Mark Strand (11 aprile 1934 – 29 novembre 2014)

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Mark Strand – by Ezequiel Zaidenwerg ©

Mark Strand. Poeta, saggista, traduttore, era nato nel 1934 a Summerside, nella Prince Edward Island (Canada). È morto il 29 novembre 2014 a New York. Ha ricevuto numerosi premi tra cui il Pulitzer per la raccolta di poesie Blizzard of One.

Poesia

1964: Sleeping with One Eye Open, Stone Wall Press.
1968: Reasons for Moving: Poems, Atheneum.
1970: Darker: Poems, including “The New Poetry Handbook”, Atheneum.
1973: The Story of Our Lives, Atheneum.
1973: The Sargentville Notebook, Burning Deck.
1978: Elegy for My Father, Windhover.
1978: The Late Hour, Atheneum.
1980: Selected Poems, including “Keeping Things Whole”, Atheneum.
1990: The Continuous Life, Knopf.
1990: New Poems.
1991: The Monument, Ecco Press (see also The Monument, 1978, prose).
1993: Dark Harbor: A Poem, long poem divided into 55 sections, Knopf.
1998: Blizzard of One: Poems, Knopf.
1999: Chicken, Shadow, Moon & More, Turtle Point Press.
1999: “89 Clouds” a single poem, monotypes by Wendy Mark and introduction by Thomas Hoving, ACA Galleries (New York).
2006: Man and Camel, Knopf.
2007: New Selected Poems.
2012: Almost Invisible, Random House.

2 poesie

What it was

from “Blizzard of one”

I

It was impossible to imagine, impossible
Not to imagine; the blueness of it, the shadow it cast,
Falling downward, filling the dark with the chill of itself,
The cold of it falling out of itself, out of whatever idea
Of itself it described as it fell; a something, a smallness,
A dot, a speck, a speck within a speck, an endless depth
Of smallness; a song, but less than a song, something drowning
Into itself, something going, a flood of sound, but less
Than a sound; the last of it, the blank of it,
The tender small blank of it filling its echo, and falling,
And rising unnoticed, and falling again, and always thus,
And always because, and only because, once having been, it was…

II

It was the beginning of a chair;
It was the gray couch; it was the walls,
The garden, the gravel road; it was the way
The ruined moonlight fell across her hair.
It was that, and it was more. It was the wind that tore
At the trees; it was the fuss and clutter of clouds, the shore
Littered with stars. It was the hour which seemed to say
That if you knew what time it really was, you would not
Ask for anything again. It was that. It was certainly that.
It was also what never happened – a moment so full
That when it went, as it had to, no grief was large enough
To contain it. It was the room that appeared unchanged
After so many years. It was that. It was the hat
She’d forgotten to take, the pen she left on the table.
It was the sun on my hand. It was the sun’s heat. It was the way
I sat, the way I waited for hours, for days. It was that. Just that.


Cos’era

da “Blizzard of one”

I

Era impossibile da immaginare, impossibile
da non immaginare; la sua azzurrezza, l’ombra che lasciava,
che cadeva, riempiva l’oscurità del proprio freddo,
il suo freddo che cadeva fuori da se stesso, fuori da qualsiasi idea
di sé descrivesse nel cadere; un qualcosa, una minuzia,
una macchia, un punto, un punto in un punto, un abisso infinito
di minuzia; una canzone, ma meno di una canzone, qualcosa che
affoga in sé, qualcosa che va, un’alluvione di suono, ma meno
di un suono; la sua fine, il suo vuoto,
il suo tenero, piccolo vuoto che colma la sua eco, e cade,
e si alza, inavvertito, e cade ancora, e così sempre,
e sempre perché, e solo perché, essendo stato, era…

II

Era l’inizio di una sedia;
era il divano grigio; era i muri,
il giardino, la strada di ghiaia; era il modo in cui
i ruderi di luna le crollavano sulla chioma.
Era quello, ed era altro ancora; era il vento che azzannava
gli alberi; era la congerie confusa di nubi, la bava
di stelle sulla riva. Era l’ora che pareva dire
che se sapevi in che punto esatto del tempo si era, non avresti
mai più chiesto nulla. Era quello. Senz’altro era quello.
Era anche l’evento mai avvenuto – un momento tanto pieno
che quando se ne andò, come doveva, nessun dolore riusciva
a contenerlo. Era la stanza che pareva la stessa
dopo tanti anni. Era quello. Era il cappello
dimenticato da lei, la penna che lei lasciò sul tavolo.
Era il sole sulla mia mano. Era il caldo del sole. Era come
sedevo, come attendevo per ore, per giorni. Era quello. Solo quello.

