LETTURE di Gianluca D’Andrea (43): ODIARE LA POESIA

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Franz Wilhelm Seiwert, Mann mit Maschinen (Fabrikarbeiter), 1924

di Gianluca D’Andrea

«La poesia è sempre la testimonianza di un fallimento».

(Ben Lerner, Odiare la poesia, 2017, p. 14)

Lasciare spazio, forse è questo il vero senso di quella cosa strana che chiamiamo poesia. Colmare il vuoto dell’aderenza al reale, o la tensione di cogliere l’altro per riconoscersi. Il rispecchiamento, ripudiato in ogni manifesto d’avanguardia, continua a riemergere dal testo, e, nel caso delle stesse avanguardie, si “fa” a sua volta manifesto, colma lo spazio di ideologia, di io-poeta.
Lasciare spazio, invece, consisterebbe nella resa definitiva di quella personalità determinante che il soggetto scrivente è, portandosi dietro la fine della narrazione fondante, dell’epica? Narrazione in versi e canto sarebbero solo manifestazioni egocentriche che non lascerebbero spazio all’altro?
Eppure l’altro si fa spazio, rintracciabile nella dimenticanza di sé o nel tentativo di testimonianza di una scomparsa che la narrazione epica conserva (quella dell’io storico, che tende a dissolversi proprio nella narrazione).
Comunque s’interpreti la possibilità o meno della scomparsa del soggetto, il rischio di fallimento è sempre in agguato, a tal punto consistente da significare, con ogni probabilità, la vera necessità della poesia: quella di ristabilire un nesso con il non senso dell’esistere, lo sforzo di cogliere il mondo nella consapevolezza della sua irraggiungibilità.
In quel fallimento sembra risiedere un’ultima speranza, per cui, paradossalmente, la parola centrerebbe, proprio con la sua fallibilità, la fine di ogni ideologia, la fine di ogni centralità dell’io. Nell’umiltà che constata definitivamente questa scomparsa, la poesia chiude i conti con la fine, apre un nuovo spazio, si arrende alla sua potenzialità di non dire e lascia spazio a un nuovo racconto.

Il campo dei cigni | Marina Cvetaeva | ZEST Letteratura sostenibile

Con questo articolo s’inaugura la mia collaborazione a Zest – Letteratura Sostenibile


Cvetaeva_Cigni_cover_con-data-600x825Bianco: tra l’idea e la storia – Il campo dei cigni di Marina Cvetaeva
nottetempo, Milano, 2017

nota di Gianluca D’Andrea

Il campo dei cigni di Marina Cvetateva vede finalmente luce in Italia, nella sua versione completa a cura di Caterina Graziadei, per i tipi di nottetempo.
Il tragitto tutt’altro che lineare del libro, come tutta l’opera della sua autrice, evidenzia una volta di più la funzione testimoniale del linguaggio poetico, a dispetto di ogni ostracismo politico.

Nello specifico, Il campo dei cigni, fatica portata a termine da Cvetaeva tra il 1917 e il 1920, cioè in un periodo tra i più rilevanti e tragici del XX secolo, in quel passaggio violento e desolante segnato dalla Rivoluzione, viene a rappresentare un’operazione in cui stratificazioni storiche (il contemporaneo dell’autrice e la storia dell’antica Russia, intravista attraverso la sua tradizione epica, dal Cantare della schiera di Igor’ al Lamento sulla disfatta della terra russa) si intrecciano alla “passione” per la prospettiva popolare, con il risultato di un legame di lunga gittata tra l’individuo e il tempo. Emerge un’aspirazione all’unità per cui la simbologia del bianco, così “assordante” in tutta la raccolta, diventa il correlativo di un desiderio “civile” percepito sul margine della sua stessa fine. In sostanza, Cvetaeva è riuscita ad abbracciare i dati di realtà trasformandoli, però, in un ideale di lungo respiro, in cui coagula il misticismo ereditato dalla tradizione della storia russa precedente alla Rivoluzione.

Con ogni probabilità anche l’educazione personale di Cvetaeva, da cui deriva una concezione “nobilitante” dell’esistenza, è sintomo dello sdegno manifesto per ogni categorizzazione sociale, e della scelta totalizzante per una libertà individuale ai limiti dell’eccentricità. Se quanto appena esposto è vero, allora i versi che si leggono a p. 81 della presente edizione, «Due soli nemici ho avuto al mondo, / due gemelli, fusi insieme per sempre: / la fame degli affamati – e la sazietà dei sazi!», diventano paradigma di una personalità esacerbata da contrasti e opposizioni, lacerata da una tensione all’elevazione che solo la parola e il canto parrebbero soddisfare.

