Vincent Van Gogh, Scarpe con i lacci (1886), Van Gogh Museum, Amsterdam
Giovanni Turra, Con fatica dire fame
Issata sopra molle la mia testa
e balla a ogni alzata di spalle
e crolla giù. E se faccio no col capo,
mi si rovescia l’occhio nell’occhiaia.
Non ho equilibrio come vedi
né sostegno alcuno. E calzo
spaiati due trentotto, entrambi
destri. E non posso portar pesi.
Neppure la sportina con il miglio
e la foglia di lattuaga.
E quando con fatica dico fame,
mi accennano con gridi dalla strada,
non mi lasciano frinire.
Con fatica dire fame è la dismissione del poeta, della sua maschera, che cede alle necessità del reale. Giovanni Turra attua questa svestizione attraverso il linguaggio, con un lavoro di precisione millimetrica e gli endecasillabili che appaiono e scompaiono, un ritmo compassato ma potente di una poesia piena e consapevole. Lo scarto tra voce e mondo è incolmabile, ma non si può che dirlo, mentre si prova attraverso i segnali del corpo a esperire il quotidiano da cortile che è quello che possiamo. Una fame a cui siamo inesorabilmente costretti, inadeguati come si presenta il poeta. Questa fatica dovrebbe portare agli altri, ai compagni di appartamento, di palazzo, di città. Ma si finisce soli, con la propria penna. Umani troppo umani.
Nato a Siviglia nel 1976, José María Gómez Valero ha pubblicato le seguenti raccolte: Miénteme (Qüásyeditorial, Coria del Río, 1997), El libro de los simulacros (Ayuntamiento de Lepe, Lepe, 1999), Travesía encendida (Vitruvio, Madrid, 2005; Premio Internacional Ciudad de Mérida), Lenguajes (Imagoforum, Siviglia, 2007) e Los augurios (Icaria, Barcellona, 2011; Premio Internacional Alegría).
Inoltre, ha collaborato con David Eloy Rodríguez e Miguel Ángel García Argüez nella scrittura dei libri illustrati di racconti per l’infanzia Este loco mundo (Cambalache, Oviedo, 2010) e Cosas que sucedieron (o no) (Cambalache, Oviedo, 2013).
Con gli stessi autori e poeti, Gómez Valero ha dato vita alla compagnia teatrale e poetica La Palabra Itinerante, matrice di alcuni progetti artistici interdisciplinari, che miscelano teatro, musica e poesia, tra i quali si possono ricordare: Todo se entiende sólo a medias (www.soloamedias.net) e Su mal espanta (www.sumalespanta.blogspot.com) e le collaborazioni con artisti come María Cerón e Patricio Hidalgo Morán, tra le quali si annovera l’opera audiovisuale Un mundo en palabras, X Premio Migraciones della Junta de Andalucía).
Lo stesso collettivo fa parte della redazione della casa editrice sivigliana Libros de la Herida (www.librosdelaherida.blogspot.com) e della rivista Mordisco (www.revistamordisco.wordpress.com).
Tutte le traduzioni sono apparse sulla rivista ALI, diretta da Gian Ruggero Manzoni, che ringrazio per la gentile concessione dei testi, e nell’antologia “Canto e demolizione. Otto poeti spagnoli contemporanei” (Thauma, 2013) a cura di Alessandro Drenaggi, Luca Salvi e Lorenzo Mari.
Da Travesìa encendida (2007)
Contemplas la tragedia
como el bosque el incendio.
Sin comprender.
Contemplas la tragedia
igual que ves morir una canción
o escuchas una vela que se apaga.
Igual que una ardilla observa un reloj.
Sin comprender.
*
Contempli la tragedia
come il bosco l’incendio.
Senza capire.
Contempli la tragedia
nello stesso modo in cui vedi una canzone morire
o ascolti una candela spegnersi.
Nello stesso modo in cui uno scoiattolo osserva un orologio.
Senza capire.
HOGAR
Edificaste tu casa
con tan sólo un ladrillo.
Tenía puertas y ventanas,
paredes y trampas.
Incluso un ladrillo
al que te abrazabas
en las noches más frías.
FOCOLARE
Usando solo un mattone
ti fabbricasti la casa.
Aveva porte e finestre,
pareti e trappole.
Un mattone, anche,
che abbracciavi
nelle notti più fredde.
Da Los augurios (2011)
APUNTES PARA UNA BIOGRAFÍA CUALQUIERA
Nacer,
memorizar los signos,
ocupar una celda
en la intemperie.
Reconocer a tientas
el rigor de los límites,
los contornos del orden.
Asistir cada día
a lo pactado.
Mirar el agua,
saciarse en su sabor,
convivir con la sed.
Acatar los dictados de la norma,
eludir los dictados de la norma.
Jugar a cosas serias.
Mentir de corazón.
Arroparse sin sueño.
La noche,
los velos, los desvelos,
la voz
de la sólida sombra.
Despertar,
abrir los ojos,
ansiar el tiempo
en el que nada se derrumba.
*
APPUNTI PER UNA BIOGRAFIA QUALSIASI
Nascere,
memorizzare i segni,
occupare una cella
nell’intemperie.
Riconoscere a tentoni
il rigore dei limiti,
i contorni dell’ordine.
Assecondare ogni giorno
ciò che è stato stabilito.
Guardare l’acqua,
saziarsi con il suo sapore,
convivere con la sete.
Ossequiare i dettati della norma,
eludere i dettati della norma.
Giocare alle cose serie.
Mentire di cuore.
Coprirsi nell’insonnia.
La notte,
ciò che vela, ciò che sveglia[1] ,
la voce
dell’ombra solida.
Svegliarsi,
aprire gli occhi,
trepidare il tempo
in cui niente crolla.
(Inedito)
APUNTES PARA UNA ESTRATEGIA
Ellos,
quienesquiera que seamos,
siempre serán más.
Nosotros,
quienesquiera que sean,
siempre seremos menos.
Una vez dicho esto,
pasemos a la acción.
*
APPUNTI PER UNA STRATEGIA
Loro,
chiunque siamo,
saranno sempre di più.
Noi,
chiunque siano,
saremo sempre di meno.
Detto questo
passiamo all’azione.
[1] Con questa scelta di traduzione s’intende rendere, almeno parzialmente, la ricca polisemia dell’accostamento tra ‘velos’ y desvelos’ presente nel testo originale: mentre ‘velos’ rimanda ai ‘veli’, a ciò che copre la vista, ‘desvelos’ si può tradurre sia come ‘svelamenti’ che come ‘veglie’ [n.d.T.].
Vincent Van Gogh, La panchina di pietra, 1889. Olio su tela, 45 x 51. Museo d’arte di San Paolo, Brasile
Mario Benedetti, da Tersa morte, Mondadori 2013
Il tram a Milano in viale Monte Nero,
eri seduta a guardarlo come guardavi i treni.
Con la bicicletta senza i freni,
dopo il passo di Monte Croce
per andare a Attimis, a Forame,
è stata una fortuna non cadere, sfracellarsi.
Sapevo che c´eri, che eri vicino a guardare
mentre io pensavo, e ti trattenevo.
Come una foglia tra le foglie
eri sulla panchina. C´erano alberi e alberi,
e il tuo viso, il vestito del solito blu.
Madre, persona morta
in viale Monte Nero, sulla strada per Attimis,
per Forame dove sei nata.
(p. 22)
Niente di finto, o falsato. Un soffio, questi versi. Una voce, forgiata dalla solitudine, dice di vedere nuda la vita. La vita della madre, che il poeta trattiene per intero nel dipinto di un ritorno. La trattiene perché dentro quel dipinto ritrova il codice della sua stessa esistenza.
Bastano pochi tratti: una bicicletta, il colore usuale di un vestito.
Guardare è il cuore, ripetuto, di questa poesia. Umili, gli occhi: di fronte hanno il corpo deposto. Il linguaggio è plastico, vuol farci toccare la perdita. Non è idea, è corpo appunto, carne. Con parole che sono sulla pagina (luogo della deposizione) perché non sono, semplicemente non sono più, fuori dalla vita.
Ecco, oltre o prima di ogni stilistica, qui si mostra un corpo a corpo, tra non dire più e doverlo comunque dire: “mentre io pensavo”, la madre c’era, era “vicino a guardare”.
Prima della voce che lo dice, prima del linguaggio, lei come lo sguardo, era (ed è) l’inizio, sempre.
Cristiano Poletti
Mario Benedetti (foto: Dino Ignani)
Mario Benedetti (Udine, 1955) si è laureato in Lettere con una tesi sull’opera di Carlo Michelstaedter all’Università di Padova, e si è diplomato poi in Estetica presso la Scuola di Perfezionamento della stessa Facoltà universitaria. Nel 1994 si trasferisce a Milano. È stato tra gli animatori della rivista di poesia “Scarto minimo” (1986-1989). Le sue opere poetiche sono: Secoli della primavera (1992), Una terra che non sembra vera (1997), Il parco di Triglav (1999), Borgo con locanda (2000), Umana gloria (2004), Pitture nere su carta (Mondadori, 2008), Tersa morte (2013). Nel 2010 ha pubblicato la raccolta di prose poetiche Materiali di un’identità.
