegola
che ci mancò per un niente.
In seguito discutemmo a lungo del fatto.
Di come la morte giochi a rimpiattino,
del perché ci servano parole pacate,
di cosa credere e cosa non credere,
di un inverno che ci colse duro e farraginoso.

(p. 32)

Allora saranno gli eventi quotidiani ad assumere un ruolo necessario per una fuoriuscita dal sé, per un’espansione della visuale («Perché la poesia è un modo di vedere, / prima che di parlare», Ciao, mamma, p. 80, vv. 41-42) che, partendo da una nominazione precisa, pare arrendersi al mondo, per capire che oltre la nostra prospettiva «Qualcosa al di là succede» (Festa notturna, p. 41, v. 3).
Non una visione pacificata ma una diversa tensione, lo dicevamo, appare a partire dalla seconda sezione, Vasi di Pandora, e si estende alle ultime due, sicuramente le più belle del libro. La parola che esprime la tendenza alla riduzione del sé a cui accennavamo è “comune”. Comune è la scelta di un linguaggio piano, comprensibile, comuni le idiosincrasie: «In realtà a nessuno piace il mondo com’è, / con tutti quei mascalzoni nei posti-chiave, / telecamere dappertutto, una checklist per i fiori, / i formaggi, i donatori di organi» (Come un avviso, p. 45, vv. 7-10). Ma la “banalizzazione” degli eventi manifesta il legame relazionale, affettivo, di chi ha finalmente rinunciato alla sua centralità e si dedica con occhio nuovo alla responsabilità dell’accoglienza, con una fiducia certo disillusa nella potenzialità delle parole:

Dove ambientare i versi?

Dove ambientare i versi?
Sotto una cupola di rame
in mezzo a silfidi e amorini?
In un’aula magna, tra seggiole
di velluto e scaffali di vocabolari?
In un mattatoio dismesso, trasformato
in un garage per auto d’epoca?
Nel millenovecentocinquantaquattro
quando Marilyn sposò Joe DiMaggio?
in un quaderno proibito?
In una vaporiera con patate,
cicoria e peperoni?
Supini, per terra, tra briciole
di pane e fogli di giornale?
Su Nettuno? Su Andromeda?
Sopra un cornicione, tra metope
annerite e cacche di piccione?
Vicino al water-closet sulla striscia
che pende dal distributore?
In un campo di festuche morenti?
Oppure? Oppure?
Dove ambientare dei versi per adoperarli
davvero, invece di ammirarli estasiati
come si trattasse di haute couture?
Ma soprattutto dove cercarli se non sono
da nessuna parte, non forniscono prove e hanno
scarse probabilità come il bel tempo?

(pp. 53-54)

La registrazione dei fatti, la “rubricazione” di eventi minimi che cozzano pervicacemente con le potenzialità della nominazione (niente di evenemenziale, epifanie stinte, invernali appunto), i tempi ridotti, diluiscono la necessità del poco che è esposto «per bruciare meglio» (Registrazione di alcuni fatti all’inizio dell’inverno, III, p. 59, v. 10) ed estorcere un po’ di speranza al «buio secolare» (ibid., p. 59, v. 14).
Nel poemetto al centro della raccolta, Registrazione di alcuni fatti all’inizio dell’inverno, assistiamo alla maturazione dello sguardo, allo svelamento del disincanto, alla trasformazione del tempo della storia in presenza:

IV

Leggo i fatti crudeli, come le enfumades
dei ribelli algerini ordinate dai francesi.
La storia è fatta così: soldataglie
che massacrano soldataglie.
Non saprei chi sia stato il peggiore.
Lo penso avvolto in un plaid di lana,
sotto una luce rosa, vicino a una madia chiara.
Come ci sia qualcuno disposto a morire
perché noi possiamo arrotolarci nei plaid,
leggere libri di storia, addormentarci dolcemente,
riflettendo sull’essere.

(p. 60)

X

Cosa mai ne saprà Marina, la nostra
domestica venuta da Chișinău?
Cosa mai farà di domenica, lei come tutte
le altre ragazze di Chișinău?
Vestite da festa, camminano su e giù
per la città come avveniva
duecento anni fa.

Marina pensa ai giovani moldavi, ai gaugazi
dai capelli neri, ai piccoli orti di ciliegi,
a Mateo Muriano e a Hieronimo da Cesena,
a quanti anelli d’oro andarono perduti
lungo le strade per Roma e Venezia.

La storia è una china pericolosa.
Lassù un refe sottile congiunge i cieli.