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BREVI APPUNTI SULLA FINE VI – “Nessun confronto, nessuna fine”: “Senza paragone” di Gherardo Bortolotti, Transeuropa, Massa, 2013

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Gherardo Bortolotti

BREVI APPUNTI SULLA FINE VI – “Nessun confronto, nessuna fine”: Senza paragone di Gherardo Bortolotti, Transeuropa, Massa, 2013

gherardo_bortolotti_senza_paragone_copertinaIl rimpicciolimento del punto di vista in un flusso conglobante, che abbraccia il massimo possibile di un reale comunque in fuga, è la “tecnica” messa in atto da Bortolotti in questo suo libro di passaggio.
Senza paragone (ricordando che Tecniche di basso livello è del 2009 e che è uscito da poco, nel 2016, Quando arrivarono gli alieni) si presenta come un dispositivo, dunque, un conglomerato di tracce verbali messe in riga per un possibile senso. Per entrare tra le maglie di questo dispositivo occorre abbassare l’orizzonte di presenza del soggetto e provare a captare, comunque, lo sforzo di “comprensione” senza simulazioni dell’io scrivente, e la conseguente definitiva (almeno nelle intenzioni dell’autore) de-liricizzazione del contesto. Se «il mondo è quello che è indipendentemente dagli interessi di qualsiasi descrittore» (H. Putnam, Mente, corpo, mondo, Il Mulino, Bologna, 2003, p. 15), ma comprendendone gli stessi interessi, allora la prosa-mondo di Bortolotti vive nell’intreccio ad oltranza, in una tessitura verbale per cui il soggetto è come in bilico tra presenza e assenza e la sua possibilità di relazione è situata nell’intercapedine, ovvero nella funzione quasi “ri-creativa” di una similitudine molto facilmente ribaltabile in distinzione.
Forse il limite e la forza, quindi tutta l’ambivalenza del linguaggio di Bortolotti (non solo di Senza paragone) risiede nell’oscillazione scandita da tappe elencative, e quasi tassonomiche per come sono divisi numericamente i testi, che ricostituiscono la dinamica tutta illuministica di una conformazione d’archivio, enciclopedica.
Lo stratagemma compositivo del libro – e rifletterei sul titolo separando i due termini: “senza” / “paragone”, nella riproduzione dell’ambivalenza tra assenza e presenza relazionale attuabile solo nel confronto -, quella similitudine pronta a essere ribaltata nel suo opposto, plasma un’atmosfera inedita, per cui il lettore si trova immerso nel mondo “descritto” (mondo occidentale, suburbano-urbano, per lo più piccoloborghese, perciò settoriale e paradigmatico, per quanto anche totalmente “soggettivo”) come dentro una bolla, anche se l’ipotesi distanziante è come attraversata da una pietas partecipativa, a sua volta quasi congelata da una classificazione in esubero, dal surplus d’informazione.
Lo stilema della similitudine (compreso il suo opposto) è la base per lo sviluppo di un andamento solenne del discorso, ma di una maestosità diminuita, con richiami poematici classici – quasi un’epica di “basso livello” -, mentre l’impostazione sistematica pare richiamare un’esigenza di percezione “cartesiana”, all’interno dei cui assi pare muoversi uno scibile caratterizzato da ulteriori ambivalenze. Se, da un lato, la pulizia del dettato, la sua cadenza meccanica manifesta una potenzialità descrittiva, in termini di accumulazione, che rende possibile l’archiviazione in una gabbia formale, dall’altro, l’impossibilità di esprimere la “totalità” rompe le sicurezze del modello e si formano incrinature nel flusso, fino a cadere letteralmente nell’inespresso perché inesprimibile. Ma occorre riportare un esempio:

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01. come le ore di lavoro, l’interstizio lunghissimo, laminare, in cui ti inoltri tra masse di giorni perduti, di giorni a venire, di quel che resta di scenari probabili che ti vedevano felice, scartati a seguito di un particolare secondario, di una ricaduta marginale di eventi a più larga scala, della crisi finanziaria, della governance del territorio, in cui sei implicato insieme a migliaia di altre persone secondo sistemi complessi di casualità, approssimazione, eterogenesi dei fini, e che ti hanno raggiunto, e spinto nell’angolo in cui sei, ossessionato da ciò che capita, dalla macchina del presente, dalla sua estensione chilometrica, tridimensionale, apocalittica

02. come il fatalismo all’uscita dell’ufficio, le vaste prospettive di quei primi minuti

03. come il sole, le ombre precise che disegna sulle facciate degli stabili, delle villette, la limpidezza peculiare degli orizzonti suburbani che attendono l’arrivo di astronavi aliene, lunghe e vaste come cumulonembi, le cui forme segneranno il termine di ogni ordine, di ogni parsimonia nei desideri, nella consumazione dei propri giorni, in cui si avvicendano casi successivi, casi ragionevoli, che ti conducono in angoli della casa dove scopri alcune briciole, una macchia, le tracce di una tua vita passata, fantomatica in cui

(pp. 49-50).