(da Mark Strand: Blizzard of One, traduzione di Damiano Abeni).

*

My name

Once when the lawn was a golden green
and the marbled moonlit trees rose like fresh memorials
in the scented air, and the whole countryside pulsed
with the chirr and murmur of insects, I lay in the grass,
feeling the great distances open above me, and wondered
what I would become and where I would find myself,
and though I barely existed, I felt for an instant
that the vast star-clustered sky was mine, and I heard
my name as if for the first time, heard it the way
one hears the wind or the rain, but faint and far off
as though it belonged not to me but to the silence
from which it had come and to which it would go.


Il mio nome

Una sera che il prato era verde oro e gli alberi,
marmo venato alla luna, si ergevano come nuovi mausolei
di strida e brusii di insetti, io stavo sdraiato sull’erba,
ad ascoltare le immense distanze aprirsi su di me, e mi chiedevo
cosa sarei diventato e dove mi sarei trovato,
e quanto a malapena esistessi, per un attimo sentii
che il cielo vasto e affollato di stelle era mio, e udii
il mio nome come per la prima volta, lo udii
come si sente il vento o la pioggia, ma flebile e distante
come se appartenesse non a me ma al silenzio
dal quale era venuto e al quale sarebbe tornato.

(da Mark Strand: L’uomo che cammina un passo avanti al buio – Poesie 1964-2006, Mondadori, 2011, traduzione di Damiano Abeni).

Franco Fortini: un omaggio

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Franco Fortini nelle officine Olivetti

Il 28 novembre 1994 moriva Franco Fortini: un omaggio al grande intellettuale e poeta fiorentino con una piccola scelta di testi. Buona lettura.
(Gianluca D’Andrea)


Franco Fortini – Poesie

Da: Foglio di via e altri versi (1946)

Foglio di via

Dunque nulla di nuovo da questa altezza
Dove ancora un poco senza guardare si parla
E nei capelli il vento cala la sera.

Dunque nessun cammino per discendere
Se non questo del nord dove il sole non tocca
E sono d’acqua i rami degli alberi.

Dunque fra poco senza parole la bocca.
E questa sera saremo in fondo alla valle
Dove le feste han spento tutte le lampade.

Dove una folla tace e gli amici non riconoscono.

*

La rosa sepolta

Dove ricercheremo noi le corone di fiori
Le musiche dei violini e le fiaccole delle sere

Dove saranno gli ori delle pupille
Le tenebre, le voci – quando traverso il pianto

Discenderanno i cavalieri di grigi mantelli
Sui prati senza colore, accennando. E di noi

Dietro quel trotto senza suono per le valli
D’esilio irrevocabili, seguiranno le immagini.

Ma il più distrutto destino è libertà.
Odora eterna la rosa sepolta.

Dove splendeva la nostra fedele letizia
Altri ritroverà le corone di fiori.

Da: Poesia e errore (1959)

Arte poetica

Tu occhi di carta tu labbra di creta
tu dalla prima saliva malfatto
anima di strazio e ridicolo
di allori finti e gestri

tu di allarmi e rossori
tu di debole cervello
ladro di parole cieche
uomo da dimenticare

dichiara che il canto vero
è oltre il tuo sonno fondo
e i vertici bianchi del mondo
per altre pupille avvenire.

Scrivi che i veri uomini amici
parlano oltre i tuoi giorni che presto
saranno disfatti. E già li attendi. E questo
solo ancora è il tuo onore.

E voi parole mio odio e ribrezzo,
se non vi so liberare
tra le mie mani ancora
non vi spezzate.

*

Quando tra sassi

Quando tra sassi e cardi di un altopiano
sotto la moltitudine delle nuvole lente
tra cento e più anni un uomo vada modesto e sovrano
di noi chiedendo ai colpi del sangue e del vento,

se lo avranno disposto conoscenza o amore
alla pietà o alla intelligenza,
come genî cortesi e senza dolore
vedrà i nostri visi nell’aria della coscienza.