Alla vigilia della presentazione napoletana della collana EDB “poesia di ricerca” (24 Aprile – exAsilo Filangieri – ore 18), mi fa piacere condividere la buona poesia degli autori stranieri in collana.
Presento qui alcuni tra i testi più interessanti a noi pervenuti nel corso dell’attività di scouting.
Francesco Maria Tipaldi
Jack Underwood
Questo è Jack Underwood, inglese (nato a Norwich nell’84), la sua poesia è decisamente brillante. Underwood ci parla d’amore, di felicità. Il suo immaginario è popolato da asparagi, scarpe da calcio, bestie. Alla fine ci sembra del tutto naturale incontrare satana tra fish and chips o vecchi calzini. Un suo verso: “I showed the devil your photo and he wept… you tempted and turned him”.
Donnola
Donnola, è finita così,
con le tue cosce come alti bicchieri di latte,
il tuo pelo color biscotto,
occhi simili a qualsiasi tipo di acqua profonda.
È finita con queste budella attorcigliate, serpeggianti,
che avevamo quando eravamo ancora giovani –
quelle budella appallottolate come calze di un pomeriggio
rubato al college.
È finita con gli impulsi spastici e ritmici
che risalgono sottopelle al minimo
spostamento dei tuoi fianchi da donnola,
o con uno dei ventisette baci
che potrei schioccarti sulla bocca,
con la giusta temperatura e dizione.
Ho mai avuto fame?
Non eri la fine di tutti i digiuni?
Carsten René Nielsen
Carsten René Nielsen, invece è danese, nato nel 1966. La sua poesia è surreale, camaleontica, inquietante. Ogni poesia di Nielsen porta un’immagine nella mente del lettore. Nel corso della poesia l’immagine si allarga, si arricchisce di dettagli, descrive se stessa fino allo sfinimento, fino alla negazione. Il lettore è proiettato in una stanza poco illuminata, nel buio di un primo pomeriggio in Scandinavia. Non mancano animali.
Pinguino
Questo è il luogo: Un appartamento con le tapparelle abbassate,
una cucina refrigerata. Eccolo dietro le nostre ombre, su piedi
che non sono mai uniti: Divora grasso, depone uova di grasso.
Quando si illumina con una torcia la sua pancia bianca,
si può vedere il cono di luce vagare dentro la schiena nera. Nosferatu, sussurriamo noi.
James Joyce
Il terzo autore che presento, anche se non esattamente in vita, probabilmente all’epoca del GIACOMO JOYCE (libro introvabile, finalmente riedito e ritradotto) era giovane e innamorato. Sto palrando di James Joyce. Se amate la sua scrittura, non potete perdervi questo piccolo capolavoro.
– Jim, amore! –
Morbide labbra risucchiando baciano la mia
ascella sinistra: un bacio avvolgente su miriadi di
vene. Brucio! Mi rattrappisco come una foglia che
brucia! Dalla mia ascella destra sbuca una zanna
fiammeggiante. Un serpente stellato mi ha bacia–
to, un freddo serpente notturno. Sono perduto!
– Nora!
*Le traduzioni dall’inglese sono di Alberto Pellegatta. Dal danese ha tradotto Elena Graziano.
I libri da cui le poesie sono tratte:
WILDERBEAST – JACK UNDERWOOD/FRANCESCA MOCCIA – EDB EDIZIONI
8 ANIMALI E 14 MORTI – CARSTEN RENE NIELSEN/MANUEL MICALETTO – EDB EDIZIONI
GIACOMO JOYCE – JAMES JOYCE – EDB EDIZIONI
René Magritte, Poison 1939 | Gouache | 356 x 406 mm. Edward James Foundation, Chirchester, Sussex
Massimo Ferretti, Allergia (1952-1962), Marcos y Marcos 1994
“TRA CENTRO E PERIFERIA – Le lettere di Massimo Ferretti” in Fabio Pusterla, “Il nervo di Arnold – Saggi e note sulla poesia contemporanea”, Marcos y Marcos, Milano 2007 (elaborazione grafica di Gianluca D’Andrea).
1955 la vostra angoscia è la mia felicità
Ieri avevo un cappotto pesante e immobile
come una notte d’inverno: ed era inverno: era
inverno nella terra coperta di freddo nel lavoro
instancabile delle grondaie nell’albero nudo, ma
soprattutto era inverno nel cuore. Vedevo muo-
vervi sull’asciutto: e vi invidiavo; m’eravate tanto
lontani: e penavo.
Non ho potuto capirvi: solo a parole l’acqua
che usciva dalle banche era odiata, solo a parole
la giustizia inseguita e la “verità” rivelata: adden-
tavate le mele e poi vi pentivate – e un’ora dopo
da capo: a mordere e a piangere.
Non ho avuto paura: ho preso il sangue come
calamita: per bruciare il chiasso del cartone ed
affermare la realtà del ferro.
I dolori esatti le virtù siglate i venti di polvere
sacra li ho lasciati alla vostra ingorda sapienza.
I miei musei sono i negozi e il vetro che amo è
quello che taglia.
Ho visto le montagne da vicino, ho letto tutti
i libri che ho voluto, e quando sono stato male
mi sono curato.
Ho giocato e forse ho perduto, ma non sono
pentito; mi piace scegliere e non soffro a sbaglia-
re: il mondo si scopre nel mondo: la vostra
angoscia è la mia felicità.
*
In trattoria
In questa trattoria di gente stanca
dove mangiare significa reagire,
dove la grazia d’una dattilografa
si percepisce nel tono delicato
d’un piatto di fagioli chiesto tiepido,
dove un viaggiatore analfabeta
emancipato per via dello stipendio
spiega a una turista anacoreta
che il rialzo dei biglietti ferroviari
dipende tutto da questioni atlantiche –
non ho ragione d’essere contento
se il cameriere lieto della mancia,
leggendo la commedia del mio viso
m’ha detto che ho una maschera da negro?
In questa trattoria di gente ottica
dove non so salvarmi dagli sguardi,
condannato al sentimento della morte,
serrato tra furore e timidezza –
non ho ragione d’essere felice
quando divoro una bistecca che fa sangue?
Il mio complesso è una tragedia antica:
devo scrivere e vorrei ballare.
*
I
Ho abitato in tutti i paesi di questa città.
La città era queste camere senza finestre
-sono quelle che costano meno-
la notte la porta lasciata aperta dal sonno
arrivato prima che l’ultimo filo di tabacco
si fosse tolto il cappello
del commiato ironico d’un amico educato,
e il mattino il gatto e il bambino
venuti a vedere l’atto unico
dello spettacolo che è un giovane che dorme.
Non ho domandato
se nel sonno sembravo contento,
ho chiesto alla cameriera soltanto se ero più bello.
Disse di no –ridendo-
mentre scendevo le scale
che salivano le scolare d’una scuola di taglio.
Nella sala di scrittura del porto
-i treni salpano dalla stazione-
da una lettera ho copiato un racconto.
Massimo Ferretti
Massimo Ferretti nacque a Chiaravalle nel 1935 e morì nel 1974. Il rapporto con la scuola e con il padre furono per lui sempre motivo di conflitto e di scrittura. Fu Pier Paolo Pasolini per primo a pubblicare su “Officina” estratti dalla sua prima plaquette. Nel 1959 grazie all’interessamento di Giorgio Bassani esce il poemetto autobiografico “La croce copiativa” in “Botteghe oscure”. Si inserì, come afferma Massimo Raffaeli, fra “lo sperimentalismo problematico bolognese” degli anni cinquanta e sessanta e “quello terroristico delle nuove avanguardie” divenendone come “l’intersezione”.
Dall’immagine tesa è l’ultimo testo dei Canti anonimi (1922) di Clemente Rebora. La forza manifestativa dell’immagine – l’immagine tesa che è insieme il volto, la presenza di chi sta in attesa, e ciò che nel campo del visibile si manifesta: l’immagine sonora del campanello, l’immagine spaziale delle quattro mura, germinano dalla tensione interna dell’immagine convocata in apertura e disegnano un trama ritmica battente, senza scampo. Quest’interrogazione del visibile quale spazio di transizione, di un attraversamento, come una frontiera in cui le cose possono lasciarsi vedere, non ci parla solo dell’esperienza religiosa di Rebora, ma ha più universalmente a che fare con la dialettica dell’immagine, la sua interna tensione, la sua forza sorgiva e feconda ambiguità.
Dall’immagine tesa
vigilo l’istante
con imminenza di attesa –
e non aspetto nessuno:
nell’ombra accesa
spio il campanello
che impercettibile spande
un polline di suono –
e non aspetto nessuno:
fra quattro mura
stupefatte di spazio
più che un deserto
non aspetto nessuno.
Ma deve venire,
verrà, se resisto
a sbocciare non visto,
verrà d’improvviso,
quando meno l’avverto.
Verrà quasi perdono
di quanto fa morire,
verrà a farmi certo
del suo e mio tesoro,
verrà come ristoro
delle mie e sue pene,
verrà, forse già viene
il suo bisbiglio.
Italo Testa
Clemente Rebora è nato a Milano nel 1885 da famiglia ligure, si laureò in Lettere con una tesi sul filosofo Gian Domenico Romagnosi. Insegnante e collaboratore della “Voce” di Prezzolini, pubblicò nel 1913 i Frammenti lirici, trascurati dalla critica.