Ad apparire è un quadro preciso pur nella propulsione dileguante nel flusso, in cui si perde (o si maschera?) il soggetto. Dall’archivio visivo e poi mnesico – per lo più la visuale è minima, concentrata sul particolare minuzioso che si espande al contesto e ritorna su se stesso, anche se l’ordigno ciclico, barocco o “illusivo”, è interrotto dal taglio secco della chiusa: «casi successivi, casi ragionevoli, che ti conducono in angoli della casa dove scopri alcune briciole, una macchia, le tracce di una tua vita passata, fantomatica in cui». Eppure, l’osservazione da “scientifica”, in direzione “cartesiana”, perde la sua risolutezza e si fa più attenta alle sfumature, alle ombre proiettate da un soggetto che sembra perdere la sua capacità di contenitore obiettivo.
All’inizio parlavo di intercapedini di contatto. Ecco, verso la fine di Senza paragone questi minimi intervalli, per cui il mondo poteva farsi luce nel dispositivo, si allargano in crepe e «si aprono dall’occhio», rendendo intuibile (e infatti Quando arrivarono gli alieni sembra confermarlo, con prestanza allegorica e affabulatoria) la presenza sempre più assidua di un’esteriorità finora tenuta a distanza.
Forse il linguaggio di Bortolotti non aveva ancora trovato la sua capacità di incontrare il mondo con la sua forza dirompente, ma Senza paragone sta proprio a manifestare la possibilità di una fuoriuscita da coordinate rassicuranti:

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01. come l’estensione del cielo nelle ore del giorno, i diversi toni di azzurro in cui la profondità si estingue, la distanza luminosa dell’orizzonte, dei quartieri periferici, delle aree industriali suburbane, oltre cui la pianura si inoltra in regioni di lontananze, bassa densità di popolazione, politiche razziste

02. affine agli anni della giovinezza, alla loro poca ricchezza lasciata alle spalle, in termini di esperienza, gioia, senso delle cose di cui

03. simile a un altro, di questi

04. diverso dalle foglie che marciscono nel parco, dall’erbaccia che spunta accanto alle ringhiere, ai cancelli, dalle giornate che ti sprofondano nell’autunno e nella normalità dell’estinzione, nella successione disillusa delle serie televisive

05. come le cose che hai finito di fare, le giornate trascorse di cui in parte possiedi i frangenti, le scene quasi sospette di salotti in penombra, di corridoi, di cucine in cui la frazione di un senso ti è apparso, mentre ti iniziavi alla sera, mentre pulivi le briciole della cena finita, i minimi resti di insalate, sugo, fette di pane, che cancellavi con lo straccio sotto la lampada accesa ed un pensiero di come sarebbe, se tutto di colpo finisse, se la sottile tensione superficiale di ciò che è in corso, di ciò che è vero, cedesse alle pressioni delle possibilità scartate, degli errori, degli impliciti paragoni con cui siamo arrivati al presente, alla soglia delle altre cose a venire, al cospetto dei nostri mobili, dei nostri cari, anch’essi inoltrati, come radici, fino a questo livello del mondo corrente, della farraginosa materia dell’ignoto reale, diretti ancora più a fondo, consumando il passato, le opinioni, l’eterogenesi dei fini, il significato sbagliato di ciò che è avvenuto e trovando, di colpo, abbassando lo sguardo, le tracce del tempo passato, degli anni lasciati alle spalle, nelle pieghe di un dito, nelle crepe del muro, nelle rughe raggiate come antichi sistemi di canali che, allo specchio, si aprono dall’occhio, verso la tempia, verso lo scorcio della nuca e tutto quello spazio, che non puoi vedere, perché lo copri

(pp. 59-60)

Gianluca D’Andrea
(Giugno 2017)

LETTURE di Gianluca D’Andrea (42): NESSUNO VEDE PIÙ

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Edoardo Sanguineti

di Gianluca D’Andrea

«godere di diventare un rifiuto che nessuno vede più».

(Pierre Zaoui, L’arte di scomparire – Vivere con discrezione, 2015, p. 25)