Delle grida degli arsi e dei traditi,
delle vite dirotte come lampi,
della nostra vergogna, dei mai finiti
interrotti pensieri, degli straziati tempi,

udrà voci umili d’erbe e di chiari
cumuli voli, né saprà, nella sera, se ascolta
sibilo d’avvenire o l’addio alto
di un suo passato incerto e caro.

Da: Una volta per sempre (1963)

Traducendo Brecht

Un grande temporale
per tutto il pomeriggio si è attorcigliato
sui tetti prima di rompere in lampi, acqua.
Fissavo versi di cemento e di vetro
dov’erano grida e piaghe murate e membra
anche di me, cui sopravvivo. Con cautela, guardando
ora i tegoli battagliati ora la pagina secca,
ascoltavo morire
la parola d’un poeta o mutarsi
in altra, non per noi più, voce. Gli oppressi
sono oppressi e tranquilli, gli oppressori tranquilli
parlano nei telefoni, l’odio è cortese, io stesso
credo di non sapere più di chi è la colpa.

Scrivi mi dico, odia
chi con dolcezza guida al niente
gli uomini e le donne che con te si accompagnano
e credono di non sapere. Fra quelli dei nemici
scrivi anche il tuo nome. Il temporale
è sparito con enfasi. La natura
per imitare le battaglie è troppo debole. La poesia
non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi.

*

Le radici

Ormai dopo quest’ora non verrà nessuno.
Così siamo ancora soli, amore,
e per questo riposo vedi

nell’esistere unico, nel limite
che la tua mano ha dell’aria
come la rosa nella sera dell’orto,

quanto ci punge, quanto si disegna
vera e a sé giunge chiara
la storia tremenda ma degna di noi

che il mondo è stato. Ora in fondo alla terra
si nasconde l’acqua tenera
che versi alle piante innocenti.

Da: Questo muro (1973)

Il presente

Guardo le acque e le canne
di un braccio di fiume e il sole
dentro l’acqua.

Guardavo, ero ma sono.
La melma si asciuga fra le radici.
Il mio verbo è al presente.
Questo mondo residuo d’incendi
vuole esistere.
Insetti tendono
trappole lunghe millenni.
Le effimere sfumano. Si sfanno
impresse nel dolce vento d’Arcadia.
Attraversa il fiume una barca.
E’ un servo del vescovo Baudo.
Va tra la paglia d’una capanna
sfogliata sotto molte lune.
Detto la mia legge ironica
alle foglie che ronzano, al trasvolo
nervoso del drago-cervo.
Confido alle canne false eterne
la grande strategia da Yenan allo Hopei.
Seguo il segno che una mano armata incide
sulla scorza del pino
e prepara il fuoco dell’ambra dove starò visibile.

*

Gli alberi

Gli alberi sembrano identici
che vedo dalla finestra.
Ma non è vero. Uno grandissimo
si spezzò e ora non ricordiamo
più che grande parete verde era.
Altri hanno un male.
La terra non respira abbastanza.
Le siepi fanno appena in tempo
a metter fuori foglie nuove
che agosto le strozza di polvere
e ottobre di fumo.
La storia del giardino e della città
non interessa. Non abbiamo tempo
per disegnare le foglie e gli insetti
o sedere alla luce candida
lunghe ore a lavorare.
Gli alberi sembrano identici,
la specie pare fedele.
E sono invece portati via
molto lontano. Nemmeno un grido,
nemmeno un sibilo ne arriva.
Non è il caso di disperarsene,
figlia mia, ma di saperlo
mentre insieme guardiamo gli alberi
e tu impari chi è tuo padre.

Da: Paesaggio con serpente (1984)

I lampi della magnolia

Vorrei che i vostri occhi potessero vedere
questo cielo sereno che si è aperto,
la calma delle tegole, la dedizione
del rivo d’acqua che si scalda.

La parola è questa: esiste la primavera,
la perfezione congiunta all’imperfetto.
Il fianco della barca asciutta beve
l’olio della vernice, il ragno trotta.

Diremo più tardi quello che deve essere detto.
Per ora guardate la bella curva dell’oleandro,
i lampi della magnolia.

*

Molto chiare…

Molto chiare si vedono le cose.
Puoi contare ogni foglia dei platani.
Lungo il parco di settembre
l’autobus già ne porta via qualcuna.
Ad uno ad uno tornano gli ultimi mesi,
il lavoro imperfetto e l’ansia,
le mattine, le attese e le piogge.