(p. 67)

L’ultima sezione, Ascendenti, ribalta totalmente l’assunto iniziale del ricordo nostalgico a favore di un successivo svelamento. Il soggetto disilluso si scopre nello spazio della sensazione e rifugge la mera registrazione dei fatti. Il tempo ridotto nel ricordo imprime una necessità che resiste alla scomparsa, per quanto inevitabile: «… era restato poco tempo. Quello necessario / ad aprire una porta, a percorrere un corridoio, / a bollire il latte, a preparare un letto» (Poco tempo, p. 84, vv. 8-10). Così è il ricordo a far sorgere rivelazioni come nella bellissima Ciao, mamma:

Ciao, mamma

Ciao, mamma. Metto per iscritto le parole
che ti ho detto quella sera, quando l’infermiera
asciugandoti un batuffolo bianco sulla bocca,
mi ha sussurrato: “Guardi che non c’è più”.

Non sono stato capace di dirti altro,
come i ciclisti dopo la vittoria di tappa
o come un marmocchio alla sua prima foto
da scolaro, mentre cerca i suoi nella folla

che si accalca dietro una Polaroid.
Ecco: il lampo del magnesio e poi un buio fitto.
Chissà dov’eri finché ti salutavo.
Eri in quel buio naturalmente,

con le tue scorte di cipria e il tuo
finissimo scialle rosa sulle spalle,
con i tuoi occhi grigi che, ho capito finalmente,
mi restavano in eredità.

Sono contento di avere i tuoi occhi.
Mi sa che perforavano un sacco di cose,
forse anche i muri di oblio che gli anni
ti avevano piazzato accanto a tua insaputa.

“Ciao, mamma” ho balbettato guardandomi intorno,
preoccupato che le tue compagne di camera
mi prendessero per scemo. E mi sentivo
per davvero scemo, un po’ stranito,

come se la tua morte fosse colpa mia
e, mentre le orecchie mi fischiavano,
come se un rimbombo oscuro
si stesse frantumando in mille suoni orribili.

Intanto si era alzato il vento. Dal finestrone
vicino al tuo letto vedevo le cime dei castagni
piegarsi. È lì che ho pensato che il vento
è la cosa più simile alla felicità: nessuno sa

dove nasca e neanche quando finisce.
Come quel brusco vento garbino
di sessant’anni fa quando, seduto sul sellino
della tua bici con una girandola in pugno,

salutavo un mondo di vetro che correva via.
E tu che sussurravi: sembra una poesia.
Devo averti presa sul serio. Per questo
quella sera non ho spiccicato altro.

Perché la poesia è un modo di vedere,
prima che di parlare. E basta molto poco
per riempire il silenzio fino all’orlo.
Mentre dottori e suore e infermiere

andavano e venivano, io e te ci siamo messi
a guardare quella girandola rossa fiammante
che loro non potevano neanche immaginare
e che girava all’impazzata come un tempo.

Ripensandoci, credo che ‘ciao’
fosse proprio la parola giusta.

(pp. 79-81)

La contrazione del senso nel dolore e nel ricordo suscitato dal momento della scomparsa, la compresenza del soggetto con un’alterità spiazzante ma vissuta, negli ultimi testi del libro raggiunge i suoi esiti più alti. Il ricordo è epifania che non si fissa ma ritorna costantemente alla fluidità dell’esistenza: «… Era come essere sul ciglio / del tempo, invasi da un’acqua inaudita» (Liber usualis, p. 82, vv. 10-11).
“Essere sul ciglio del tempo”, vale a dire riscoprire la storia (il flusso) nella “non-storia” dell’esperienza personale:

Non-storia

Mio padre che canticchiava radendosi,
era non-storia.
Mia madre che a Carnevale
con uova, burro e limone faceva dei riccioli
da leccarsi le dita, era non-storia.
Mio fratello che da bambino
era istrionico come Gesù nel tempio,
era non-storia.
Io che allora avevo la bronchite asmatica,
ero non-storia.
La storia è soltanto l’accumulo
di tante, fugaci, non-storie.

(p. 87)

La consapevolezza di essere niente e tutto, l’astrazione del ricordo che permette di aderire alla dimensione materica del mondo consente di raggiungere la vita con tutte le “stranezze” percepite da un soggetto in deficit, ma presente e conscio di una scomparsa sempre imminente. Se «la vita è strana. È una pioggia di ricordi / perfino sciocchi…» (Bloom, p. 89, vv. 12-13), noi siamo per testimoniare fugacemente il mondo, sempre prima, sempre spostati verso qualcos’altro da noi, «un’acqua grigia che ci porta via…» (Una fredda domenica di giugno, p. 93, v. 15).

