
Anna Maria Carpi (Foto di Dino Ignani)
Brevi appunti sulla fine IV – La relazione?: “E io che intanto parlo – Poesie 1990-2015” di Anna Maria Carpi, Marcos y Marcos, Milano 2016
E perché io non esiste
senza di tu di lui di noi di voi di loro
A. M. Carpi
L’operazione poetica di Anna Maria Carpi, a cui la pubblicazione complessiva che inaugura la nuova collana di poesia della Marcos y Marcos ci permette di accedere, è incentrata sulla tematica, forse troppo novecentesca, dell’assenza. Del soggetto lirico e, di conseguenza, relazionale, per questo la traccia macroscopica, la presenza sovraesposta della prima persona, sembra diventare il segnale di un disorientamento, di una carenza originaria dell’identità.
Le attuali analisi di quest’opera, strutturata in sei tappe che si muovono in direzione di un tentativo di fuoriuscita dall’impasse identitaria – sin dalla prima raccolta, A morte Talleyrand del 1993, impostata su un dialogo con un analista e che si muove alla ricerca, quindi, di un trauma di cui non sembra importare realmente la natura, e infatti è l’ironia a ribaltare la “serietà” con cui affrontare se stessi, primo segnale di una marginalizzazione dell’io – fanno sempre riferimento (Testa, Galaverni, infine Pusterla nella prefazione al libro) all’irresolutezza caproniana, al tono di sospensione e inadeguatezza del soggetto nel quadro della rappresentazione. Insomma, partendo da una sfiducia collaterale – il Caproni ironicamente dis-topico, almeno dal Congedo in poi, Carpi tenta una risalita, prova ad attraversare il negativo e prova a rilanciare (si veda il titolo dell’ultima raccolta, L’animato porto del 2015 che ribalta l’assunto del perduto approdo, di matrice addirittura primonovecentesca se pensiamo che Il porto sepolto fu pubblicato nel 1916) un barlume di speranza.
Cominciamo dalla fine:
LA MIA LINGUA è inattuale?
Io piaccio
a giovanissimi ignoti che mi scrivono
su facebook. Quale faccia,
se ogni giorno cambiano.
E perché piaccio? Perché parlo semplice?
Sentono in me a distanza
il cucciolo pezzato
che fa salti e che abbaia
perché, lui così crede,
la poesia emana dalla vita?
Poi sparsi non datati ho dei seguaci
seri nerobarbuti
che ancora guardano alla montagna sacra
dove senza di noi,
dissennata, da sé,
la lingua compie ancora dei prodigi.
Poi vedo che mi apprezzano
i fermi
i senza fede,
sono onesti e di solida cultura
e credono all’io interno, solitario.
E poi ci sono i vecchi,
voglio dire i nati nei Cinquanta
o nei Sessanta, che in molti già si sentono
nel vento della morte. Così presto, perché?
Sono loro i compagni che vorrei
Ma quel che in me gli manca è la bravura
Di far misteri fra parola e cosa.
Qual è stato il mio tempo? Io non lo so.
(p. 225)
Se si esclude il compiacimento per un’accoglienza intercettata in extremis, piuttosto dissimulato d’altronde, si può cogliere un lieve cambiamento di prospettiva nella considerazione di chi, modificando fittiziamente i propri connotati – «Quale faccia, / se ogni giorno la cambiano» – non sente più necessaria la dimensione del riconoscimento. Certo, è solo questo, perché poi il testo nella sua discorsività esposta, finge disinteresse ma poi tende all’auto-agnizione e si rifugia nel dubbio: «Qual è stato il mio tempo? Io non lo so».
Ma tornando alle origini del cammino proviamo a leggere un testo dalla seconda raccolta, Compagni corpi del 2004:
È PERCHÉ IO NON ESISTE
Senza di tu di lui di noi di voi di loro.
“Coraggio, baby, ci vediamo presto”,
“o prima o poi” ridacchia il vento
su per la cappa “è tardi, è tardi…”
Parole-avanzi,
lo sporco nel camino dopo il fuoco – e nulla,
nulla mi rassicura,
e mi divora
non sapere chi sono.
