Una poesia di Gary Soto da “The Elements of San Joaquin” (1977)

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Gary Soto nella sua casa a Berkley, 2013. (© Chloe Aftel, Chicago Tribune)

di Gianluca D’Andrea

Una poesia di Gary Soto da The Elements of San Joaquin
(University of Pittsburgh Press, 1977. Ristampato in Gary Soto: New and Selected Poems, Copyright © 1995 by Gary Soto)

(trad. dall’inglese: Gianluca D’Andrea)


FIELD

The wind sprays pale dirt into my mouth
The small, almost invisible scars
On my hands.

The pores in my throat and elbows
Have taken in a seed of dirt of their own.

After a day in the grape fields near Rolinda
A fine silt, washed by sweat,
Has settled into the lines
On my wrists and palms.

Already I am becoming the valley,
A soil that sprouts nothing
For any of us.

*

CAMPO

Il vento spruzza pallida sporcizia nella mia bocca
nelle piccole, quasi invisibili
cicatrici sulle mani.

I pori nella mia gola e nei gomiti
hanno assorbito un loro seme di sporcizia.

Dopo un giorno nei campi d’uva presso Rolinda
un terriccio sottile, lavato dal sudore,
si è adattato alle linee
sui polsi e i miei palmi.

Già divento la valle,
un terreno che non germoglia nulla
per nessuno di noi.


Per informazioni sulla vita e l’opera di Gary Soto si consulti la pagina Wikipedia dedicata all’autore americano [qui].

Pier Luigi Bacchini: una poesia da “Canti territoriali” (Mondadori, 2009) – Postille ai testi

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Pier Luigi Bacchini

di Gianluca D’Andrea

Pier Luigi Bacchini: una poesia da Canti territoriali (2009)

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Il cinghiale

Ficcato, il suo grifo villoso, contro il muro
tra le bottiglie. Trofeo di caccia
sull’Appennino. Tra etichette di vigneti scelti,
– e i rovi. Con i canini arcuati,
l’occhio obliquo. Una regalità selvaggia. E la polvere
si è depositata, adagio, su quei vetri
di vini tabaccosi. Appeso. Morsicato dai cani. Fulminato
dalle doppiette.

——————————–Ma nel suo occhio fisso
vi sono stati mondi.

—————————-Universi sprofondati. Diverse
fertilità, dimensioni. Ben prima di questa,
che ha le primordiali ascendenze nel mare,
e lo sguardo viscido dei padri.

———————————-Nell’occhio cosmico del mostro
la furia polverosa, il maligno
col grugnito nel brago
che grufola nell’uomo.


Postilla:

Il luogo dell’estinzione è il corpo. Un cadavere mutilato ed esposto. Da quest’immagine “villosa”, chiaro riferimento venatorio, si dipana un percorso di conoscenza e riflessione sul male, sulla devastazione. Pietas quasi nulla ma accensioni brusche di una consapevolezza che si muove per salti. Dal primo quadro descrittivo (prima strofa) che permette un orientamento spaziale, veniamo “sparati fulmineamente” dentro l’occhio morto, il quale riflette un universo un tempo vitale. Anzi, l’Universo “sprofondato nelle possibili dimensioni”. Ecco che “l’occhio cosmico” di quello che non è solo un animale, bensì un monstrum, il prodigio, l’innaturale di un contrasto, è rimando alla bestialità che è sempre stata dell’uomo. Dall’atmosfera visiva iniziale si passa alla visione sonora che preannuncia, o meglio sottolinea, la trasfigurazione (per questo si noti il “grappolo” onomatopeico che rimbomba negli ultimi versi).

MR. HOLMES – IL MISTERO DEL CASO IRRISOLTO

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Una scena del film MR. HOLMES – IL MISTERO DEL CASO IRRISOLTO

di Francesco Torre

MR. HOLMES – IL MISTERO DEL CASO IRRISOLTO

Regia di Bill Condon. Con Ian McKellen (Holmes), Laura Linney (Mrs. Munro), Hattie Morahan (Ann Kelmot), Milo Parker (Roger).
GB/Usa 2015, 104’.