Partecipò alla guerra sugli altopiani di Asiago e poi a Gorizia come ufficiale di fanteria, rimanendo molto turbato dalla violenza bellica.
Tornato dal fronte, ricominciò a insegnare, sempre più interessato a problemi religiosi e a un cristianesimo di tipo francescano. Nacquero in questo periodo le poesie raccolte in Canti anonimi (1922) e le traduzioni dal russo, tra cui spicca Il cappotto di Gogol’ (1922). Maturava intanto il suo riavvicinamento alla religione, fino alla conversione nel 1929 e all’ingresso nel convento rosminiano di Stresa nel 1931, dove venne ordinato sacerdote nel 1936.
Da sacerdote, Rebora cantò in versi la natura religiosa dell’esistenza; il suo stile rimane sostenuto da un’alta tensione poetica e morale, alla ricerca di una giustizia e di una pietà che non si trovavano in questo mondo, come dimostrano il Curriculum vitae (1955) e i Canti dell’infermità (1957). A lungo provato da una grave malattia, Rebora si spense a Stresa nel 1957.
La raccolta completa dei suoi versi è apparsa in edizione critica nel 1988. Di notevole importanza anche la raccolta delle Lettere, uscita nel 1982.
Larve all’interno delle celle (fonte, agraria.org)
Alberto Bertoni, Traversate, Società editrice fiorentina 2014
Si potrebbe partire, per intendere i fili portanti di questo libro, dalla sezione “Un teatro senza animali”, piuttosto che dai due bellissimi requiem d’apertura dedicati alla scomparsa del padre e dell’amico Stefano Tassinari.
Questo teatro senza animali fa riferimento, in dialogo, alla poetica naturale di Giampiero Neri a cui è dedicato, significativamente, ad inizio di sezione, il testo “Una larva”: come in un sogno, o un’allucinazione, il poeta immagina di aver partorito una larva dal polso, di averla curata per un poco come un figlio e infine di averla schiacciata – forse – “annichilita dalla pressione delle dita”.
Si declina, dunque, un rapporto ambiguo con la morte, presente in ciascuno di noi in forma di elemento naturale e che a volte si palesa come presagio, in alcuni momenti della giornata – la ferocia delle ombre -.
Il tema della larva, ma ora da intendersi letteralmente come sostanza dei fantasmi, appare nella prosa “Il cane”, in cui il poeta viene assalito dai latrati della bestia che, guardandolo, riconosce in lui la stessa sostanza della gente proveniente da “un buco di buio: vero, metafisico, assoluto!”. Perché quelle larve, dice il poeta “(fibre vibranti appena più chiare, voci scomposte, gutturali, e strappi nella pelle del silenzio) mi sono penetrate fino in fondo: e adesso sono io, solo io, il pozzo d’acqua Nera, l’istinto omicida, un senso di integrale smarrimento”.
Il teatro senza animali, dunque, sembra voler consegnare la poesia alla vita abrupta abbassando il valore della maschera sociale. Naturale è, in fondo, tutto ciò che si oppone al suo stesso disfacimento e questo cane che latra sembra voler negare la leggerezza delle forme, ora divenute materia di sogni o di incubi.
Si capisce, allora, l’estrema ratio della descrizione della perdita nelle prime due sezioni, un iperrealismo che rinuncia al senso di ciò che si nasconde dietro le cose, all’armamentario metaforico storicamente stratificato di ogni bestiario.
Esiste, dunque, nel libro, un contrasto per niente pacificato tra l’animale come forza che si mostra nella sua nuda e perfetta forma, e l’ironia delle maschere; tra il puro esistente – lo specchio che ci avvicina alla sostanza dell’altro – e l’exsistere. Così, il senso di questo bestiario descritto da Bertoni in dedica ad amici, risiede nelle qualità intrinseche che si travasano dall’uomo alla bestia, per somiglianza, appunto, ma con la netta preponderanza di una fisionomia quasi lombrosiana; un realismo spesso minuto, fatto di paesaggi e cose che si disfano sotto ai nostri occhi, incistati nell’esperienza quotidiana del dolore e delle gioie fugaci.
Questo contrasto tra vitalismo e disfacimento, è riassunto da Bertoni nella figura metaforica dell’anfesibena, il mitico serpente in cui capo e coda si confondono, dotato di una testa per ogni estremità del tronco: “faccia doppia del tempo / convivenza di opposti, cuore di sirena”.
Il libro si apre con la morte del padre e si chiude con la morte della madre, lasciando la questione della parola e della vita all’erranza, senza sottrarsi, per orgoglio smisurato, al finale scontato di tutte le cose.
Sebastiano Aglieco
Testi
NONA STAZIONE
Sdraiarmi al tuo fianco
godere anche del rantolo
quando si allunga fino
al terremoto dell’addio
Questo l’unico senso
questo crollo del ritmo
sillaba, diaframma, silenzio del respiro
e subito immobile la fiamma
ripiegata oltre la strada la risacca
mentre spunta l’alba
di sbieco sui vicoli le piazze di Ferrara
noi due distratti come sempre al suono
di cui il mondo può far dono
dal ramo fiorito uno zirlo
forse il codirosso pronto al volo
e come, dopo
tutto resta immobile
senza più battito di cuore
Vivo solo il taglio del dolore
dato e subìto,
immane, definitivo
*
IL GATTO
Il tramonto più di lato
e quel gatto fra gli alberi acquattato
che ti sbircia dal basso
non sai chi è cosa vuole
l’essere arcano che di taglio
sbuca dal mondo accanto
è il graffio di gelo nel caldo
che mette in allarme una madre
alla prima bava di vento, di
trasparente cielo
E io resto lì, di sbieco
assisto a uno sfacelo
d’azzurro cinerino e del giallo più spento
che mi colpisce all’occhio destro
rifluisce nel tempo, mi fa spazio
col gomito teso quando sento
l’urto degli atomi nel cosmo
il buio come cibo
*
CROSTACEI
A Roberto Alperoli
Una luce di cenere, tale e quale
dove ricomincia il mare
e tutt’attorno barche
da calafatare, gusci di crostacei,
baracche, sterpaglie
Ma nessun mare ricomincia
oggi, dalla cenere
e le barche, le baracche, i crostacei
non servono a fermare
la miseria dei giorni senza pioggia
che dobbiamo attraversare
neanche fossimo qui per ingoiarle
gerbéne e jacarande
goderne insieme il retrogusto
sulle palpebre, le orecchie, la radice delle bocche
Dietro il sole
torno piuttosto alle mie lanche
al silenzio della mente che decade
unico lascito del cielo
una carta delle caramelle per la tosse
fino alla macchina attaccata
sotto la suola delle scarpe
*
L’APE
Un certo dato stabile di atmosfera
la scia di qualcosa che trapela
controluce un luccichìo, un profilo, lo scricchio di una suola
mentre esplode la gioia di tuo padre che torna
dal bar, dall’altro mondo delle carte
fumoso, pieno di risate
in piedi sulla bici ferma
e noi qui, soli, ad aspettare
senza smettere di esistere
nonostante le abat-jour schermate
l’odore di stantio che una madre claustrofobica
imponeva le notti d’estate
quando non mi affaccendavo
ascoltando la musica dei Beatles
e sopraffatta un’ape
in fretta trapassava da Liverpool
a Modena, sul davanzale
*
IL BARISTA
Fa il barista e lo vedi
che assesta tovagliette, distribuisce tazze
agli avventori del mattino presto
qualche volta assegna posti
secondo i bisogni diversi
delle coppie, degli studenti a gruppi, dei tizi solitari
che si guardano attorno
e lì restano immobili
fino al primo cenno di impazienza
centimetro dopo centimetro abbassando
la saracinesca della vita
Arso mentre luglio resta solo
quell’attimo di luce
sulla scia del camion
o il brivido che fa rialzare il bavero
ripensare a un delirio di vuoto
e chissà se tu sai che io so
rivedendo questo cielo piovoso
sui selciati l’odore d’ozono
So che dietro gli angoli è nascosta
la ferocia delle ombre
qualcuno da avvisare che arrivo
che sono qui, la schiena al muro
bagnato del sudore che travolge
anche i momenti più nascosti
fuori stagione, fra i germogli
*
LA ZATTERA DEI FOLLI
Fuggo nella libertà
di un the al limone fuori stagione
e nell’eccelso
del velo di zucchero sparso
all’angolo destro della bocca
contratta nello spasmo
che ingoia tutto il molo d’asfalto,
la chimera, la piaga, lo slancio
dove salpa la zattera che porta
la demenza di mia madre e di mio padre
nel mare senza luce
Alberto Bertoni
Alberto Bertoni è nato a Modena, dove vive, nel 1955. Insegna Letteratura italiana contemporanea nell’Università di Bologna, come critico ha curato l’edizione dei Taccuini 1915-21 di Filippo Tommaso Marinetti (il Mulino, 1987) e, oltre a numerosi altri saggi di argomento novecentesco, ha pubblicato i volumi Dai simbolisti al Novecento. Le origini del verso libero italiano (il Mulino, 1995) e Una geografia letteraria tra Emilia e Romagna (CLUEB, 1997, insieme con Gian Mario Anselmi). Sul versante poetico, a partire dal 1986, ha svolto una costante attività di performance in collaborazione con il poeta modenese Enrico Trebbi e con il saxofonista jazz Ivan Valentini, realizzando con loro, nel 1997, il libro+CD La casa azzurra (Mobydick). In proprio ha pubblicato i volumi Lettere stagionali ( Book, 1996, Premio Caput Gauri 1996 e Premio Dario Bellezza 1998); Tatì (Book, 1999); Il catalogo è questo. Poesie 1978-2000 (Il cavaliere azzurro, 2000); Le cose dopo (Aragno, 2003); Ho visto perdere Varenne (Book, 2006) e Ricordi di Alzheimer (Book, 2008); Il letto vuoto (Aragno, 2012), Traversate (Società editrice fiorentina, 2014). Ha partecipato alle antologie Quaderno bolognese (Printer, 1992, con introduzione di Roberto Roversi), Fuoricasa (Book, 1994, con un saggio di Andrea Battistini) e L’Europa dei poeti (CLUEB, 1999). Sempre per Book dirige dal 1996 la collana di poesia contemporanea “Fuoricasa”. E’ tra i fondatori e redattori delle riviste “Gli immediati dintorni” e “Frontiera”. Suoi testi sono presenti in diverse riviste e antologie italiane e statunitensi, tra le quali “Discorso diretto”, “L’ozio letterario”, “Omero”, “Steve”, “il belpaese”, “Origini”, “L’anello che non tiene” e “YIP”. Alcune poesie di Tatì sono state tradotte e recitate in inglese dal critico Anthony Oldcorn e altre sono uscite in russo sulla rivista pietroburghese “Zvezdà” (n. 9, 2000). Sulla sua poesia hanno scritto tra gli altri Giovanni Giudici, Raffaele Crovi, Niva Lorenzini, Gianni D’Elia, Elio Tavilla, Salvatore Jemma, Vitaniello Bonito.