Lo sguardo è là ma non vede una storia
di sé o di altri. Non sa più chi sia
l’ostinato che a notte annera carte
coi segni di una lingua non più sua
e replica il suo errore.
È niente? È qualche cosa?
Una riposta a queste domande è dovuta.
La forza di luglio era grande.
Quando è passata, è passata l’estate.
Però l’estate non è tutto.

Da: L’ospite ingrato (1985)

Out of print

Non difenderti più.

Ma più tardi, più tardi
– quando staranno fissi
fra satin e giunchiglie

ma molto, molto tempo dopo
– quando saremo tutti out of print

certe parole
che una volta avevo curate
perché quasi certo di avere ragione

sarà molto bello vederle volare
dove il vento le vuole lavorare
come quel fumo bianco sparito il jet.

*

Sonetto dei sette cinesi

Una volta il poeta di Augsburg ebbe a dire
che alla parete della stanza aveva appeso
l’Uomo del Dubbio, una stampa cinese.
L’immagine chiedeva: come agire?

Ho una foto alla parete. Vent’anni fa
nel mio obiettivo guardarono sette operai cinesi.
Guardano diffidenti o ironici o sospesi.
Sanno che non scrivo per loro. Io

so che non sono vissuti per me.
Eppure il loro dubbio qualche volta mi ha chiesto
più candide parole o atti più credibili.

A loro chiedo aiuto perché siano visibili
contraddizioni e identità fra noi.
Se un senso esiste, è questo.

Da: Composita solvantur (1994)

Stanotte…

Stanotte un qualche animale
ha ucciso una bestiola, sottocasa. Sulle piastrelle
che illumina un bel sole
ha lasciato uno sgorbio sanguinoso
un mucchietto di visceri viola
e del fiele la vescica tutta d’oro.
Chissà dove ora si gode, dove dorme, dove sogna
di mordere e fulmineo eliminare
dal ventre della vittima le parti
fetide, amare.
Vedo il mare, è celeste, lietissime le vele.
E non è vero.
Il piccolo animale sanguinario
ha morso nel veleno
e ora cieco di luce
stride e combatte e implora dagli spini pietà.

*

Sopra questa pietra…

Sopra questa pietra
posso ora fermarmi. Dico alcune parole
nello spazio vuoto preciso.
Le grandi storie
tentennano in sonno, vacillano
nelle teche i crani
dei poeti sovrani.
L’enigma verde ride la sua promessa.

Olmi e oh vetrate di Trinity illuminatevi!
Ecco il fulmine di giugno.
Batte l’acquata gronde e guglie.
Lo spazio dei dilemmi è verde e vuoto.
Non può vedermi più nessuno qui, nessuno
mi farà male mai più.

Poesie per il fine settimana: Luciano Erba (da “Il tranviere metafisico”, 1987)

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Luciano Erba

Poesie per il fine settimana: Luciano Erba (da Il tranviere metafisico, 1987)

Ponte e città

riattraversarlo vorrebbe anche se oscilla
periglioso, sospeso sull’abisso
non importa se manca qualche asse
tra le corde stanche e sfilacciate
se il vento che soffia nella gola
fa trepido e incerto il suo passaggio
vorrebbe metter piede all’altra sponda
sponda come? di un’erba calpestata
un po’ verde, un po’ gialla, di città
di sobborgo, non landa né steppa
quali umani? se stesso nei passanti
per vie di pioggia, di negozi chiusi
tra facciate notturne di finestre
illuminate di ussari, di musiche
né mai chiedersi a un angolo di strada
ed io, io, ospite di quale sera?

*

Seguivo il tuo viaggio

seguivo il tuo viaggio
provavo le tue impressioni
pensavo i tuoi pensieri
meglio del simulatore di un centro spaziale
che riproduce a terra le vicende
di un’astronave in volo tra le stelle
finché scese le ombre sopra i tetti
te addormentata, perso ogni contatto
caddi di quota, riabitai un mio baratro
tra voci inascoltate e la spezzata
illusione di un filo che legasse
non solo a te ma a ogni cosa sperata
ai grandi assenti, a eterni invisibilia

*

Il tranviere metafisico

Ritorna a volte il sogno in cui mi avviene
di manovrare un tram senza rotaie
tra campi di patate e fichi verdi
nel coltivato le ruote non sprofondano
schivo spaventapasseri e capanni
vado incontro a settembre, verso ottobre
i passeggeri sono i miei defunti.
Al risveglio rispunta il dubbio antico
se questa vita non sia evento del caso
e il nostro solo un povero monologo
di domande e risposte fatte in casa.
Credo, non credo, quando credo vorrei
portarmi all’al di là un po’ di qua
anche la cicatrice che mi segna
una gamba e mi fa compagnia.
Già, ma allora? sembra dica in excelsis
un’altra voce.
Altra?