Andarono in fumo alcuni
dentro un bianco cielo tedesco –
altri come bimbi
nel bianco di una stanzuccia
o come vecchi su un viale alberato d’autunno,
rade le foglie, radi i capelli.
I pro-, i ge-
nitori
non si muovono più.
Posano ancora però: per un ritratto
che sembri vivo e resti
un altro mezzo secolo.
Quasi nessuno da vivo aveva coraggio,
forse si muore
per pura viltà.
(p. 69)
La mancanza di ogni sicurezza “divora” l’io, ma perché è la scomparsa di chi viene prima a rendere orfano il presente. La seconda raccolta ha la stimmate esposta della grande Assenza (e infatti è inaugurata da uno dei grandi padri del vuoto novecentesco, Paul Celan): «Ancel ancora all’incontro / di Dio – nella sua lingua si chiama Nessuno» (Gli ebrei, diceva l’ebreo, p. 61, vv. 10-11); della perdita delle tracce dei «pro-, ge- / nitori», della scissione tragica che si allarga dal trauma della storia.
Nel movimento io/mondo, tra le vicende del quotidiano, infatti, s’insinua spesso il grande Altro della Storia, ma il “piccolo” altro è già pressante all’altezza della terza raccolta, E tu fra i due chi sei, 2007:
ORA FA BUIO e sarà buio un pezzo
e lungo il viaggio, il tempo
per contemplare gli altri
che non sanno di me né io di loro
e non abbiamo niente da temere:
la gente è buona fuori del suo ambiente.
C’è chi ha aperto il computer, chi telefona,
c’è chi ha un giornale,
e chi lascia la nuca al poggiatesta
e dorme a bocca aperta – perché mai quel sussulto
che gli prende ogni poco
per riassettarsi, richiamare il mento?
Un rigurgito, l’immagine di sé?
Nessuno è mai ciò che vorrebbe essere.
Poi il mento ricade:
va bene, sono brutto, come voi,
chi è bello qui?
Le fermate intermedie: da abolire.
Perché si alza, perché vuole scendere
quell’uomo che ho di fronte da Friburgo?
E perché scende
la simpatica donna là di fronte
nella morta Lucerna o a Bellinzona
e va nell’irreale,
nella notte del mondo?
Figli, marito, un lavoro, un congresso?
Li troverà? Lei crede.
Nessuno trova niente alla sua meta,
a volte un letto caldo e non è poco
ma è bianco come le vesti dei fantasmi.
Non ve ne andate. Eravamo compagni.
Perché arrivate?
Solo un viaggio comune è senza fine.
(pp. 111-112)
L’altro che s’incontra casualmente – e forse non s’incontra realmente – nelle «fermate intermedie», in quelle fasi di passaggio, i viaggi, in cui non è importante che il linguaggio faccia presa, ma ugualmente possa agire nelle pieghe cronologiche, nella fugacità di una locazione temporanea che non necessita di affondo nel riconoscimento: «la gente è buona fuori del suo ambiente», perché inconoscibile se non per visuali rapide, per soggettive presuntive, «Nessuno è mai ciò che vorrebbe essere», che introiettano l’altro e allo stesso tempo lo tengono a distanza.
Eppure un altro modello più che plausibile, almeno per sintonie d’intenti e avvertita affinità, così si esprimeva nel 2002: «Sono quella che sono. / Un caso inconcepibile / come ogni caso» (W. Szymborska, Nella moltitudine, in Attimo, Scheiwiller, Milano, 2004, a cura di P. Marchesani), il che manifesta un avvicinamento all’altro nella casualità – il negativo? – che in Carpi non avviene, forse a causa dell’ingombro identitario. Comunque anche dall’accostamento al modello si può intuire quale sia il movente, il desiderio di essere “tra” che muove la scrittura della Carpi.
Così lo spostamento alla fuoriuscita si scontra sempre con l’«ossessione» di sé, pur cercando di tendersi «in mezzo agli altri»:
FUORI DEL MONDO infine.
Ah, quanto mento.
A me soltanto il mondo mi consola.