Leonardo Sinisgalli: il “poeta-ingegnere”. Forse proprio questa etichetta ha ridimensionato, col tempo, una delle figure più complesse della poesia italiana, come ha sostenuto giustamente anche Giovanni Giudici. Una definizione, tuttavia, che coglie i due aspetti principali di un percorso che cerca di unire, in anticipo sui tempi, le due anime della cultura: quella scientifica e quella umanistica.
La sua infanzia spensierata nel piccolo paese di Montemurro, in provincia di Potenza, rimarrà nella sua poesia, e alcuni elementi, come gli affetti familiari – i genitori in primis – e l’amore per la terra natìa si riallacciano ai temi ricorrenti nella poesia sul Sud dell’Appennino. Ma nei suoi testi, Sinisgalli, ci lascia immagini chiare e nitide istantanee della quotidianità, con un linguaggio che si affida a chiusure epigrammatiche degli enunciati, o forme più prosastiche, evitando una forzata elegia propria del neorealismo dei suoi contemporanei, e la retorica spesso presente negli epigoni degli anni successivi. Di certo, su questo incide anche il senso geometrico delle cose che gli permette di creare armonia nei suoi bozzetti di vita, nei suoi aforismi e in tanti versi fulminei; sintomi e segni di un’antica e moderna saggezza. Inoltre, colpiscono l’estrema essenzialità e la pulizia del verso, laddove viene esaltato il candore di una terra irrimediabilmente perduta e quella dismisura del tedio che fa ritrovare il nostro essere in una posizione di “controvento”. Nella poetica troviamo eventi e figure, paesaggi e oggetti come se fossero depositati in un grande vuoto, assenze che però reclamano la tenerezza di una presenza.
I luoghi per Sinisgalli, come già per altri poeti del suo tempo, sono importanti e la Lucania resta il suo precipuo riferimento: in primo piano, come accade nelle poesie degli esordi; o come sfondo, come avviene successivamente. Comunque sempre si tratta di un canto originale che, pur volendolo assimilare alle poetiche di un Pavese, di uno Scotellaro o di un Fenoglio, offre una tensione lirica del tutto particolare.
E i luoghi saranno presenti anche nella maturità, quando si ritroverà in città come Milano, Torino e Roma. Sono proprio queste realtà cittadine a presentare le occasioni di conoscenze, amicizie nel mondo dell’arte, oltre ad occasioni di lavoro che gli permetteranno di vivacizzare la sua ingegnosa visione delle cose, in particolare confluite nell’ attività pubblicistica o nella nascita di riviste di rilievo. Lavora, tra l’altro, alla Olivetti, alla Pirelli, alla Finmeccanica, all’Agip, e noti slogan pubblicitari sono di sua creazione, spesso attesi e annunciati dai media per la loro originalità.
Tornando alla poesia, l’altro elemento che la caratterizza, viene proprio dalla sua conoscenza scientifica, così la sua singolare sperimentazione mette in relazione la scienza con l’arte (un genere molto diffuso nella poesia dei nostri giorni) a cui accosta anche l’elemento fantastico o scherzoso, affidandolo a soluzioni ritmico-fonetiche molto ricche. Si ricorda, come esempio, la poesia Il vuoto di Pascal, qui inclusa, che fa riferimento alla scoperta del vuoto del 1647, cui Pascal dedicò un trattato.
E, ancora, le figure di animali sono da richiamiare per originalità e significato. In particolare gli insetti, come nel caso della “mosca”, che è stata anche interpretata come metafora della poesia stessa, come lo stesso autore ha fatto intendere in un suo scritto.
Tutti elementi che gli fecero superare l’ermetismo, a cui fu accostato all’inizio del suo percorso poetico, pur se accomunato dall’elemento “meridionale” soprattutto a Gatto, Quasimodo e Libero De Libero, anche se permane la sua vena crepuscolare, maggiormente colta in quei passaggi dove emergono: il sentimento del nulla, la vocazione all’infelicità e la predisposizione al mistero.
L’uomo rimasto solo
a tarda sera nella vigna
scuote le rape nella vasca,
sbuca dal viottolo con la paglia
macchiata di verderame.
L’uomo che porta così fresco
terriccio sulle scarpe, odore
di fresca sera nei vestiti
si ferma a una fonte, parla
con l’ortolano che sradica i finocchi.
È un uomo, un piccolo uomo
che io guardo di lontano:
è un punto vivo all’orizzonte.
Forse la sua pupilla
si accende questa sera
accanto alla peschiera
dove si bagna la fronte.
*
LA VIGNA VECCHIA
Mi sono seduto per terra
accanto al pagliaio della vigna vecchia.
I fanciulli strappano le noci
dai rami, le schiacciano tra due pietre.
lo mi concio le mani di acido verde,
mi godo l’aria dal fondo degli alberi.
*
IN MEMORIA
Ci dividiamo le lenzuala
e le noci contro la luce delle montagne
noi figli ricongiunti da una data.
Gonfi di pianto entro la camera muta
Ricordiamo i vostri sudori e le tossi,
affondiamo le teste nelle casse
e a strati ritroviamo le nostre reliquie,
i teneri pegni, i fossili fiori.
*
NELLA MIA STANZA COME SOPRA UN ATLANTE
Nella mia stanza come sopra un atlante
ho cercato i tuoi mari e i tuoi monti.
T’ho attratta con un crine,
t’ho estinta con un soffio.
Ho resistito ai tuoi vortici, alle piene
improvvise, ai letargici inganni.
Per lungo giro di anni
tra le rughe e gli specchi,
nella spoglia di un fiore,
sul lobo di un orecchio,
dove esita la sfera,
dove il filo si spezza.
*
LA VISITA DI PASCAL
Pascal venne col solleone
a casa nostra
in sembianza di lattaio.
Non c’era la bottiglia.
E fece scivolare
sotto la porta di servizio
un breve saluto
scritto con un mozzicone di matita:
“Non ò trovato il vuoto”.
*
DA: TRE POESIE D’AMORE
1.
Chi ama non riconosce, non ricorda,
trova oscuro ogni pensiero,
è straniero a ogni evento.
Mi sono accorto più tardi
di tutti gli anni che l’aria
sul colle è già più leggera,
l’erba è tiepida di fermenti.
Dovevo arrivare così tardi
a non sentire più spaventi,
pestare aride stoppie, raspare
secche murate, coprire la noia
come uno specchio col fiato.
Sono un uccello prigioniero
in una gabbia d’oro. La selva
variopinta è senza colore per me.
L’anima s’è trovata la sua stanza
intorno a te.
*
LUCANIA
Al pellegrino che s’affaccia ai suoi valichi,
a chi scende per la stretta degli Alburni
o fa il cammino delle pecore lungo le coste della Serra,
al nibbio che rompe il filo dell’orizzonte
con un rettile negli artigli, all’emigrante, al soldato,
a chi torna dai santuari o dall’esilio, a chi dorme
negli ovili, al pastore, al mezzadro, al mercante
la Lucania apre le sue lande,
le sue valli dove i fiumi scorrono lenti
come fiumi di polvere.
Lo spirito del silenzio sta nei luoghi
della mia dolorosa provincia. Da Elea a Metaponto,
sofistico e d’oro, problematico e sottile,
divora l’olio nelle chiese, mette il cappuccio
nelle case, fa il monaco nelle grotte, cresce
con l’erba alle soglie dei vecchi paesi franati.