La questione della scomparsa preme come quella di una presenza pudica nel testo. Scomparsa da ogni potenziale centralismo del soggetto, dalle dinamiche di micro-potere, e illusione di tale potere, insite nelle strategie “social”. Viene da pensare all’illusione rivoluzionaria sottintesa alle avanguardie e alle neoavanguardie: nello specifico, in una bella intervista a cura di Massimo Gezzi di qualche anno fa («A me della poesia m’importa pochissimo». Incontro con Edoardo Sanguineti, in «Atelier», VIII, 32, dicembre 2003, ora anche in M. Gezzi, Tra le pagine e il mondo – Dieci anni di incontri, dialoghi, letture, Italic, Ancona, 2015, p. 50), Edoardo Sanguineti affermava: «occorre essere epicurei e stoici al tempo stesso. Epicurei perché è doveroso godere la vita al massimo possibile; stoici perché di fronte alle difficoltà che si incontrano nell’affermare la propria idea, e che possono incidere indipendentemente da tutto, occorre un atteggiamento coraggioso: me ne frego!», cercando di confermare, in tal modo, una sorta di indipendenza dal proprio sé storico e, si diceva più indietro nella stessa intervista, dalla «fragilità dell’io», attraverso la sua denuncia.
Tutto questo fingere assenza e disinteresse ottiene il risultato opposto che conferma l’io, lo afferma con più decisione proprio quando ne segnala la scomparsa (a questo punto la pseudo-scomparsa).
In uno splendido saggio di Pierre Zaoui del 2013 (tradotto da Alice Guareschi per Il Saggiatore e uscito in Italia nel 2015) si parla della discrezione e della scomparsa nell’epoca (la nostra) dell’immagine e della presenza a tutti i costi e possiamo leggere: «quando non sopportiamo più […] il gran baccano economico, politico, mediatico che inquina il nostro quotidiano, tendiamo a rivolgerci alle morali greche. […] Da un lato, la saggezza epicurea […] dall’altro, troviamo la saggezza stoica. […] Queste due forme di ritiro dallo sguardo dell’altro […] sono, tuttavia, il dritto e il rovescio di una stessa morale, che ha ben poco a vedere con […] la discrezione. […] Sia l’uno sia l’altro si ritirano lontano dallo sguardo altrui pieni di sé. […] Mentre la discrezione è esperienza del godimento paradossale del ritirarsi, del farsi invisibili, dello scomparire momentaneamente per abbandonarsi all’apparizione dell’altro, dello smettere per un attimo di essere se stessi, sia l’epicureismo sia lo stoicismo non promettono che una più elevata e più piena presenza a se stessi. Non sono filosofie della scomparsa di sé, ma dell’apparizione superiore» (P. Zaoui, L’arte della scomparsa – Vivere con discrezione, Il Saggiatore, Milano, 2015, pp. 45-47).
In altre parole, l’assoluta trasparenza invece di manifestare la verità, espone l’individuo nella sua presunta, e direi violenta, superiorità. La diversità non è presa in considerazione, perché non è accettata la marginalità del soggetto, al suo posto è proposto un Narciso già rovesciato nella sua immagine postuma: l’anti-soggetto che espone la sua fragilità come una forza. Come un alibi, questa fragilità agisce nell’estrema volontà di apparizione e produce dinamiche di vittimismo: la storia del progresso nel protagonismo della vittima – o la dittatura del proletariato che si risolve nell’autarchia o in un’autosufficienza presupposta. Ma in un mondo orfano di riferimenti è forse il momento di rilevare la nostra posteriorità nella fine di qualunque autorità, senza fingere un’autorevolezza esposta dalle gabbie della “socialità” virtuale.
L’attivazione di una scomparsa che gratifichi la “vacanza” in funzione dell’accoglienza del mondo, dovrebbe portare a rinunciare alla “trasparenza” ideologica del soggetto, ma non a dimenticare la chiarezza e la lucidità dovuti al racconto della nostra marginalità, per non correre il rischio che il mistero, connaturato alla fuoriuscita da una socialità imposta, non diventi linguaggio per iniziati.
Infine, rivalutando Sanguineti, non abbiamo bisogno che la comunicazione si richiuda in paradigmi estetizzanti, bensì si trasformi in un racconto senza infingimenti o conseguenti protagonismi. Un linguaggio che resti equidistante da ermetismi o avanguardismi di sorta, e che sia consapevole della sua fragilità (e possibile fallacia), nella potenziale scomparsa che fonda lo spazio dell’altro, del sopravveniente.

Zest Letteratura Sostenibile: Intervista a Gianluca D’Andrea – Sulla Poesia

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Gianluca D’Andrea (Foto di Dino Ignani)

Si è tentato più volte anche da queste pagine di fornire una definizione di Poesia, qual è la sua?

Dare una definizione di poesia mi è impossibile. Per provare a rispondere, partirei piuttosto dall’opposto di una definizione, da uno sconfinamento. In un’intervista di qualche mese fa provavo a riflettere sulla consistenza di “traccia” del segno poetico e sull’irrimediabile arbitrarietà che ne caratterizza il limite più evidente. Ecco, ora aggiungerei che il rischio di arbitrarietà è il giusto contrappeso di una forza d’animazione del reale che la poesia rende attiva attraverso la parola, la sua disposizione nel mondo. Lo sconfinamento, cui facevo riferimento, penso faccia i conti con un esubero di senso che la poesia a volte contiene e, altre volte, trasforma in un più scabro lasciare spazio: al reale, al mondo, all’altro. Secondo un adagio, che estrapolo da un verso di Wallace Stevens, «la sua mera selvaggia presenza anima il mondo che abita», ecco la poesia anima il mondo del linguaggio (quello che “abita”, appunto), di un linguaggio che sta, però, al margine del mondo, non nell’appariscenza della comunicazione informativa, bensì in quell’intercapedine tra il rumore e il silenzio, sempre sul bordo del fallimento. In un recente saggio, uscito per Sellerio lo scorso aprile, Ben Lerner scrive: «La poesia è sempre la testimonianza di un fallimento», io non credo che essa sia sempre una tale testimonianza, però ritengo cha abbia il compito di comprendere l’evenienza del fallimento, se così non fosse, non risponderebbe a un altro dei suoi compiti, forse il principale, quello della veridicità e della sua, appunto, fallibilità.

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Guido Mazzoni: una poesia da “I mondi” (Donzelli, 2010) – Nuove Postille ai testi

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Guido Mazzoni (Foto: Dino Ignani)

di Gianluca D’Andrea

Guido Mazzoni: una poesia da I mondi (2010)

i mondi
Elephant and Castle

Gli stormi scossi quando il treno
esce dalla terra, il cielo nero
oltre gli sciami dei segnali e il vento
che nasce tra i binari e si disperde
tra i capannoni, le serre abbandonate, le colonne
dei camion nella nube, l’erba medica
ai lati della strada, nel colore
che copre la città mentre le luci
dei lampioni colpiscono le nuvole –

e la calma di quando si comprende
che la vita esiste e non significa,
mentre il vagone ridiscende e il vostro
volto riflesso scompare dalla plastica
dove le dita muovono la brina.