Distribuzione: Videa CDE.

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Tratto dal romanzo di Mitch Cullin “A slight trick of the mind”, ma con debiti evidenti nei confronti di “Soluzione finale” di Michael Chabon, “Mr. Holmes” di Bill Condon (“Dreamgirls”, “Twilight”, “Il quinto potere”) interpreta il mito del celebre investigatore inglese con davvero poca riverenza nei confronti del suo creatore, Sir Arthur Conan Doyle.
Lo Sherlock Holmes di Ian McKellen ha 93 anni nel 1947 e vive sulla costa meridionale dell’Inghilterra, dedicandosi all’apicoltura. Ha attraversato la Prima e la Seconda Guerra Mondiale e fatto in tempo a vedere sullo schermo alcune trasposizioni cinematografiche dei racconti che John H. Watson ha tratto dalla loro attività investigativa a Baker Street. Nessun berretto da cacciatore, nessuna pipa. Solo enormi rimpianti e una dolorosa, trentennale solitudine, la cui origine Holmes ha seppellito nei meandri della propria memoria ma che ora maieuticamente, con l’aiuto di una governante e del suo giovane figlio Roger, si appresta a recuperare per fare definitivamente i conti con il proprio passato.
Tre i piani narrativi e temporali in cui si sviluppa l’intricato gioco di specchi della sceneggiatura: il presente (Sussex, 1947); il recente passato (un viaggio di Holmes in Giappone alla ricerca del fiore di pepe, pianta dai miracolosi benefici per la memoria, sepolta sotto le ceneri del disastro atomico di Hiroshima); la vecchia indagine su Ann Kelmot (Londra, subito dopo la fine della Prima Guerra Mondiale). A congiungerli, principalmente un diario, o meglio un racconto, che Holmes scrive nei suoi ultimi giorni provando faticosamente a ricostruire il caso dell’aspirante suicida di 30 anni prima, ma anche una serie di flashback, fantasticherie e visioni oniriche partorite dalla mente dell’investigatore. Una struttura complessa, con più livelli di lettura, che vuole mettere al centro un enigma esistenziale più che il racconto giallo che vive nello sfondo (come “Citizen Kane”, giusto per scomodare l’archetipo del genere), ma che avanza sullo schermo con grande fatica e troppa ingiustificata enfasi (fino al finale dal sapore melodrammatico), con grande meccanicità e senza mai dare l’impressione che il racconto abbia davvero un carattere d’urgenza. In più, nonostante le belle idee di montaggio, la fotografia – molto pulita e regolare, senza fronzoli estetizzanti a parte, a tratti, il gusto oleografico per i paesaggi e le architetture tipicamente british – risulta spesso eccessivamente mimetica, troppo uguale a se stessa nonostante gli improvvisi cambi di scenario, e ciò rende a volte difficile settare il dove e il quando delle azioni di Holmes.
Detto questo, è sicuramente apprezzabile il grande lavoro di sottrazione su un personaggio così stereotipato e mediaticamente riconoscibile come Sherlock Holmes, al fine di renderlo più contemporaneo, universale e, per certi versi, normale. Nelle prime immagini del film, il protagonista viene inquadrato mentre ritorna, prima in treno e poi in automobile, alla casa di campagna. Il suo primo piano viene associato a ruderi di chiese, lapidi, pezzi di intonaco che cadono dal tetto: segnali di un passato glorioso che reclama un ritorno alla vita, nonostante l’oggettivo stato di decadenza. Un modo per descrivere lo stato d’animo del personaggio del tutto visivo e funzionale. Però, mentre nell’appassionante ed ironico romanzo di Michael Chabon dedicato a Holmes (con il quale il film ha diverse cose in comune, dall’apicultura all’incontro fatale tra l’anziano investigatore e un fanciullo), l’investigatore celebra questo ritorno alla vita tramite un’azione nel presente, qui assistiamo unicamente ad un ripiegamento sul passato, laddove si annida cioè una colpevole rimozione. Abbandonato dunque il genere di riferimento, il racconto giallo, la narrazione si rifugia nei territori della riflessione esistenziale e del metalinguaggio, costruendo continui giochi di specchi tra letteratura e cinema, tra storia e Storia, tra realtà e finzione. Un percorso certamente ambizioso, ma infine tristemente ricondotto alla difesa di un’etica autoconsolatoria. Pensiamo all’episodio giapponese, così enigmatico nella sua funzionalità strutturale ma centrale per definire l’impossibilità di confini sicuri tra vero e falso e puntare il dito sulle conseguenze inevitabili di ogni mistificazione. Alla ricerca del fiore di pepe, Holmes viene ospitato da una guida che rivelerà ben altre intenzioni, e accuserà l’anziano investigatore di essere il principale responsabile della scomparsa del padre, diplomatico in Europa all’era della Prima Guerra Mondiale. Holmes non ricorda l’accaduto e nega con forza di aver conosciuto l’uomo in questione, anzi agli occhi del figlio lo descrive come un probabile bugiardo. In un finale carico di simbologia, che mette insieme una cerimonia apotropaica in stile Stonehenge e rivela la forza reazionaria della metafora sociale delle api (la rigida gerarchia tra regina, fuchi e operai, infine esattamente ricostruita nel triangolo formato da Holmes, Roger e Mrs. Munro) decide di abbracciare totalmente finzione e aneddotica, onorando la memoria dell’uomo scomparso con un racconto edificante che non sapremo mai se sarà unicamente frutto della sua fantasia o meno. Un gesto apparentemente buonista ma che, considerando l’ambizione dello script di trasformare un personaggio iconico dell’immaginario letterario mondiale in un emblema della rimozione occidentale nei confronti delle tragedie storiche del Novecento (altrimenti non troverebbe giustificazione l’inserto legato a Hiroshima), finisce per giustificare ogni mistificazione storiografica in nome di un’immaginaria e ipocrita riconciliazione che, prima di essere tra uomo e uomo, è tutta interna al singolo con la propria coscienza.