Il sole sbieco sui lauri, il sole buono
con le grandi corna, l’odorosa palato,
il sole avido di bambini, eccolo per le piazze!
Ha il passo pigro del bue, e sull’erba
sulle selci lascia le grandi chiazze
zeppe di larve.
Terra di mamme grasse, di padri scuri
e lustri come scheletri, piena di galli
e di cani, di boschi e di calcare, terra
magra dove il grano cresce a stento
(carosella, granturco, granofino)
e il vino non è squillante (menta
dell’Agri, basilico del Basento)
e l’uliva ha il gusto dell’oblio,
il sapore del pianto.
In un’aria vulcanica, fortemente accensibile,
gli alberi respirano con un palpito inconsueto;
le querce ingrossano i ceppi con la sostanza del cielo.
Cumuli di macerie restano intatte per secoli:
nessuno rivolta una pietra per non inorridire.
Sotto ogni pietra, dico, ha l’inferno il suo ombelico.
Solo un ragazzo può sporgersi agli orli
dell’abisso per cogliere il nettare
tra i cespi brulicanti di zanzare
e di tarantole.
Io tornerò vivo sotto le tue piogge rosse.
tornerò senza colpe a battere il tamburo,
a legare il mulo alla porta,
a raccogliere lumache negli orti.
Udrò fumare le stoppie, le sterpaie,
le fosse, udrò il merlo cantare
sotto i letti, udrò la gatta
cantare sui sepolcri?
*
SIAMO LEGATI
Siamo legati
dalla miseria della vita.
Ci parliamo piegandoci controvento.
*
BREVE STORIA
Piovve tutto l’inverno quell’anno
di scuola, di chiesa, di cortile.
A quell’età bisognava morire.
*
NESSUNO PIÙ MI CONSOLA
Nessuno più mi consola, madre mia.
Il tuo grido non arriva fino a me
neppure in sogno. Non arriva una piuma
del tuo nido su questa riva.
Le sere azzurre sei tu
che aspetti i muli sulla porta
e avvolgi le mani nei panni,
leggi nel fuoco le risse
che disperdono i tuoi figli
ai margini delle città?
Un abisso ci separa, una fiumana
che scorre tra argini alti di fumo.
Sono queste le tue stelle,
è il vento della terra
è la nostra speranza
questo cielo che accoglie le tue pene,
la tua volontà, la tua domanda di pace?
Tu vivi certa della tua virtù:
hai vestito i cadaveri variopinti
dei padri, hai trovato ogni notte
la chiave dei nostri sogni,
hai dato il grano per la memoria dei morti.
Noi aspettiamo il tuo segnale
sulla torre più alta.
Tu ci chiami. Sei tu
la fiamma bianca all’orizzonte?
Un’estate di lutti
ha rimosso nel ventre le antiche colpe,
ha cacciato i lupi sotto le mura dei paesi.
I cani latrano al sole di mezzogiorno,
la civetta chiede ostaggi per il lugubre inverno.
Tu ascolti, madre mia,
il pianto sconsolato delle Ombre
che non trovano requie
sotto le pietre battute
dal tonfo di fradici frutti.
*
PIANTO ANTICO
I vecchi hanno il pianto facile.
In pieno meriggio
in un nascondiglio della casa vuota
scoppiano in lacrime seduti.
Li coglie di sorpresa
una disperazione infinita.
Portano alle labbra uno spicchio
secco di pera, la polpa
di un fico cotto sulle tegole.
Anche un sorso d’acqua
può spegnere una crisi
e la visita di una lumachina.
*
EX-VOTO
I vecchi non sanno a chi parlare
dei figli lontani,
si sfogano coi poveri
che vanno e vengono per casa.
Mia nonna consegna ogni domenica
una puparella di pane
a ciascuna delle sue fide mendiche.
Nomina Caietano
Iacinto Romualdo Peppe
Antonio: li vede sempre in pericolo
tra i coccodrilli del Maddalena.
Le visitatrici si portano via le sue lacrime
e una fetta di lardo.
*
POESIA PER UNA MOSCA
Della tua ala laboriosa
Si consolano i vespri delusi
Se pure senza pudore tu abusi
Dell’innocenza d’una rosa.
Nel tuo tremore si riposa
La mia noia; fiduciosa
Ronza attorno a un’immagine chiusa
La pazienza è forse rischiosa
Ché talvolta si spegne un fiore
Nella notte e il fradicio odore
Ti eccita curiosa.
Ma susciti dentro la stanza
L’aria di tanta vacanza
Amica pungente e pia.
Così cara è la tua molestia
Che stasera con me ti fa festa
La mia efimera poesia.
*
A CASA MIA
A casa mia si parla
con le mosche si vive
in compagnia delle mosche
d’inverno e d’estate
dov’è la mosca
come sta la mosca
è sparita la mosca
si grida quando si ritorna.
*
LA CIVETTA DELLA NEVE
Vengono anch’essi a scaldarsi
accanto al camino i vecchi Dei.
Viene intirizzita a chiederci asilo
la civetta della neve.
Leonardo Sinisgalli
Leonardo Sinisgalli è nato a Montemurro (Potenza) nel 1908 e morto a Roma nel 1981. Laureato in Ingegneria nel 1932, si è presto legato agli ambienti poetici e figurativi della capitale, grazie soprattutto ai rapporti intrattenuti con Ungaretti e con Scipione. Trasferitosi a Milano, ha lavorato nel campo dell’architettura e del design industriale, prima di tornare a Roma per dirigere – tra il 1953 e il 1959 – la prestigiosa rivista della Finmeccanica “Civiltà della macchine”. Attento agli sviluppi del sapere scientifico, accanto a quelli della cultura umanistica, come poeta ha esordito – riscuotendo fin dai primi anni l’attenzione partecipe di critici quali De Robertis, Cecchi, Contini – con la silloge 18 poesie (Scheiwiller, Milano 1936); per poi giungere al rilevante Vidi le Muse (Mondadori, Milano 1943) e pubblicare successivamente I nuovi Campi Elisi (Mondadori, Milano 1947); La vigna vecchia (Mondadori, Milano 1952, II ed. accresciuta nel 1956); L’età della luna (Mondadori, Milano 1962); Il passero e il lebbroso (Mondadori, Milano 1970); Mosche in bottiglia (Mondadori, Milano 1975 – Premio Viareggio) e Dimenticatoio 1975-1978 (Mondadori, Milano 1978). Di rilievo, per la sua efficacia sintetica, è l’Oscar pure mondadoriano curato da Giuseppe Pontiggia nel 1974, con il titolo L’ellisse – Poesie 1932-1972. Infine, vanno citate le prose, suddivise grossomodo tra le competenze scientifiche (Furor mathematicus, 1967), la rievocazione memoriale (Prose di memoria e d’invenzione, 1974) e la passione per le arti figurative (La rosa di Gerico, 1969).
In un fuoco immobile Note su Origini, di Giancarlo Pontiggia
La recente pubblicazione complessiva delle poesie di Giancarlo Pontiggia, nel bel volume Orgini, Poesie 1998-2010, Interlinea, 2015, ci dà l’occasione di incontrare nuovamente la delicata e inquietante forza di questo poeta.
Difficile pensare ad un autore più distante da ciò che si agita nella poesia italiana contemporanea, difficile pensare una poesia più discreta e lontana da ogni tempo che si voglia determinato; come se la sua forza e la sua qualità prima fossero proprio nel rivendicare, sofferto e impalpabile insieme, un anacronismo deciso rispetto ad ogni semplicistica visione dell’attualità. Eppure non si può avere dubbi: la poesia di Giancarlo Pontiggia si nutre di una dizione cristallina. Un’acuta e penetrante scelta verbale, sovente in chiave arcaica o al contrario violentemente sprezzante di ogni registro e che sorprende per lo stridente intarsio, convive con un ductustrascinante, un’ariosità ritmica che pare rovesciare ogni verso in un vento che inesorabilmente risospinge il lettore nella nocciolo della fine, della quiete: la calma al vertice inaudito della tempesta.
Come sottolinea Carlo Sini nella preziosa prefazione a Bosco del tempo (2005), qui riportata ad apertura del volume, Pontiggia è uno di quei rari poeti che ha fra le corde della sua arte la possibile espressione della felicità: “Scorreva la vita come un miele\ troppo dolce, troppo forte” (p. 109). Essa non è ingenua né scomposta, non è neanche l’estasi drammatica e patetica che toglie il fiato e spezza ogni muscolo nello spasimo barocco di un orgasmo. Più sua è invece la felice congiuntura che stringe a sé l’immagine, in una densità tale da percepirne il suo attimo felice; esso, intrappolato nelle pieghe ritmiche, colto fra passato e presente, in sé si rivolta e per un attimo sosta, attonito, fragrante, rorido, prima che il movimento lo riprenda e lo consumi in un fuoco immobile (si legga Estati, a p. 50). Vi è nei suoi versi come una contraddizione permanente fra il nome e il movimento che lo anima, fra la fissità lapidaria della parola e il continuo trascorrere del ritmo, sempre spezzato e trascinante, di parola in parola fino al dilagante bianco in cui ogni lemma si schianta, ormai piagato, ormai stravolto. Ed ecco che il lessico di Pontiggia, così volutamente senza tempo, contempla brolo e terzino, immerdatae romita; ma più spesso trova il suo più fruttuoso bottino nelle parole della tradizione, parole esibite proprio in virtù del loro essere senza tempo, appartenenti al remoto passato della nostra storia letteraria, come al loro impronosticabile futuro.