Essere questo, nella prima
onda del ritorno, un vuoto liquido
sopra la rete delle strade, un giorno
che ripete se stesso;
quando si impara a vivere il presente
senza pensare di non appartenergli, e la grande
periferia da attraversare è il mondo vero,
il proprio posto nel campo delle forze.


Postilla:

Il posto vuoto della presenza e la perpetua tensione tra l’essere e il nulla. Tutta la raccolta, d’altronde, vive nel “vuoto” di un io destituito dal ruolo centrale di osservatore privilegiato, anzi, la sua stessa presenza è in bilico e il «campo di forze» del mondo (dei mondi-monadi) flette verso una marginalità definitiva. Ma in apparenza, perché, sotto le maglie geometriche di un dettato nitido fino all’oppressione, si muovono barlumi di relazione: «quando si comprende / che la vita esiste», anche se poi «non significa», così il «volto riflesso scompare» ma «dalla plastica / dove le dita muovono la brina», per cui le azioni sembrano perpetuarsi nel loro andirivieni continuo tra morte e vita, assenza e presenza. Il piccolo miracolo compositivo (ma tutta l’operazione de I mondi è riconoscibile per questa coerenza stilistica) risiede nell’atmosfera tensiva che crea una relazione scostante col lettore, in una comunione distanziante: una visione in continua mutazione e ripetitiva al tempo stesso, una percezione eraclitea bloccata in una gabbia formale compita, per cui il nostro essere occidentali, borghesi, ecc. (la gabbia), è, nonostante tutto, in transito (la trasformazione esistenziale) insieme ad altre vite, anche se non sempre percepibili, anche se il soggetto deve riconoscere di essere parte di un tutto in fuga, prendendo atto dell’ingiustizia di questa fuga e, quindi, della propria stessa ingiustizia.
Osservando da vicino il testo, a colpire è la prospettiva per accumulo della prima strofa, col compito, si capisce da quanto detto finora, di mostrare una percezione attiva e vigile, quasi un’adolescenziale prestanza sensoria, in contrasto con la calma rappresa di una coscienza in negativo (il nostro essere postumi in definitiva, già immessi in un’autoconsapevolezza che stride con l’esigenza di trovare il nostro posto nel mondo e lo slancio o l’entusiasmo per realizzarlo). Manifestazioni formali – asindeti e polisindeti in un fluire di inarcature per captare le visioni veloci (siamo dentro un treno metropolitano di una capitale europea) – che dalla prima ci conducono alla seconda strofa, in cui si aggiunge, alla visione, l’auto-percezione del soggetto nel contesto, il suo legame frammentario e sfuggente con l’altro, stabilito attraverso una serie persistente di rime e assonanze, soprattutto interne (la tessitura del componimento è fatta di tutti questi rimandi fonici, sarebbe pletorico estrapolarne lacerti, che trasmettono un contatto, una sorta di abbraccio sonoro). Questa perizia musicale atta a consolidare ritmicamente i passi di una presenza che prova a formarsi, riconoscersi o ri-formarsi nel mutamento, ha richiami novecenteschi – viene da pensare a un Montale sintetizzato e sintetico, in cui l’alto tasso di lirismo e perizia fonica della prima fase pare istallarsi sulla secca conformazione diaristica dell’ultima, con il risultato inedito della presenza, comunque lirica, di un soggetto percettivo e allo stesso tempo disincantato.
Nell’ultima strofa, infine, si rileva un rischio, quello di una competenza concettuale in esubero e che scoperchia un certo compiacimento definitorio: «Essere questo, nella prima / onda del ritorno, un vuoto liquido / sopra la rete delle strade, un giorno / che ripete se stesso», nel desiderio, un po’ ingenuo ma non per questo innecessario, di comporre una nuova direzione, un senso, per trovare «il proprio posto» nel «mondo vero».

Il Novecento: Stefano D’Arrigo – 3 poesie

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Stefano D’Arrigo, 1988 – Ferdinando Scianna – Magnum Photos

Stefano D’Arrigo – 3 poesie

(tratte da Codice siciliano, Scheiwiller 1957, e poi, ampliato, Mondadori 1978, infine Mesogea 2015)

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PREGRECA

Gli altri migravano: per mari
celesti, supini, su navi solari
migravano nella eternità.
I siciliani emigravano invece.
Alle marine, nel fragore illune
delle onde, per nuvole e dune
a spirale di pallide ceneri
di vulcani, alla radice del sale,
discesi dall’alto al basso
mondo, figurati sul piede
dell’imbarco come per simbolo
della meridionale specie,
spatriavano, il passo di pece
avanzato a più nere sponde,
al tenebroso, oceanico
oltremare, al loro antico
avverso futuro di vivi.

Isola, sole e luna e moventi
mortali, misteriosi paradigmi
di sfingi, puma, leoni ruggenti
con faccia d’uomo, profilo d’enigmi
rugosi sotto palpebre di belva,
appostati in una oscura parola,
nella loro stessa ombra, in una selva
colore di funebre lava viola.