Sottoculture – La radice nascosta (2). Proto-punk

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The Kinks

di Gianluca D’Andrea

Il Proto-punk (2)

The Kinks e The Dictators

Spazio Inediti (18): Piergiorgio Viti – di Gianluca D’Andrea

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Piergiorgio Viti

di Gianluca D’Andrea

Spazio Inediti (18): Piergiorgio Viti

“E’ che non ci sono più letti” dice
l’infermiera, mentre nello stanzone
i pazienti restano seduti
aggrovigliati alle flebo
e parlano mozzicando le parole
dei figli del mare del tempo…

Di questo tempo che ha sempre fretta
e non conosce riposo,
tranne quando fai la chemio,
allora sì, tutto si ferma
per due tre a volte quattro ore.

I respiri si fanno più larghi,
i ricordi spaccano come una noce
una Croce
su questo presente di dita tremanti,
tendinoso,
di tapparelle abbassate
su questa città che sembra remota
e invece è qui sotto
con le sue manovre,
i suoi traffici elettrici.

Anche mamma è seduta
e si guarda intorno,
è bella anche se ha settant’anni,
le labbra socchiuse che sembrano
confidare un segreto,
e gli occhi terrosi,
ubbidienti…

E nello stanzone
ci siamo pure noi,
parenti familiari
impigriti dall’afa.
Aspettiamo con loro che la flebo finisca
e immaginiamo prati
spiagge e cieli stellati,
dove niente e nessuno ha un’età,
dove ogni cosa dura per sempre
e tutti si danno del “tu” subito,
siamo insomma ancora più fratelli
che quasi ci abbracciamo
senza saperlo.