La felicità che egli sa raccogliere è di chi proponga la poesia e la sua lettura come una forma di contemplazione e di esercizio: arte del tempo, infine, un’etica della postura da tenere nel tempo nostro della vita. Il movimento della sua poesia è, proprio per questo, in avanti, tanto quanto impone un rovesciamento a ritroso, anàdromo; tanto tiene l’occhio fisso alla polpa del frutto, quanto conosce l’ombra che si cela nel verde delle foglie che lo precedettero; tanto è presente alla gioia della vita quanto alla consapevolezza della transitorietà di ogni cosa che percepisce. Di questa vita in bilico, spazzata da vertigini quiete, da cieli azzurri conosciuti e sconosciuti insieme, Pontiggia costruisce il proprio canto, il proprio inno ad un’ombra che è vita, ad una vita che è sprofondamento nella catena anonima delle voci che ci hanno preceduto. Una poesia che cancella ogni discorso, ogni chiacchiera mondana e lascia un campo aperto, vasto, largo; un mare grande dove lo sguardo può sostare immerso nella percezione del vuoto incircondabile che lo circonda, nel sapore più ricco e segreto alle origini di ogni gesto, di ogni nostra parola: “«Tempo, rispondi almeno tu:/ dove ci muoviamo?»// «esattamente dove siamo»” (p. 182).
Tommaso Di Dio
Marzo 2015
Poesie da Orgini, Poesie 1998-2010
Canto di evocazione
Vieni ombra/ ombra vieni/ ombra ombra
vieni oh vieni, buia
sali tra i gradini, nel tempo
Vienimi vieni vieni/ vienimi vieni vieni
con ogni doglia, con tutte le furie
con ciò che nell’ombra si sfoglia
con quel che nell’ombra spuma
Ombra vieni/ ombra ombra/ vieni ombra
nel vento nel vento
nel greve tormento
vieni oh vieni tra i numeri, nel fuoco
divieni canto roco
Vieni oh vieni/ vieni oh vieni
tra le forme del caso,
vieni, batti
contro gli spigoli, scendi
obliosa su ciò che è stato,
diventa nostro fiato
Ombra resta/ resta ombra/ resta resta
nella cupa fronda
nella sola testa
che geme che geme
tra i rametti del caso
nel cuore, nel seme invaso
vieni, oh vieni/ vieni, oh vieni
(ripetuto)
*
Estati
Sciami variopinti,
orse
in alto vele razzanti,
estati
anfore buie serbanti nella
loro gola un ronzio di terra,
i melograni si spaccavano alla luce
fissa del meriggio, io
scrutavo in su, in su, tra i numeri, tra
le righe e gli anni
luce, il fumo si alzava sulle
strade,
nella polvere
tra onde
in roghi
*
Nomi
Come d’ottobre, in un brolo, s’ingorgano
molli, marcenti, i fogliami (fronde
strepitose e verdi,
un tempo) – s’intridono, vedi,
poco alla volta i nomi
(gli stravolti, i piagati nomi)
in una pasta
di pensieri melmosi, vuoti,
e scendi
passo dopo passo in stanze
umide, buie, in un tempo
molle, che si sfalda.
*
Pensavo parole volanti, frecce
Pensavo parole volanti, frecce
dal leggero impennaggio,
o palloni in fuga, alianti
come foglie, sotto un palo lontano.
Non sapevo che sarei fatto terzino
di una squadra in affanno, assediata
dall’ombra, dal tempo, dal fiele
di una storia avara, immerdata.
Lettore giovane e ardente,
prendi nota del tuo destino.
La vita è in agguato, sempre,
sulle strade del nostro cammino.
*
E leggi
E leggi che durare possono
le cose che non hanno vita,
e tu muori,
e questi versi, che altri un giorno
leggeranno, durano più di te,
e tu non duri,
e li hai fatti
e in queste stanze
dove tante ore hai
dormito, altri
ci dormiranno: e così poco
è la vita,
che un verso, un muro, un letto
sono più lunghi di te,
erano prima, e sono dopo
di te.
*
Alle prode
Alle prode
scontrose, sui
frontoni del cielo, immensi, tra
le ombre
dense
delle stanze, nell’ora
pomeridiana, quando
la vita
sovrana, irraggiungibile,
s’impaluda
in un sonno profondo,
sempre, ovunque, è
il vostro
lucente
fragore,
onde
Giancarlo Pontiggia
Giancarlo Pontiggia è nato a Seregno, in provincia di Milano, nel 1952. Ha studiato Lettere all’Università degli Studi di Milano, laureandosi sulla poesia di Attilio Bertolucci. Redattore di “Niebo” (1977-1981), rivista di poesia e di poetica diretta da Milo De Angelis, ha curato insieme ad Enzo Di Mauro La parola innamorata. Poeti nuovi (Feltrinelli, 1978). Dal francese ha tradotto, fra l’altro, La nouvelle Justine di Sade, le Bagatelle per un massacrodi Céline, le tre versioni del Fauno di Mallarmé, La bambina dell’oceano di Supervielle, Charmes e Il mio Faust di Paul Valéry. Verso la fine degli anni Ottanta ha concentrato il suo interesse sul mondo classico, traducendo le Olimpiche di Pindaro, La congiura di Catilina di Sallustio (Mondadori 1992, con introduzione e commento) e Rutilio Namaziano. Successivamente ha pubblicato, in collaborazione con Maria Cristina Grandi, una Letteratura latina. Storia e Testi in 3 volumi (Principato, 1996-1998). Poesie, saggi e studi di teoria poetica sono sparsi su numerose riviste, in antologie e volumi collettivi. Nel 1998 è apparsa, presso Guanda, la raccolta poetica Con parole remote (Premio Internazionale Eugenio Montale, 1998), nel 2005 Bosco del tempo enel 2015 Orgini, Poesie 1998-2010 (Interlinea). Testi di poetica si possono leggere, per limitarsi alle edizioni in volume, in Colloqui sulla poesia (Nuova Eri, 1991), Passi passaggi. Partecipazione e solitudine nell’arte (Sestante, 1993), La parola ritrovata. Ultime tendenze della poesia italiana (Marsilio, 1995), Contro il Romanticismo / Esercizi di resistenza e di passione (Medusa, 2002), Selve letterarie (Moretti&Vitali, 2006). Insieme a Paolo Lagazzi è l’autore del manifesto per una nuova critica I volti di Hermes che è stato pubblicato sul n.209 dell’ ottobre 2006 della rivista Poesia dell’editore Crocetti. Sempre con Lagazzi ha curato il Meridiano Mondadori dedicato a Maria Luisa Spaziani ed è il responsabile della Sezione Letteratura Italiana della rivista Ali (Edizioni del Bradipo), diretta da Gian Ruggero Manzoni, e della rivista Poesia e Spiritualità, diretta da Donatella Bisutti. È redattore della rivista “Poesia” e critico letterario per il quotidiano nazionale “Avvenire”. Insegna letteratura italiana e latina in un liceo di Milano.
Per il fine settimana, Valerio Magrelli suggerisce Mario Luzi. Buona Lettura.