. . . . .

da Lipari, Milazzo, Caucana,
dal Conzo, dalla Favignana,
dalle miniere di Monte Tabuto
(le gallerie di selci come greti
di fiumi discesi insino
all’aldilà, navigati sepolcreti),
da Monte Pellegrino, nelle grotte
dove qualcuno chiese aiuto
nella profonda notte,
da Levanzo, da Stentinello,
da Megara Hyblea, da Paceco,
da Naxos, per ogni budello
d’arenaria dove la vita un’eco
lasciò fuggendo, una bava
di lumaca sull’ocra, sulla lava,
una frana di formica, un cieco
verso d’uccello, un’impronta digitale
sopra un vaso a spirale,
lo stampo della vita
rigato da un polpastrello,
un grido, un graffio: quello e quello

. . . . .

cacciati di qua, dai ruggenti
enigmi, gli innocenti,
coi perduti averi, le vite,
le labbra per sempre cucite,
emigravano nell’aldilà.

S’imbarcavano per quelle rive
in classe unica, ammucchiati
o clandestini nelle stive
di necropoli come navi olearie.
All’impiedi nelle giare, rannicchiati
sui talloni, masticando qualcosa
nella notte, forse tossico
(quali pensieri? quali memorie?)
nella tenace, paziente posa
dal cafone resa famosa

. . . . .

e realtà e allegoria di gesta
future, d’offese senza difesa,
d’uomo che a uomo fa vita arresa,
le mani dietro la testa,
allacciate alla nuca,
alle spalle scavata la buca.

Navigavano nell’argilla,
nel soffice tufo, nelle pieghe
della pomice, coprendosi di rughe
a emigrare stilla a stilla
fra la polvere e le atre schiume
delle necropoli occhiute
esposte ai lidi, battute
da echi grigi, lontani,
di salsedine e cenere insieme,
di gridi rochi di gabbiani.

Per l’altomare di pietre
senza stelle, fra stasi
e procelle di silenzio, anelito
a non svanire nel nulla, a essere
seguiti, ritrovati poi
in una scintilla da me, da voi,
si lasciavano dietro, quasi
soffiati dall’alito
nel vetro dei vulcani,
segni incisi, saluti
siciliani, gesti muti:
il dito sulle labbra, le ciglia
alzate, il silenzio indomito
di chi vive come in una conchiglia,
vivo e già morto e graffito.

Oh disegni dell’aurora, quali
sogni di libertà detti
in gergo di congiurati
rei confessi vi furono allusi,
quali pegni inespressi, stretti
da mani di vivi con occhi
di morti come nodi al fazzoletto,
con la fatalità di chi
emigra e si riposa vinto
nella posa del feto,
i pugni chiusi sugli occhi,
i ginocchi contro il petto
come in ventre al mistero, in un segreto
barlume di labirinto.

Oh alfabeto di morti
emigranti, oh linguaggio di dita
figurato di morte e di vita,
chi sotto metafora impresse
un così lucente raggio
al suo scheletro, chi riflesse
dal vetro un messaggio
di libertà che a noi viene, da noi va
ieri, domani, aldiquà, aldilà?

Con linea esile, d’aria dura,
grafia labile, esotica
libertà qui si figura
cerbiatta malinconica
che tremula, esterrefatta
corre l’alea ma intatta
metafora vola dall’aldilà,
libertà sempre in fuga, intravista
sulla immemore pista
dei morti, così ignota
da arrossirgli ancora la gota

libertà un palpito a prua delle barche
trasmigranti come arche
nel sale cha asciuga le impronte
di chi muore ed emigra
con una ruga in fronte

antico ardire, inerme bramosia
libertà sia di vivere sia
di morire, oscuro geroglifico
dall’eco dileguata di segreti
murmuri immensi di alfabeti.

Gli altri migravano su chimere,
per mari d’aria e remare d’anime,
con dolce tuono di procellarie.
I siciliani emigravano invece
su navi scalfite su patere
(alito di venti e vele di rame),
in pietrapomice e arenarie,
in tufo di calcare e salgemma,
calati in stive di pece,
i pensieri spiumati di mimosa:
in giare e nicchie, ritti
o chini sui talloni, nella posa
dei cafoni, nel loro stemma
di senzaterra, di sconfitti

carne da macello, qui o là,
in Australia, nell’aldilà,
oltremare, dovunque sia
una miniera, un qualsiasi
budello per seppellire
l’enigmatica frenesia
di chi per morte s’imbarca
come su di un’arca
di libertà, coi bisogni
stretti alla vita e i sogni
zavorra viavia
da gettare e alleggerire
i petti di nostalgia
mentre diventavano scheletri
e le armi al piede, i vetri
di ossidiana segnavano,
buia e struggente
meridiana di paure,
l’emigrare e le sue figure.

Forse non era l’aldilà
tutta questa gran novità,
forse pure di camorra,
di enigmi e d’omertà
era regno l’aldilà,
forse pure sottoterra
sfingi, puma, leoni ruggenti
mantenevano la guerra.
Anche di là gli innocenti
emigrarono, strage su strage,
dal calcare di Pantalica
in America, nel Borinage.