Ridono: il mondo? Cosa diavolo intendi?
È una sera a teatro, è una platea,
fra tante luci e io che vado in scena,
come comparsa o autore del copione,
ma essere in gioco, in mezzo,
in mezzo agli altri, in mezzo senza fine.
Questa è la mia ossessione.
(p. 131)
Mentre in Szymborska sembra agire una reclamata assenza (presenza in/del negativo), Carpi insinua una reclamata presenza (assenza in/del negativo). È presente la tensione per il ribaltamento del negativo novecentesco ma non si raggiunge lo scopo, neppure nelle ultime tre raccolte. Se ne L’asso nella neve (2011) le vicende storiche paiono preavvisare una nuova apertura, è anche vero che siamo sempre lontani dal vero, e ricadiamo nella fame di un orientamento perduto: «Fame di padri, fame senza fine», oppure «Mai il vero mi ha interessato» (Ad uno ad uno se ne sono andati, p. 154). Non avviene trasposizione perché ancora “io” cerca una ribalta, combatte la sua marginalità.
I dispersi sparsi qua e là nel libro sembrano confermare la separazione identitaria e, infatti, ancora all’altezza di Quando avrò tempo (2013), possiamo leggere: «Solo in quell’uno che vuol far diverso / io vedo un senso, una gioiosa / sanguinosa traccia di un dio» (24 Dicembre, i quotidiani, p. 190) e anche «Come potrebbe chi come il poeta / spera imperterrito / d’esser figlio di Dio, figlio unigenito?» (Un tempo qui arrivava il luccichio, p. 191).
È proprio il desiderio, ma sempre respinto come per dovere, di un’unità – perduta? da ritrovare? – a lasciare segni irrisolti d’ambivalenza. Forse il risultato peggiore, in termini di irresolutezza espressiva, è proprio l’ultima raccolta, L’animato porto (2015), nonostante il programmatico tentativo, come accennavamo in precedenza riferendoci al titolo, di rinnovare l’approdo sepolto.
Certo, alcune avvisaglie di allontanamento definitivo dal sé ci sono:
RAINOTTE. Nulla può più accadere.
Per oggi è tutto,
vi ringraziamo per averci seguiti.
Un lampo: ho spento, e non devo più nulla.
Sotto le coltri
con l’amante sonno
coi piedi tocco la felicità
tutto il corpo è speranza.
Alle tre ancora nulla, non un suono,
non c’è più il mondo,
il leviatano dorme.
Notte innocente che non sa di ore
né del primo biancore
là verso i monti sopra la ferrovia,
lo stupro della luce che ritorna.
(p. 210)
Ma la sensazione complessiva è di resa a una temporalità implosa, come se non ci fosse più niente da dire: «Non lo senti anche tu che non c’è più? / Il tempo non c’è più, / Tu sorridi: in che senso? / Non stiamo forse andando…? / Sì, uno a uno / ma finora il tempo era anche altro, / era anche un padre. / L’avevamo in comune» (Non lo senti anche tu che non c’è più?, p. 215).
È vero, non abbiamo un “padre in comune”, non esiste forse neanche una comunità, termini condivisibili – «Un altro mondo? È assodato, non c’è», p. 218 – eppure il mondo è qualcosa che balugina dal suo non esserci, e forse è anche il momento di sconfessarla la comunità, di eliminare ogni residuo da vecchio «confort» (p. 218).
Per ora la poesia di Anna Maria Carpi si ferma sulla scelta della fuga, sembra volersi preservare dalla trasfigurazione, così come sembra annunciare anche l’inedito a fine volume, Caro Agostino: «E allora è al padre / che mi rivolgo, come nell’infanzia, / a quel barbuto volto in mezzo ai nembi. // Ma non è l’amore. / O è l’amore questo, / non me non lui non gli altri / solo un’arsura, solo sete sete / di trascendenza» (p. 229).
Non so a cosa miri questa trascendenza ma forse è solo un moto del desiderio, un tentativo per leggere l’attuale ed infinita mutazione.
Gianluca D’Andrea
(Maggio 2016)