Gianluca D’Andrea
(Luglio 2016)

IN CASO: A DACCA

forze bengalesi

Forze di sicurezza bengalesi (Fonte: Lettera 43)

di Gianluca D’Andrea

In caso: L’apprensione di stare insieme – A DACCA

A DACCA

Capita di fare cose insolite
il primo luglio, combattere
a vene scoperte con se stessi
cercando di concentrare i propri grumi
di disinteresse, il prolasso della coscienza
in un punto fisso, una ferita, un dolore, la perdita
dentro un organismo che ricorda di sentire.
Un commando, ma non di contadini
olandesi, attraversa un atollo della storia,
incastrando un altro vessillo, un frammento
che aumenta gli indizi di una mappa inedita
che non sviluppa un disegno, il progetto
è troppo ampio e si costruisce ora dopo ora.
Guerriglia arcipelago, mondo arcipelago
con picchi che scandagliano la paura
nel fondo sempre più buio, nei locali
paludosi dei fiumi e in quelli luminosi,
ben frequentati, di Dacca.

Gianluca D’Andrea


NOTA

I contadini olandesi sono i Boeri e i “commando” erano le unità di fucilieri a cavallo degli stessi, con riferimento alle due guerre anglo-boere.
Il Bangladesh è la terra dei 700 fiumi. Il 1 luglio 2016, a Dacca, un commando di terroristi islamisti ha assaltato un ristorante situato nel quartiere diplomatico prendendo ostaggi alcuni presenti e uccidendone ventidue oltre a due poliziotti.

IN CASO: MUSTAFA KEMAL

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Erdogan, Atatürk e una ricostruzione di Costantinopoli

di Gianluca D’Andrea

In caso: L’apprensione di stare insieme – MUSTAFA KEMAL

In caso mi accorgo che mi piace guardarle le persone, che il trasporto dipende dal legame implacabile e avvertibile quando la nostra fragilità è scoperta. Quando è impossibile distrarsi e si cerca l’abbandono, solo l’appartenenza all’altro attenua la disperazione, il fatto banale che l’altro sia lì, che ci sia una finestra da cui osservare la nostra distanza, prima di ricadere completamente nei movimenti di tutti. Dolore e gioia sono zone del privilegio e dell’assenza, il corpo si trasforma in un blocco, in una mappa chiarissima con al centro la freccia della sofferenza, oppure un alone senza punti perché l’orientamento non serve e la gioia si espande fluida, invasiva, espropriante. Allora insorge il trasporto perché è troppo essere centrati e decentrati allo stesso tempo, è necessario dimenticare ed esercitare la caduta nell’altro, per accedere a qualcosa che assomiglia al vero, al nulla che completa il nostro nulla.


MUSTAFA KEMAL

Ci fosse un’altra strada per volare
da un luogo a un altro,
da un’Europa a un’altra Europa
pensando al Medio Oriente
come un luogo di notti stellate.
Invece il principio dell’agonia
passa proprio dall’aderenza
di questi mondi antichi. Il velo
della civiltà e il dialogo con gli accordi
e l’interesse, tutto soffocato
nella massa di sempre possibili ideologie.
Ma oggi che l’idea potrebbe
sciogliersi nell’impatto materico
di contatti più rapidi e efficaci,
sono proprio i luoghi di contatto
a essere assediati. I punti di scambio
sono fragili, molto meglio continuare
a osservare e verbalizzare
dallo schermo-filtro che consente
una cernita veloce e indolore
delle amicizie e della loro scomparsa.
Almeno continuo a vivere
almeno continuo a vivere
dentro la mia casa-bunker,
le belle inferriate e gli antifurto
occhiuti, mi sotterro
per non morire, perché le ali no,
la libertà no, niente si prende
tutto si punisce.
“Giungemmo a una città di bellezza
inenarrabile”, Costantinopoli non è distrutta
ma 44 vite umane terminate
e altre sofferenti per un’ombra,
per vapori immaginari di cui
da millenni non si smaltisce la sbornia
e per la storia recente, di aperture e chiusure –
Kemal/Erdogan – e tutta l’ambiguità
che il vecchio mondo scaraventa sul nuovo.

Gianluca D’Andrea


NOTA

28 giugno 2016, strage terroristica all’ aeroporto di Istanbul-Atatürk.
“Giungemmo a una città di bellezza / inenarrabile”, Cosma I, vescovo di Costantinopoli nel X sec.