*

IN UNA LINGUA CHE NON SO PIÙ DIRE

Nessuno più mi chiama in una lingua
che mia madre fa bionda, azzurra e sveva,
dal Nord al seguito di Federico,
o ai miei occhi nera e appassita in pugno
come oliva che è reliquia e ruga.

O in una lingua dove avanza, oscilla
col suo passo di danza che si cuoce
al fuoco della gioventù per sfida,
sposata a forma d’anfora, a quartara.

O in una lingua che alla pece affida
l’orma sua, l’inoltra a sera nell’estate,
in un basso alitare la decanta:
è movenza d’Aragona e Castiglia,
sillaba è cannadindia, stormire.

O in una lingua che le pone in capo
una corona, un cercine di piume,
un nido di pensieri in cima in cima.

O in quella lingua che la mormora
sul fiume ventilato di papiri,
su una foglia o sul palmo della mano.

O in una lingua che risale in sonno
coi primi venti precoci d’Africa,
che nel suo cuore albeggia, in sabbia e sale,
nel verso tenebroso della quaglia.

O in una lingua che non so più dire.

*

DOVE GALLEGGIANO SQUAME

suvvìa, qua vieni,
ferma la nave e il nostro canto ascolta.

Odissea, XII

In quale scuola fatata d’aprile
ci si chiede il colore, il colorito
delle gote e del crine, ci si chiede
se ha pensieri e quali amori il tonno,
il pescespada, il delfino, se a sera
la sirena nel suo sonno annusano.

Dove sono quei dolci flauti in gola,
quel gorgheggiare a colpi di coda?
Dove sono quelle voci, quei rauchi
motivi alla moda, quell’implorare
per acuti, in solitudine e fede?
Dove galleggiano squame, su quale
spiaggia s’interrogano le scaglie,
il pettine, i capelli, quelle brame?

Ora inermi, umane, mortali
l’altomare veleggiano sui tacchi
in una camera, sole o a schiere,
fiutano alle imposte la salsedine
delle quaglie migrate a pelo d’acqua.

Ora esistono in una conchiglia
souvenir le tempeste, i maremoti
che nella pece lievitano estivi
dove sono eterne le schiume, quelle nevi,
sotto pennacchi di fumo, vulcani.

Ora dice un lunario i giorni, i mesi,
quando i venti di scirocco e grecale
spirano fatalità su terraferma
per eventi d’infamia e d’onore
mutano destino, pettinatura.

Ora si legge sul giornale quando
scendono oggi semidei in terra
recando sul solino la Polare,
sulle spalle quel blu dell’oltremare.
Allora bruciano navi alla fonda,
una guerra finita ricomincia
e di passaggi sullo Stretto, a vita,
rimane un fazzoletto fra le dita.

Ora remigano da boa a boa, quelle,
accennano con lunghe ciglia al mondo,
persino un uomo le tocca con mano.
Di quelle polene s’indora la prua,
della loro bocca udita in famiglia
catturata con sapore di sale.

Oggi si segnano ignote, sicure
stelle azzurre nei tatuaggi fedeli,
Venere fra le mammelle si additano.


Stefano D’Arrigo. Scrittore italiano (Alì 1919 – Roma 1992); a parte le poesie del Codice siciliano (1957; nuova ed. accresciuta, 1978 e 2015), è noto per il contrastato successo del monumentale romanzo Horcynus Orca (1975): un progetto ambiziosissimo, teso a riunire in un solo libro tutta la tradizione narrativa dell’Occidente, dalla Bibbia a Omero, al Decameron, ai poemi cavallereschi, per riscriverla e coglierne l’immutata vitalità simbolica e affabulatoria sull’orizzonte delle grandi innovazioni della narrativa del nostro secolo (almeno a J. Joyce, il rinvio è obbligatorio). La realizzazione risulta elaborata anche sul piano dell’invenzione linguistica. Più discutibile è invece la riuscita del romanzo successivo, Cima delle nobildonne (1985).

(Fonte: Treccani.it)

LETTURE di Gianluca D’Andrea (41): INDIZI DI PRESENZE

rime

Giorgio Celiberti, 1993-1995 Rime e ritmi. Affresco

di Gianluca D’Andrea

«acque pettegole del giudizio».

(László Krasznahorkai, Satantango, 2016, p. 92)

Maturazione del vecchio

Scivola l’acqua tagliando il cerchio in verticale
mentre il carteggio si perde gonfiandosi
e scoppiando come una parola d’amore
che tutti abbiamo falsato per sentirci,
abbandonarci a un finale e poi rinascere,
un po’ spostati all’esterno, più soli,
più vecchi.
Il formato della versione narrata si scansa
facilmente, basta parlarne per difendersi:
il vecchio è maturo per la sua morte
solitaria e la rinascita nel diverso più duro
che è quello dell’incoscienza o limite
di percezione. Per altri arriva improvvisa
e chiude.