*

L’ippopotamo

forse la galleria che si apre
l’ippopotamo nel folto della giungla
per arrivare al fiume, i curvi pascoli
di foglie nate a forma di cuore

forse il varco tra alberi e liane
gli ostacoli divelti, le improvvise
irruzioni d’azzurro nelle tenebre
su un umido scempio di orchidee

forse questo e qualsiasi tracciato
come a Parigi la Neuilly-Vincennes
o l’umile ‘infiorata’ di Genzano

o un canale di Marte, altro non sono
che eventi privi d’ombra e di riflesso
soltanto un segno che segna se stesso.

Vincenzo Frungillo, “Il cane di Pavlov (resoconto di una perizia)”, Edizioni d’If, Napoli 2014

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Vincenzo Frungillo

Vincenzo Frungillo, Il cane di Pavlov (resoconto di una perizia), Edizioni d’If, Napoli 2014.

CATABASI DELLA RELAZIONE

cane-di-pavlovIl fondamento etico del poemetto di Frungillo traspare già dall’esergo: «A Milano funziona così,/ si esce tutti insieme,/ ognuno paga il proprio», manifesto di un mutamento relazionale che ha caratterizzato l’ultimo ventennio del secolo appena trascorso, nella privazione di un possibile riconoscimento “comunitario”. Siamo al margine di una caduta, alla fine di ogni dialettica concreta di fissazione dei rapporti e morte definitiva del mondo della merce, dell’ultimo maleficio contro cui la morale antropocentrica poteva scagliarsi.
La dimensione monadica dell’umano è trasposta nel percorso discendente scelto da Frungillo per l’assetto architettonico della sua operazione: la connotazione scientifica, l’osservazione sperimentale tradisce la prospettiva analitica dell’autore e la tensione “obiettivante” di un approccio che più si vuole materialistico, più estende i punti di fuga meta-fisici del dire. L’evidenza di una risposta che non può essere definitiva sul senso dell’esistere e che neanche il rigore empirico e la trasparenza dell’osservazione possono svincolare dal “soggettivismo” e dal condizionamento.
La volontà allegorica de Il cane di Pavlov smaschera proprio l’approccio scientifico di matrice primonovencentesca (all’origine del male antropocentrico). I riferimenti del libro sono rintracciabili in quella fase critica e di “dubbio” che gli anni a cavallo tra XIX e XX secolo hanno manifestato. Da Dostoevskij a Nietzsche, passando per Freud e la propaggine estrema del buio ribaltato in maschera ironica (Lacan), condensati, in termini nichilistici, dalle produzioni post-moderne, dall’immaginario pop degli anni ’80 e ’90 (Ellis di American Psycho, citato esplicitamente nel poemetto). La fine dell’utopia “comunitaria” nelle 4 fasi del condizionamento di Pavlov induce una riflessione profonda sui rapporti coercitivi, una maggiore consapevolezza degli estremi, sempre più sfumati, di dominio. Attraverso le pratiche sessuali esasperate (in Giappone, paese storicamente ossessionato dall’esperienza del valore e dell’onore che arriva ad annientare l’individuo, il bondage è diventato fonte d’ispirazione artistica), la norma è “rigettata” per l’esplorazione del lato oscuro della relazione in cui le “deviazioni” dalla stessa norma possono alludere alla sconfitta – e reagiscono quasi alla scomparsa – della società patriarcale, del modello occidentale: «Forse Bruno si è gettato in quel vuoto,/ ha trovato un suo dio, un padre,/ o il suo grosso culo» (p. 40).
Appurato l’effetto edificante della possibilità scandalosa dell’approccio “obiettivo” (in una fenomenologia della dinamica servo/padrone rappresentata teatralmente nel gioco sessuale), occorre ancora affrontare il “vuoto” lasciato in eredità dai padri. In questo caso Il cane di Pavlov non vuole offrire risposte, decide di limitarsi all’affresco desolante del patrimonio acquisito, anche se, in alcuni versi, si accende un barlume di fuoriuscita dal negativo (a rischio di una forzatura interpretativa di cui assumo tutta la responsabilità e per cui mi scuso in anticipo): «L’uomo non si rassegna/ ad una vita senza storia,/ lascia tracce sul suo percorso,/ anche se si è appena mosso» (p. 30). La possibilità di cancellazione della testimonianza è congiunta alla funzione di trasmissione dello stesso messaggio.
Proprio l’ambivalenza (e l’ambiguità) di ogni relazione, anche linguistica, permette quest’affermazione: «niente e nessuno […] è degno» (p. 21) della parola di poesia.
Spezzando la funzione denotativa, il segno linguistico, ne Il cane di Pavlov, si espande ed eccede, accedendo ai territori dell’allegoria. Il linguaggio, la poesia cadono nel racconto di se stessi e della loro crisi: difficoltà relazionale e comunicativa, afasia. Eppure il mascheramento, velando la finzione della rappresentazione, fortifica la possibilità affabulatoria dei versi. Se quanto appena esposto è verosimile, allora la traccia (la bava, il condizionamento) va testimoniata proprio nella consapevolezza del sempre possibile ribaltamento etico. Sapere «da sempre come stanno le cose» perché il poeta ha “sperimentato” con occhio distaccato «l’esperienza della morte», cioè il discrimine, la soglia della relazione («Io so da sempre come stanno le cose,/ perché ho messo tra me e voi/ l’esperienza della morte», p. 21).
Una nuova comunità è già possibile nella produzione della traccia testimoniale del tempo in cui si è “caduti” a vivere, in funzione di un accertamento storico dei fatti, per quanto insensata possa apparire rispetto alle “norme” stabilite dall’ordine tribale. La tracotanza della poesia è nella giustizia che visita gli inferi e ruba il fuoco agli dei, all’ordine costituito, e ne mostra la realtà considerandone gli aspetti “scandalosi” nascosti alla base della costruzione sociale. Il rischio per il poeta è l’agonia, trasformazione sempre postuma nel fantasma di un desiderio assoluto di relazione.