Gianluca D’Andrea
La poesia di Luzi
Nel 1983, con una piccola plaquette fuori commercio stampata presso le Edizioni Orcio d’Oro di San Miniato, Mario Luzi ha proposto una breve scelta delle sue poesie basata sul “tema del mutamento o della metamorfosi”. Una raccolta ben più articolata e vasta, Il silenzio, la voce, è uscita l’anno seguente da Sansoni, arricchita da un dettagliato commento dell’autore stesso. Nell’introduzione, si legge: “Il mutamento, la metamorfosi: questo è stato e resta il tema dei temi della mia poesia”. Quasi a coronare tale ricerca critica, tale accanito sforzo di autointerpretazione, è giunto nel 1985 l’ultimo volume di versi, pubblicato da Garzanti con il titolo Per il battesimo dei nostri frammenti. In questo libro, infatti, quel fuoco, quella “eterna metamorfosi” indicati da Luzi come il nucleo magmatico della propria scrittura, erompono con violenza dando vita ad alcune tra le immagini più alte della sua intera produzione. Benché composta da numerose sezioni, l’opera sembra disporsi idealmente su due piani. Nella prima parte, a mo’ di introito, domina il problema della storia; nella seconda, forse la più sorprendente, si sviluppa invece una sorta di cantico della natura. Si tratta, ovviamente, di una distinzione sommaria, che tuttavia può servire ad illustrare le linee interne di una poetica tanto complessa. Come ha suggerito Tiziano Rossi, “l’essenza trascendente è al centro dei versi di Luzi”. La sua vocazione religiosa, il suo cristianesimo ispirato a Pascal e Teilhard de Chardin, lo portano a interrogarsi innanzitutto sul rapporto tra l’individuo e la divinità. Anzi, l’interrogazione stessa (una delle figure retoriche più frequenti nelle sue composizioni) nasce proprio a partire dal dilemma etico, come domanda sul destino umano, sul significato del tempo, della storia. Si capisce perché una simile problematica abbia interessato sia Carlo Bo, sia, da tutt’altro versante ma con non minore intensità, Franco Fortini. Ricollegando il pensiero dello scrittore alla lezione di Eliot, Pier Vincenzo Mengaldo ne ha colto con chiarezza la segreta tensione verso una “metafisica, tra cristiana e platonica, della identità e reciproca reversibilità, o meglio perpetua oscillazione, di divenire ed essere, mutamento e identità, tempo ed eternità”. La prima metà di Per il battesimo dei nostri frammenti si svolge appunto nel segno di questa assillante e lacerata richiesta di senso, un senso oscurato, invisibile ma presente, che pur sotterraneo ed esiliato pervade ogni cosa. È l’attesa della parusìa, l’invocazione al “Dieu caché” con cui si apre il libro: “Così quasi si estingue, / così cova l’incendio / l’immemorabile evangelio…”. Un termine ricorrente in queste pagine è quello di “interregno”, chiamato a designare l’orribile, interminabile vacanza del Dio, il suo essersi ritratto dal mondo. Sul fondamento di questa mancanza, la riflessione si organizza intorno ad alcuni motivi conduttori quali la memoria, il passato, dilapidato, il futuro incipiente, in una parola, l’“infratempo”. Un simile concetto (curiosamente affine alle nozioni di Zwischenwelten o Ungleichzeitigkeit formulate da Ernst Bloch, anche se in un orizzonte teorico completamente diverso) opera in modo analogo a quella spia grammaticale che Mengaldo indicò nella preposizione “tra”, tipica del Luzi maturo. Ma a tale sigla stilistica, trasposta nei prefissi “infra” e “inter”, se ne aggiunge ora un’altra, profondamente significativa: “ultra”. Tutto l’ultimo volume è percorso da questo segnale trascendente, che si ritrova nella “teologale ultrasuperbia”, nella “terra terrosa […] ultraterrena”, nel “nero ultraceleste”, nell’“ultratrepidante annuncio”, nello “sguardo ultramarino”, nella “ultramutevole apparenza”, oppure, variato appena, nella “superinfusa piana». In certo modo l’intera opera di Luzi è racchiusa in questo gesto di fede, nel rinvio ad una dimensione ulteriore che eccede l’àmbito mondano. La storia dell’uomo viene così inserita all’interno di un imperscrutabile ordine divino, teologicamente proiettata verso il sacro compimento dei tempi. Come si è detto, il problema etico occupa in prevalenza la prima parte della raccolta. Nella seconda, si assiste infatti ad una decisa svolta tematica: all’universo della morale subentra l’universo della natura, alla storia, l’arcana presenza del paesaggio. Superfluo precisare quanto questo paesaggio sia intimamente permeato di un sentimento religioso, in certi casi addirittura mistico. Ciò che conta, piuttosto, è l’energia simbolica che il poeta sa fare scaturire dalle immagini, di per sé “neutre”, di una qualsiasi veduta campestre. Certe insistenze esplicite, certi appesantimenti che ostacolano a volte la dizione di Luzi quando il soggetto è quello nobilissimo e scottante dell’ingiustizia, del male, della miseria sociale, spariscono di fronte alla straziante, implicita bellezza del creato. Straziante appunto perché implicita, inesplicata, nuda, muta, irraggiante, raccolta nel suo semplice essere. Qui si ritrova l’idea del mutarnento, ma per così dire stilizzata, intravista nell’apparire dei monti, dei fiumi, del cielo, oppure delle rondini, che “sgorgano / una dall’altra” traboccando, autorigenerandosi, come figure della metamorfosi. Il continuo ricorso all’avverbio o all’interiezione “ecco”, accentua il valore epifanico di questi versi. La natura è scrutata come luogo di rivelazione, promessa di un’imminente primavera spirituale. La panica, plenaria solennità di certe descrizioni (che sembrano ispirarsi a Hölderlin) percorre poesie straordinarie quali Il mai perfetto, oppure Montagne?… non sa se luce o marmo, per culminare in due tra i testi più felici del libro: Pernice e Trota in acqua. Immersi nel loro spazio come vettori in campo di forze, i due animali sono chiamati a rappresentare l’enigma stesso dell’esistenza umana, “quell’inebriante infuso / di libertà e necessità”, “quei filanti paradisi / di libertà e d’obbedienza”. È come se L’anguilla di Montale si mostrasse in una luce nuova, simile al pesce gnostico, al Cristo che discende negli abissi di cui parlò Supervilles in una Chanson tradotta, o meglio, trasformata da Paul Celan.
Valerio Magrelli
Poesie da Per il battesimo dei nostri frammenti di Mario Luzi
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Mario Luzi (1987)
Mario Luzi nasce a Sesto Fiorentino nel 1914 da genitori originari di Samprugnano nella zona del Monte Amiata. A Samprugnano Mario passerà le vacanze fino al 1940. Insieme con il borgo di Castello vicino a Sesto Fiorentino, Samprugnano è per lui luogo di ispirazione, legato a una cultura agricola, del villaggio e soprattutto legato alla madre, Margherita Papini. La madre, “figura malinconica anche se serena e mansueta”, avrà sul giovane Mario un’influenza importante soprattutto per l’idea di religione, molto interiorizzata e poco di chiesa. Il padre era un tipo pragmatico, meno incline a capire le scelte del figlio. Tuttavia in seguito, quando vide che Mario ne traeva sostentamento e piacere, non ebbe problemi ad accettare le sue scelte. Una famiglia serena, che influenzò positivamente la sua crescita, avvenuta in luoghi tranquilli, nonostante la guerra. Negli anni 20 il giovane Mario frequenta le scuole a Castello e si fa notare per la sua bravura e la sua maturità. A 9 anni aveva già letto Pinocchio e i classici del tempo, e addirittura i Promessi Sposi. I primi tentativi poetici sono del 1924. Frequenta il ginnasio al Galileo di Firenze per poi andare a Milano e a Siena, trasferimenti dovuti al lavoro del padre, ferroviere. A Siena completò gli studi ginnasiali. Il periodo di Siena è un periodo importante, il periodo della scoperta delle ragazze, dell’amore e dell’arte. L’arte senese lasciò in lui un segno indelebile. Gli anni intorno al 30 vedono il giovane Mario alle prese con le letture di base per la sua formazione, la delusione della filosofia, di cui riusciva ad apprezzare solo i greci, per la semplicità del pensiero, e l’ammirazione per i “filosofi” dell’età contemporanea, Joyce, Proust, Mann. In seguito ebbe una folgorazione per Nietzsche e per le opere Al di là del bene e del male e Così parlò Zarathustra. Gli anni 30 sono gli anni degli studi universitari, a Lettere, a Firenze. Sono gli anni in cui conosce gli amici di una vita, Oreste Macrì, Piero Bigongiari e Piero Bargellini, Romano Bilenchi e Carlo Bo. Si introduce nella vita intellettuale della città e prende contatti con le riviste dell’epoca, Solaria, L’Italia letteraria, Il Frontespizio. Fra gli editori, nessuno ancora pubblicava poesia contemporanea. L’unica casa editrice era Vallecchi e poi Guanda, una casa editrice di gusti alternativi. L’amicizia con Betocchi, cominciata in questi anni, è un’amicizia fondata sull’interesse per la poesia e la letteratuta. Insieme leggono Mauriac, Rimbaud e i poeti francesi. Si laurea nel 1936 con una tesi su Mauriac pubblicata nel 1938 da Guanda con il titolo L’opium chrétien. Comincia a insegnare a scuola e a pubblicare per Il Frontespizio e per Letteratura di Bonsanti, conosce Tommaso Landolfi e in seguito Montale, che faceva parte del gruppo