(Gianluca D’Andrea, Inedito)

Non potendo più definire in senso stretto la poesia, sembra necessario sentire come le immagini di senso che tradizionalmente hanno caratterizzato il genere, restino produttive nella composizione del messaggio.
Il vecchio significante si ripresenta nella scelta soggettiva ed è riattivato per ricostituire un abbraccio sensoriale, una relazione col suo oggetto: il lettore come obiettivo?
L’ombra (o la luce abbagliante, che non ha funzione troppo diversa) in cui sfuma il soggetto, ne definisce l’identità. Così la poesia sembra restare un intrico di tracce che prova a rispondere a quella che Wallace Stevens definì come «immane accozzaglia di questo mondo». Non si tratta semplicemente di dare un ordine al caos – azione sfasata e reazionaria rispetto ai tempi e non solo – quanto piuttosto di restituire la complessità del mondo attraverso indizi di presenza. Se il mondo è delle immagini è perché la tensione a una semplificazione del linguaggio sottende una necessità di comunicazione complessa – “relazionale” – che l’ultimo trentennio almeno (anche se il percorso ha origini sicuramente più antiche e s’intreccia al concetto di omologazione) ha, invece, appiattito sulla mera informazione. Così la comunicazione per immagini sembra essere il segnale di un tentativo di riapertura, un nuovo codice di rappresentazione, con i rischi incombenti di una pseudo-presenza, o meglio, di una presenza auto-manipolata. Lo spettro di Narciso si aggira tra stanze sempre più solitarie e rimbalza tra gli schermi contagiando e, allo stesso tempo, provocando la necessità di una fuoriuscita. Indizi, si diceva, che la poesia, con la sua consistenza d’ombra concreta, può captare e riprodurre in funzione di una scaturigine relazionale, ripresentando la complessità del rapporto soggetto/mondo.

Gianluca D’Andrea – un inedito (per A. Kiefer)

exposition KIEFER RODIN au musee Rodin

Exposition Kiefer-Rodin

di Gianluca D’Andrea

Al signor K.: “non mi interessa l’art pour l’art

Mentre annotavo i miei pensieri e studiavo / i miei classici da comodino, / mi accorsi che una sorta di misticismo / può scaturire dalle fessure delle pareti, / intercapedini che non reggono e sbavano / dal silenzio la loro rovina. / E lo pensavo, perché le sue opere signor K. / stanno a dimostrarlo, mentre osservavo / la tela e la cadente genetica al Rodin. / Mi dicono anche che l’artista è immerso / nella creazione, penso a lei che scrive / ogni giorno una paginetta di diario, / per formare uno scartafaccio inconcluso, / una cenere d’opera o qualcosa che sembri / un’ombra, un abbozzo o una crosta. / Immerso in una creazione azzurra / e leggera e violenta, un abbraccio / screpolato che accoglie il demone / della fine o dell’impossibile partenza. / Il suo non fermarsi, signor K., non amare / la sosta, è forse quella voglia costante / d’illuminarsi ancora una volta? / Rinnovare l’atto di creazione per sempre / nell’intima tragedia del finire, / nell’esito barbarico di ogni transito. / Caro signor K., volevo solo dirle / che pensavo a lei mentre cadevo / nell’estraneità suprema e impenetrabile / di ogni atto umano.

Martino Baldi: una poesia da “Capitoli della commedia” (Edizioni Atelier, 2005) – Nuove Postille ai testi

baldi

Martino Baldi

di Gianluca D’Andrea

Martino Baldi: una poesia da Capitoli della commedia (2005)

capitoli
Scripta volant

Non le parole nude resteranno
ma il labirinto di rughe del tuo volto,
l’arrampicarsi degli occhi e delle mani
sullo specchio del tutto.
I tuoi pensieri non sono voce
ma corpo mio.
E non nella memoria vive qualcosa;
è nei sussulti dei sensi che rinasce
ciò che da sempre non sappiamo e siamo,
l’insegnamento involontario dei sospiri
le cicatrici riaperte a ogni notte.
Il resto è un cimitero di ricordi:
tombe bellissime.

Questo di te resta nell’eco.
Quando dicevi, senza dire, senza saperlo,
col tuo sistema unico di macerare
pagine intere, arricciolare gli angoli,
scegliere il luogo in cui riporre il libro:
«Strappa dalla parola quanto c’è d’umano.
Fanne pane. Di quanto ne rimane,
di quanto tace,
sangue».


Postilla:

La vicenda dell’assenza è riprodotta seguendo schemi classici che portano la parola fuori da se stessa. Rilevata la sua consistenza d’ombra («Non le parole nude resteranno»), la sua incapacità di aderenza a un reale che vive fuori, nel «labirinto di rughe», la parola della poesia perde contatto, si trasforma in «eco».
Un segnale evidente dello “strappo” io/mondo è la ricorrenza discorsiva, la capacità affabulatoria e bassa di un parlato che aspira alla prosa, la necessità di una poesia che tende a far perdere le sue tracce nella presenza fantasmatica di un reale che, però, resta irraggiungibile.
L’aspirazione ad afferrare il mondo, la sua dimensione più fisica e carnale, e la consapevolezza raggiunta che la parola non possa rispondere a questa necessità, conduce al silenzio (Capitoli della commedia è del 2005, da allora Baldi non ha più pubblicato) e alla “caduta” nel “sangue” del reale: «Strappa dalla parola quanto c’è d’umano. / Fanne pane. / Di quanto ne rimane, / di quanto tace, / sangue».