ESTRATTI da Il cane di Pavlov (resoconto di una perizia)

Anche se la nostra sede
non assomiglia per niente
all’ambiente di American Psycho,
mi viene in mente la scena
in cui il protagonista
fa a gara col collega
a chi ha il biglietto da visita più bello,
identità sociale
del primate che primeggia, ah!

(pp. 11-12)

*

Una cosa è importante nelle leggi:
sabotare le costanti,
metterle alla prova,
rinvenire le varianti,
ciò che resta pur se cambia.
Nelle cavie da laboratorio
si ripete il sacrificio,
l’innominato destino
di chi sorseggia il vuoto
come se fosse fonte prima.
Da lì attinge l’occhio della ragione.
Per millenni l’hanno fatto i maschi,
io sono stata la prima donna,
questo ha suscitato tanto scalpore,
sono Tatiana che distrugge il suo eroe.

(p. 19)

*

«Io amo la poesia,
a volte invento versi, strofe,
mi diverto, poi mi passa…»
Ho ribattuto che era meglio,
«ché niente e nessuno ne è degno».
[…]
Io so da sempre come stanno le cose,
perché ho messo tra me e voi
l’esperienza della morte;
più volte sono morta
tra le braccia di un carnefice…
l’umiliazione ultima, prima della polvere…

(pp. 21-22)

*

Ogni epoca ha il suo dio,
e la legge per cui si muore.
Chi era il poeta che diceva
bisogna o che la scienza
annienti il cristianesimo
o che faccia tutt’uno con esso?

(p. 23)

*

L’uomo non si rassegna
ad una vita senza storia,
lascia tracce sul suo percorso,
anche se si è appena mosso.

(p. 30)

*

Ognuno, durante la sua vita,
deve illudersi d’essere il solo protagonista,
questo rassicura. Prendete questa perizia:
è una sorta di radiografia,
un’analisi del soggetto asociale,
che è da condannare. È un fatto
però, che io sono quel che sono,
perché voi lo stabilite.

(pp. 31-32)

*

La domenica si è presentata arida di rumori.
Lui mi ha raggiunto di sotto,
mi ha abbracciata,
mentre preparavo la colazione.
Siamo rimasti alcuni secondi
a fissare i nostri volti
riflessi nel vetro della finestra.
Eravamo cambiati, felici.
Fuori il tempo sgombrava la sua tela,
si era chiuso come un pugno sulla vita.