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Giovanni Rizzoli, Dipingere con una flebo – veduta della mostra presso Federico Luger, Milano 2013

Sia l’immagine di un desiderio o la volontà di un risarcimento immediato, questo inedito di Piergiorgio Viti proposto per Carteggi Letterari, sposta sul piano del contingente e della semplicità il messaggio. Non che la semplicità sia un valore assoluto, anzi spesso accade che l’accessibilità riduca la prospettiva, minimizzi e sterilizzi il contenuto su una forma piatta e scontata, come accade in molti tentativi in versi della nostra contemporaneità. A rassicurare, per un attimo, in questo testo di Viti è il senso di accoglienza che si spera come risoluzione di un contatto, quello con la madre malata e con il “noi”, certo molto referenziale, dei parenti un po’ “distratti” dalle proprie sensazioni o necessità («parenti familiari/ impigriti dall’afa»). Forse proprio questa “riduzione” dei soggetti, questo distanziamento dalla contingenza, dovrebbe far riflettere sul mutamento in atto: la scomparsa della referenza, per cui l’unico modo per dire “io” è la constatazione del suo appassimento “desiderante” in direzione di una passività nei confronti degli eventi. L’unico protagonismo plausibile è quello che evidenzia la non necessità del proprio fare. Lo scenario utopistico del finale, visto in questa prospettiva, annulla proprio quel senso di “fratellanza” e consuetudine («e tutti si danno del “tu” subito») che il testo voleva trasmettere e che invece presume.

(Novembre 2015)


Piergiorgio Viti vive nelle Marche. Nel 2010 ha pubblicato Accorgimenti, per L’Arcolaio editore. Sue poesie sono state tradotte anche in spagnolo dal giornalista e scrittore argentino Jorge Aulicino e in rumeno dall’italianista Geo Vasile. Autore di un saggio critico sulla figura del pittore Pietro Annigoni, ha scritto una fiaba, La fiabola di Virginio e Virgilio, interpretata da Tosca (2012) nell’ambito del Festival di Musica da Camera “Armonie della Sera”. Una serie di monologhi ispirati alla vita del musicista Ray Charles, I sogni di Ray, sono stati interpretati alla Casa delle Culture di Roma nel 2014 dall’attore Carlo Di Maio.

Cos’è il contemporaneo. Dante e il paradiso (Canto XIII) – di Andrea Ponso

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Giovanni Di Paolo, Canto XIII, Adamo, Cristo e Solomone, miniatura (The British Library)