del caffè delle Giubbe Rosse dove si inserì e dove conobbe pure Aldo Palazzeschi, Vittorini, Gatto e Ottone Rosai per cui scriverà il suo primo pezzo di critica d’arte. Si avvicina la guerra e Luzi continua la sua attività di scrittore e di critico. Per motivi di salute viene riformato. Collabora anche alla prestigiosa rivista Prospettive di Curzio Malaparte e a febbraio esce per Vallecchi Avvento Notturno in cui il presentimento per un’epoca oscura che si andrà purtroppo realizzando di lì a poco, appare con grande chiarezza. Sono anni di grande inquietudine interiore che si riflette nella sua poesia e nella sua vita, pur ricca di incontri con scrittori e poeti dell’epoca. A Roma, dove risiede tre giorni a settimana per lavoro (presso il Ministero di Educazione Nazionale e Cultura Popolare), frequenta Pratolini, già conosciuto a Firenze, Gadda, Calamandrei e Giorgio Caproni. Nel 1942 si sposa con Elena Monaci e nel 1943 alla caduta di Mussolini ripara con la moglie nel Valdarno ma non lavora, visto il momento critico e particolarmente buio, che lo preoccupa per il futuro. Nell’ottobre del 1943 nasce il figlio Gianni. Nel 1945, alla fine della guerra, fu sconvolto, rientrando in città, dalla devastazione di Firenze dove Luzi ritorna per riabbracciare i genitori. Anche la sua casa è stata distrutta. Comincia ad insegnare al Liceo Scientifico in via Masaccio 223, dove rimarrà diciotto anni e dove avrà come colleghi Lanfranco Caretti e Eugenio Garin. In questi anni fonda una rivista, Società in collaborazione con Vittorini e Bilenchi. Pubblica varie poesie e scrive molto, anche di critica e di saggistica, relativa soprattutto alla letteratura francese, collabora alla rivista Letteratura, che però lo delude, e a La Chimera diretta e stampata da Vallecchi, cui collaborano anche Carlo Bo, Betocchi, Bigongiari e Parronchi. Insegna sempre ed è spesso commissario di maturità in varie città d’Italia. Nel 1955 viene chiamato a Scienze Politiche per la cattedra di Lingua e cultura francese. Nel 1960 dopo la morte della carissima madre, riesce a pubblicare il corpus delle sue poesie con il titolo Il giusto della vita. Nel 1959 aveva vinto il premio Marzotto per la poesia ex aequo con Saba. Negli anni 60 cominciano le collaborazioni con l’Università di Urbino dove sarà chiamato negli anni 70 a tenere dei corsi di letteratura francese, e intanto pubblica Nel magma per Vallecchi. Dal 1966 inizia a viaggiare: in Russia e in Georgia poi in India, Ungheria, Romania, dove le sue poesie cominciano ad essere tradotte, poi nel 1974 negli Stati Uniti. Inizia a scrivere per i quotidiani, per il Corriere della Sera, dove scrive articoli sulla letteratura latino – americana e per Il Giornale di Indro Montanelli con il quale collabora fino ai primi anni novanta. Nel 1979 escono le sue poesie presso la Garzanti, Tutte le poesie. (In due volumi). Viaggia sempre molto, Parigi, i paesi scandinavi, la Cina, e nel 1980 partecipa a un meeting di poesia in cui partecipano poeti italiani contemporanei (Sereni, Fortini, Zanzotto, Sanguineti …) e poeti americani. Nel 1981 ha luogo all’Università di Siena il primo convegno di studi sulla sua opera e nel 1982 vince la cattedra di ordinario di Letteratura Francese a Magistero a Firenze. Negli anni 80, Mario Luzi pubblica molte delle sue opere, viaggia e scrive saggistica varia. Sono anche gli anni in cui perde due dei suoi più cari amici: Carlo Betocchi e Romano Bilenchi. Collabora anche come scrittore di teatro con Hystrio, del 1987, e più tardi con Io, Paola, la commediante e altri testi che saranno pubblicati in un volume della Garzanti Teatro. Nel 1990 interviene a più riprese contro la Guerra del Golfo e in seguito saranno sempre più frequenti i suoi interventi di stampo politico. Molte sono state le manifestazioni per celebrare i suoi 80 anni. Negli anni 90, preoccupato per la situazione politica italiana, rafforza il suo impegno e i suoi interventi avvicinandosi all’Ulivo nelle elezioni del 1996. Nel 1997 ha ricevuto la Legione d’Onore dal Presidente della Repubblica Francese e in occasione dei suoi 90 anni nell’ottobre del 2004, è stato nominato senatore a vita dal Presidente Carlo Azeglio Ciampi. Si è spento qualche mese dopo, il 28 febbraio del 2005 a Firenze. Ha avuto funerali solenni ed è sepolto nel cimitero di Castello.
BIBLIOGRAFIA
POESIA
La barca, Modena: Guanda, 1935 Avvento notturno, Firenze: Vallecchi, 1940 La barca, 2 edizione modificata e accresciuta, Firenze: Parenti, 1942 Biografia a Ebe, Firenze, 1942. Prosa poetica Un brindisi, Firenze: Sansoni, 1946 Quaderno gotico, Firenze: Vallecchi, 1947 Primizie del deserto, Milano: Szhwarz, 1952 Onore del vero, Venezia: Neri Pozza, 1957 Il giusto della vita, Milano: Garzanti, 1960. Tutte le poesie fino al 1960 Nel magma, Milano: All’Insegna del Pesce d’Oro, 1963. Nuova edizione accresciuta, Milano: Garzanti, 1966 Dal fondo delle campagne, Torino: Einaudi, 1965 Su fondamenti invisibili, Milano: Rizzoli, 1971 Al fuoco della controversia, Milano: Garzanti, 1978 Tutte le poesie, 2 voll, (Vol 1. Il giusto della vita; vol 2: Nell’opera del mondo Milano: Garzanti, 1979 Reportage, un poemetto seguito dal Taccuino di viaggio in Cina, Milano: All’Insegna del pesce d’Oro, 1980 Per il battesimo dei nostri frammenti, Milano: Garzanti, 1985 Tutte le poesie, Milano: Garzanti, 1988 (Il giusto della vita; Nell’opera del mondo; Per il battesimo dei nostri frammenti. Edizione accresciuta e comprendente anche con le Semiserie ovvero versi per posta, 1970-1987) Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, Milano: Garzanti, 1994 Sia detto, in “Annuario della fondazione Schlesinger”, Lugano, Milano, New York, 1995 (10 poesie) Tutte le poesie, Milano: Garzanti, 1998 (Edizione accresciuta e comprendente La cordigliera delle Ande e altri versi tradotti. Frasi e incisi di un canto salutare. Viaggio celeste e terrestre di Simone Martini) Diana, risveglio sotto specie umana, Milano, 1999 Dottrina dell’estremo principiante, Milano, 2004 Lasciami, non trattenermi. Ultime poesie, Milano: Garzanti, 2009.
TEATRO
Ipazia, Milano: All’insegna del Pesce d’Oro, 1973 Libro di Ipazia, Introduzione di G. Pampaloni, Milano: Rizzoli, 1978 Rosales, Introduzione di G. Raboni, Milano: Rizzoli, 1983 Hystrio, Milano: Rizzoli, 1987 Corale per la città di Palermo per S. Rosalia, Genova: S. Marco dei Giustiniani, 1989 Il Purgatorio, la notte lava la mente, Genova: Costa&Nolan, 1990 Io, Paola, la commediante, Milano: Garzanti, 1992 Teatro, Milano: Garzanti, 1993 (raccoglie i testi precedenti) Pietra oscura, Porretta Terme: I Quaderni del Battello Ebbro, 1994 Felicità turbate, Milano: Garzanti, 1995 Ceneri e ardori, Milano: Garzanti, 1997.
PROSA
Biografia a Ebe, Firenze: Vallecchi, 1942 Trame, Milano: Rizzoli, 1982 (contiene anche volumi precedenti a partire dal 1963) De quibus, Montichiari: Zainetto, 1991 Toscanità, Montichiari: Zainetto, 1993 Mari e monti, Firenze: Il ramo d’oro, 1997 Taccuino di viaggio in India e altri inediti di Mario Luzi, Firenze: Polistampa, 1998.
SAGGI
L’Opium chrétien, Parma: Guanda, 1938 Un’illusione platonica e altri saggi, Firenze: Edizioni di Rivoluzione, 1941 e a cura di M. Boni, Bologna, 1972 L’inferno e il limbo, Firenze: Marzocco, 1949 e Milano: Il Saggiatore, 1964 (edizione accresciuta) e Milano: SE, 1997 Aspetti della generazione napoleonica e altri saggi di letteratura francese, Parma: Guanda, 1956 Tutto in questione, Firenze: Vallecchi, 1965 Vicissitudine e forma, Milano: Rizzoli, 1974 Discorso naturale, Milano: Garzanti, 1984 Cronache dell’altro mondo, Genova: Marietti, 1989 Scritti, Venezia: Arsenale, 1989 Le parole agoniche della poesia, Macerata: Alfabetica, 1991 Dante e Leopardi o della modernità, Roma: Editori Riuniti, 1992 Naturalezza del poeta. Saggi critici, Milano: Garzanti, 1995 Sperdute nel buio. 77 critiche cinematografiche, Milano: Blu cobalto, 1995 Vero e verso: scritti sui poeti e sulla letteratura, 2002.
Mario Luzi è stato anche curatore e traduttore di opere letterarie dal francese e dall’inglese (v. il volume Mario Luzi, L’opera poetica, Milano: Mondadori, 1998 (I meridiani). Molte le interviste pubblicate riguardanti la poesia e la figura del poeta, per le quali si rimanda al volume citato sopra, come per le traduzioni della sua poesia in francese, inglese, spagnolo, in tedesco, in russo, bulgaro, croato, polacco e greco, svedese. Molto interessante la produzione che coniuga le poesie di Mario Luzi e produzioni artistiche, di cui riportiamo alcuni esempi: Una poesia di Mario Luzi e quattro serigrafie di Michel Tissot, Firenze: L’Upupa, 1985 Padri dei padri, una poesia di M. Luzi cinque acqueforti di F. Ghitti, Milano: Naquane, 1985 La barca, tavole di N. Pino, Messina: Il Gabbiano, 1991 Poeti e pittori, di M. Luzi e E. Marco, Massa Carrara: ed. ENT, [1992?] Tra terra e cielo, versi di M. Luzi, musica di C. Crivelli, Roma: Aeditio Princeps (200 esemplari) In extremis, 18 poesie di M. Luzi di cui sei inedite, tecniche miste di P. Dorazio con CD allegato delle poesie lette dall’auotre, St. Gallen: Erker Verlag, 1995 Tre poeti per Morandi, Udine: Campanotto, 1996.