di Andrea Ponso

Canto XIII

Ancora il canto si apre con l’impossibilità della rappresentazione, con la fatica di “ritenere” l’immagine e l’esperienza che viene vissuta da Dante e raccontata al lettore: “Imagini, chi ben intender cupe / quel ch’i’ or vidi – e ritegna l’image, / mentre ch’io dico, come ferma rupe -“. Certo la fatica è tanta, ma non si tratta di qualcosa di scorporato: l’immagine ha una sua precisa fisiologia, è stata indagata quasi a livello medico e corporeo nelle sue funzioni dalla cultura che lo stesso Dante esprime. Quindi, più che di inconsistenza ed evanescenza si tratta della difficoltà immensa del non riconoscimento, come accade ai discepoli nei racconti post-pasquali, dopo la resurrezione del Cristo: per lo più non lo riconoscono eppure non è uno spirito! Tenersi saldi a quella “rupe” significa quindi sforzarsi di rimanere carne e non solo intelletto, anche di fronte allo scivolare continuo e al divenire forsennato e dolcissimo insieme delle rappresentazioni perché è proprio la carne, e non l’intelletto, il cardine della salvezza.
Lo strapiombo che sta sotto di noi lettori e di Dante stesso è lo strapiombo della non riconoscibilità di qualcosa che supera ogni possibile sistematizzazione intellettualistica: “poi ch’è tanto di là da nostra usanza”: abito ed abitudine, in fondo, rischiano di essere più forti di qualsiasi cosa, se usati in modo difensivo. Ciò che rimane, proprio nella mente, è solamente “quasi l’ombra de la vera / costellazione e de la doppia danza / che circulava il punto dov’io era”: è quasi l’ombra di un’esperienza concretissima, talmente vera da non poter essere chiusa nell’idolo del nostro intelletto, ma che solo l’azione della parola e la sua gestualità può in qualche modo far rivivere al presente nella memoria, come accade nel rito dove, appunto, non è la mente sola che ricorda ma il corpo attraverso tutti i suoi linguaggi anche non verbali, e in particolare quelli legati all’azione e al sentire. Non a caso qui si canta proprio la trinità e l’umanità e divinità del Figlio: “Lì si cantò non Bacco, non Peana, / ma tre persone in divina natura, / e in una persona essa e l’umana”. Non è un caso, quindi, che il massimo della sapienza terrena sia comunque attribuito al primo uomo modellato da Dio e all’ultimo e nuovo uomo incarnato dal Cristo.
E non a caso Tommaso parlerà, con le categorie della sua filosofia e teologia, della “materia”: “Se fosse a punto la cera dedutta / e fosse il cielo in sua virtù supprema, / la luce del suggel parrebbe tutta”. Il problema, quindi, non sarebbe legato alla dualità ontologica di materia e spirito ma, piuttosto, al nostro “ingegno”: un ingegno e un intelletto incapaci non per mancanza costitutiva, potremmo dire, ma per eccesso e presunzione di comprensione totale sotto le sue categorie, incapace di aprirsi all’eccesso della creazione in tutte le sue potenzialità disvelate dalla forma loro impressa non da noi ma dalla mano divina.
Infatti, ci vuole quel “tremore” che la mano dell’artista dovrebbe possedere, un “tremore” che lascia cadere la pretesa riduttiva di sottomettere la totalità: l’artista “ch’a l’abito de l’arte ha man che trema”. Ed è proprio questo tremore, questa debolezza che lascia cadere nell’esperienza senza la pretesa di esserne il compimento, che apre alla totalità e vi si immerge con fede: solo quando non si riesce e si abbandona l’idea di voler tradurre totalmente nell’opera l’irriconoscibilità presente e concretissima, solo allora si è in una modalità del “conoscere” in senso biblico, vale a dire esperienziale e immersivo. Perché proprio in quella “debolezza” e in quella “impossibilità” della traduzione completa passa lo Spirito: “Però se ‘l caldo amor la chiara vista / de la prima virtù dispone e segna, / tutta la perfezion quivi s’acquista”. Ed è la saggezza, di cui si discute, una modalità altra del conoscere: immersiva, umile e intensamente corporea come “fu fatta la vergine pregna”. Ed è in fondo la stessa saggezza di Salomone che non chiede una conoscenza speculativa fine a se stessa ma, piuttosto, una conoscenza che diventi pratica ed esperienza da condividere con gli altri nell’esercizio della sua regalità: “non per sapere il numero in che enno / li motori di qua sù, o se necesse / con contingente mai necesse fenno; / non si est dare primum motum esse, / o se del mezzo cerchio far si puote / triangol sì ch’un retto non avesse”. Il pericolo, ancora, è quello idolatrico che rende schiavi delle proprie stesse conoscenze, della propria stessa idea di verità e di “forma”: “e poi l’affetto l’intelletto lega”.
La prudenza è quindi umiltà soprattutto dell’intelletto e della sua corsa ad anticipare e prevedere, a chiudere in sistemi veritativi ciò che per sua natura è creazione in atto e continua trascendenza nella materia: questa è la sicurezza di una mente staccata dal corpo e dalla carne, che si innalza sopra la propria finitezza invece di abitarla, che rifiuta la stessa incarnazione, come era accaduto anche in alcune eresie di tipo gnostico. La prudenza, invece, umilmente si attiene al corpo e ai sensi, senza tuttavia assolutizzarne intellettualisticamente i risultati: essa si abbassa per immergersi, e non cerca di tirare conclusioni che diventano chiusure alla libertà non solo dello Spirito ma anche dell’uomo: “Non sien le genti, ancor, troppo sicure / a giudicar, sì come quei che stima / le biade in campo pria che sien mature; / ch’i’ ho veduto tutto ‘l verno prima / lo prun mostrarsi rigido e feroce; / poscia portar la rosa in su la cima;”. Lasciarsi sorprendere: e questo accade solo nella totalità vivente del corpo, dell’azione e del sentire; non nelle pre-visioni e nelle ipostatizzazioni dell’intelletto e della mente.

Antonella Anedda: una poesia da “Notti di pace occidentale” (Donzelli, 1999) – Postille ai testi

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Antonella Anedda (Foto di Dino Ignani)

di Gianluca D’Andrea

Antonella Anedda: una poesia da Notti di pace occidentale (1999)

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Notti di pace occidentale: VII

Cosa rende cimitero il cimitero di una città bombardata.
Quale contrasto tra i vivi e i morti, che vento
e luce di memoria – luce marina – dagli affreschi di Pisa.

Questa non è un’elegia
qui solo un viso si abbassa sulla pietra
reso adulto dal fuoco
una voce di terra eppure senza eco:

«Non ho nessuno tra queste tombe, nessuno
da chiamare per nome, perciò mi chino
sterro una radice, ricordo
che i miei morti dormono
battezzati ed ebrei
resi uguali dal fuoco
in astucci di sassi, di candele».


Postilla:

Il luogo è il «qui», la “nostra” parte di mondo e gli affreschi del Camposanto di Pisa sono un chiaro rimando alla dissoluzione. Il Trionfo della Morte di Buonamico Buffalmacco, ma ancora di più il luogo specifico, il cimitero, che è anche traslato. Metonimia, infatti, è Pisa bombardata nell’agosto del ’43, proiezione di un posto che si espande nella coscienza: Europa, «Occidente circondato da guerre apparentemente» – negli anni ’90 – «concluse» (così Anedda in nota al libro da cui è estratto il testo); infine morte e assenza che si accompagnano al luogo. Segnali di una devastazione esterna che si insinua nell’intimo del soggetto, e lo svuota. Forse per questo il testo è come spezzato, c’è un preambolo (le prime due strofe) in cui la presenza del mittente è ancora manifesta, anche se l’osservazione è già memoria, «Quale contrasto tra i vivi e i morti, che vento/ e luce di memoria», ma senza compianto, «Questa non è un’elegia/ qui solo un viso si abbassa sulla pietra/ reso adulto dal fuoco», fino a proiettarsi in una voce aliena (chi parla?) che conclude l’ultima strofa. In quello che sembra un monologo, la memoria si trasforma in voce che parla forse solo a se stessa, vacanza del destinatario. La sermocinatio introduce un fantasma, l’ombra di un luogo in attesa (il “nostro” Occidente, la casa, l’identità) di elaborare il lutto della sua scomparsa.

SNOOPY & FRIENDS – IL FILM DEI PEANUTS

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di Francesco Torre

SNOOPY & FRIENDS – IL FILM DEI PEANUTS

Regia di Steve Martino.
Usa 2015, 92’.

Distribuzione: 20th Century Fox.

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Povero Charlie Brown! Colpito al cuore dalla nuova compagna di classe, la ragazzina dai capelli rossi, cerca in tutti i modi di farsi notare, ma ogni tentativo fallisce miseramente. L’occasione della vita, però, si presenta inaspettatamente: Il giovane e goffo eroe ottiene il punteggio massimo ai test di intelligenza della scuola e viene celebrato come un vero genio. Ma è un errore, e così il momento di trionfo si trasforma d’un tratto in un tragico dilemma morale.
Diretto da Steve Martino (“Ortone e il mondo dei Chi”, “L’era glaciale 4”) e scritto da Cornelius Uliano insieme con Craig e Bryan Schulz – rispettivamente figlio e nipote dell’autore delle celebri strisce – l’atteso film dei Peanuts non rappresenterà certo una delusione per quanti con nostalgia sapranno decodificare le tante scene “familiari” disseminate qua e là lungo l’arco della narrazione: il Barone Rosso, le sedute di psicoanalisi di Lucy, i tentativi di Snoopy alla macchina da scrivere, quelli di Charlie Brown nel calciare un pallone tirato via all’ultimo secondo e così via.
L’operazione “omaggio” sembra evidente, come d’altra parte dimostra lo sforzo di adattare quasi mimeticamente la computer grafica 3D all’inconfondibile tratto di Charles M. Schulz, che viene evocato sin dai titoli di testa, quando dalla più classica cornice di un fumetto Snoopy e Woodstock avanzano sullo schermo acquistando via via colori e movimento.
Traduzione o tradimento? L’una e l’altro. Se da un lato, infatti, il continuo ricorso agli inserti testuali, alle onomatopee, ai tratteggi, alle evocazioni/sublimazioni in bianco e nero (cioè a tutte quelle “irregolarità” linguistiche fondanti dell’anarchico universo figurativo dell’autore statunitense) prova a rendere la trasformazione cinematografica meno invasiva possibile, pure la concentrazione di gag, ironie e guizzi creativi viene di fatto depotenziata da una gabbia strutturale che ne contiene ogni potenzialità eversiva.
Pur limitandosi a tratteggiare una narrazione episodica, lo script punta infatti con elementare linearità a costruire un mondo funzionale unicamente allo sviluppo del protagonista Charlie Brown, concedendogli addirittura quel riscatto sociale (e con quanta dose di buonismo e autoconsolazione!) che non solo Schulz non gli aveva mai regalato ma che nessuna maschera veramente archetipica può ottenere. Come naturale conseguenza, la visione del film può risultare estremamente godibile nel brevissimo periodo (molto divertente, per esempio, la sequenza dedicata a Charlie Brown “genio della scuola”, come pure le commistioni tra cultura alta – “Guerra e Pace” – e cultura bassa, i “Gipsy Kings”) ma del tutto prevedibile e conformista nel medio e lungo termine. Certo, rimane sorprendente, e innegabilmente rinfrescante, vedere un film per bambini senza cattivi da eliminare né mondi da salvare, guidato solo dalle piccole ansie quotidiane di un ragazzino normale che cerca di trovare un posto comodo in un mondo ordinario, seppure scoraggiante, ma certo il Charlie Brown qui raccontato non ha più la statura di grande eroe tragico della narrativa americana che la critica schulziana gli aveva, del tutto meritatamente, conferito.
Nessun pericolo per l’identità dei Peanuts, che rimarrà intatta nel tempo e nello spazio, ma resta in piedi un odioso timore: operazioni di “riconfezionamento digitale” di questo tipo, che trasformano in prosa materiali più affini al linguaggio poetico, non rischiano di compromettere l’eredità culturale che il Novecento ha lasciato alle generazioni del XXI secolo?

 

 

Sottoculture – La radice nascosta (1). Proto-punk

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The Stooges, Los Angeles 1970 (Photo di Ed Caraeff)

di Gianluca D’Andrea

Per informazioni sulle Subculture vedi qui.

Il Proto-punk

MC5 e The Stooges

 

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Le narrazioni (a cura di Daniele Greco) – Marco Belpoliti, “Primo Levi di fronte e di profilo”, Guanda, 2015

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Marco Belpoliti

di Daniele Greco

Leggendo Primo Levi di fronte e di profilo
(Marco Belpoliti, Guanda, 2015)

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«Primo Levi si è sempre opposto a chi leggeva le sue opere testimoniali, in particolare Se questo è un uomo, come opere letterarie: non è un romanzo, ripeteva. Ma al tempo stesso voleva essere uno scrittore, sapeva di esserlo» (p. 355).
Al centro esatto di quest’ultimo lavoro di Marco Belpoliti, Primo Levi di fronte e di profilo (Guanda, 2015), si trova una considerazione decisiva per provare a guardare in modo corretto all’opera di uno degli scrittori che più di altri ha fatto comprendere il Novecento dei conflitti e di quell’abominevole esperimento che sono stato i lager nazisti.
Nelle oltre 700 pagine di cui si compone il libro, Belpoliti traccia uno degli studi più ricchi e completi sulla vicenda intellettuale e biografica di Levi analizzando una mole imponente di documenti: romanzi, racconti, poesie, fotografie, recensioni, bibliografie, interviste, letture, traduzioni, saggi, spogli lessicali delle singole opere.
Il ritratto che ne esce è quello del “poliedro-Levi” (p. 16), cui Belpoliti si dedica da decenni, rielaborando e riscrivendo molti dei suoi testi per consegnare, più che un saggio tradizionale, “un dizionario, un’enciclopedia (…), un’«opera aperta»” (p. 16) che il lettore può leggere liberamente.
Colui che nel 1948 pubblica con De Silva Se questo è un uomo, dopo l’iniziale rifiuto di Einaudi – l’editore che in quegli anni inseguiva la forma del romanzo – è un uomo della borghesia torinese, di ottime letture, che si è laureato in chimica nel 1941 e nel 1944 è stato deportato ad Auschwitz.
Il suo esordio – afferma Belpoliti – è scritto “in una lingua straniera” (p. 119), che eccede il mero valore testimoniale e sentimentale, di molti altri testi coevi sulla shoah, e rigetta i temi dell’innocenza o della colpa delle vittime, del sacrificio o della loro sacralità (p. 121). Lo sguardo di Levi è fin da quel momento quello dell’ “etologo”, dell’entomologo (p. 123), dello scienziato che scruta come l’animale-uomo abbia potuto concepire e realizzare la deportazione di milioni di suoi simili nei campi di concentramento.
Non è un caso, pertanto, se dopo la conclusione del dittico della guerra, avvenuto nel 1963 con La tregua, alcuni critici e lettori si sono sorpresi della scelta di Levi di pubblicare dei brevi racconti di argomento scientifico e fantascientifico. Storie naturali (firmato con lo pseudonimo di Damiano Malabaila), Vizio di forma, Il sistema periodico segnano un passaggio decisivo nella produzione di Levi, il quale vuole fare emergere le sue doti di scrittore e pensatore onnivoro, di chimico prestato alla letteratura o di scrittore prestato alla chimica.
L’elaborazione del proprio sistema intellettuale, la cui griglia interpretativa lo avrebbe portato a concepire uno dei libri più importanti per capire a fondo il XX secolo, I sommersi e i salvati (Einaudi, 1986), passa attraverso queste prose.
La ricerca di una “congiungente, un meticciato fra le mie due attività (di chimico e di scrittore)” (p. 253) è finalizzata a pubblicare, ne Il sistema periodico, dei racconti che hanno come titolo il nome degli elementi della tavola di Mendeleev e il cui pretesto della chimica, che è il linguaggio della materia, serve a indagare, attraverso la letteratura, qual è il linguaggio della vita.
Ecco come una rilettura de I sommersi e i salvati alla luce dell’intera produzione di Levi e del libro di Belpoliti consentono di cogliere come Levi soppesi, misuri, analizzi al microscopio la natura umana, tra l’aspetto emerso – razionale, sociale e umano – e il fondo sommerso – cieco, irrazionale e animalesco – che sono sempre inestricabili. Colui che si è sempre percepito autore ibrido, un centauro della letteratura, che ha cercato di riunire nei suoi lavori queste due sfere d’interesse, ha lasciato in eredità un modo nuovo di guardare alla realtà che è il cuore del libro di Belpoliti.
Quale migliore lascito dell’opera leviana, segnaliamo nel libro la sezione intitolata “Lemmi” in cui, alla fine di ciascun capitolo, si analizzano le parole-chiave dell’alfabeto leviano (Lager, Tedeschi, Treno, Fantascienza, Ibrido, Animali, Antisemitismo, Chiaro/oscuro, Zona grigia, Memoria, Suicidio…).
I “lemmi” sono la tavola periodica di Levi, ricostruita da Belpoliti, la mappa sulla quale inseguire la multiforme attività di un protagonista del Novecento al quale restituire la centralità che merita, quella di essere stato uno scrittore completo e di prima grandezza e troppo a lungo considerato solo un “testimone”.