(p. 35)

*

Io ero sfinita, tutta la mia giornata
andava via al suo capezzale,
lui m’invocava, è tornato
a chiamare il mio nome,
era la sola parola che gli uscisse di bocca.
Martina, il nome di un’oca.
Io e lui cercavamo qualcosa,
che si nasconde nelle pieghe
troppo luride delle nostre vite.
Forse Bruno si è gettato in quel vuoto,
ha trovato un suo dio, un padre,
o il suo grosso culo.

(p. 40)

*

Ecco il finale.
Ho smesso d’andare al lavoro,
ho chiuso dall’interno la porta,
ho gettato la chiave dalla finestra.
Siamo rimasti stesi non so quanti giorni.
Bevevo dal suo bicchiere.
Nient’altro. Lo carezzavo.
Per quel che poteva, lui mi carezzava.
Lo sentivo respirare, si lamentava
per le manette, ansimava, delirava.
«Adesso vado, adesso vado…»
Poi ha iniziato a rantolare.
«Tra poco ti raggiungo».
Gli dicevo. «Non ho più forze».
Ho invidiato la sua agonia,
la sola esperienza dell’origine,
lontano da tutto, lontano da me,
e non ancora nel buio.

(p. 41)

Gianluca D’Andrea
(Novembre 2014)

IN CAMMINO VERSO L’ORIGINE: La mente paesaggio di Laura Pugno, Giulio Perrone Editore, Roma 2010

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Laura Pugno (Foto di Dino Ignani)

IN CAMMINO VERSO L’ORIGINE: La mente paesaggio di Laura Pugno, Giulio Perrone Editore, Roma 2010

nel bosco che ti sbava sulla pelle

mente_paesaggioSi riprenderà tutto l’acqua fino alla prossima glaciazione. Niente di catastrofico, è solo la possibilità aperta da questo libriccino così diverso dall’ondata letteraria e classicista della poesia italiana attuale: mi riferisco a un versante linguistico che mi ostino a definire “lombardo” per impostazione narrativa e sobrietà tematica nonché per scelte lessicali e sintattiche attratte da una semplicità che, a volte, rischia la stucchevolezza. Allo stesso modo La mente paesaggio è distante da qualsiasi sperimentazione risultando piuttosto un libro basilare, originario e, a ben vedere, profetico. Ogni parola è calibrata su misure minerali, i versi non esistono, sono le risultanti di un linguaggio esploso da tempo, isole o villaggi di palafitte nella distesa della pagina; questo stesso galleggiare è il risultato di un vecchio tragitto e la possibilità del nuovo, posteriore ad ogni posteriorità. Il movimento, il cammino appunto, nel nuovo sentiero della storia che, a scanso di equivoci, non si è mai interrotto, nonostante l’uomo. Diceva Thoreau: «Il sole si spegne su qualche terra lontana, dove non è visibile alcuna casa, con tutte le glorie e lo splendore che prodiga alle città, e in maniera mai vista prima» (H. D. Thoreau, Camminare, Mondadori, Milano 2009, p. 59); le ultime parole di La mente paesaggio recitano: «dove sei adesso/ il sole cuoce il pane/ è perfezione// completato il corpo/ e tu lingua puoi perderti/ qui e non/ altrove» (p. 91): è la fine di un percorso che, come nel pensatore americano, realizza l’esistenza compiuta della lingua e del soggetto e che, sfondate le barriere socio-economiche e perduti i confini, non può che continuare a sorprendersi della ricchezza metamorfica e dello stesso cammino che apre continuamente al mondo.
In un libro di poesie pubblicato nello stesso anno di La mente paesaggio si ripete il medesimo messaggio: le parole, la lingua, sono doni di apertura alla possibilità di trasformazione per quanto possano condurre alla perdizione – che, come abbiamo potuto constatare nel libro di Laura Pugno, ha un effetto ri-creante – o al nascondimento del reale stesso (ma sono implicite funzioni del segno la mistificazione, l’infingimento – solo il riconoscimento dell’inganno apre uno spiraglio alla fede): «Copriremo/ con le parole il vuoto che abbiamo potuto vedere -/ solo disordine oltre le nuvole e i nomi,/ i segni splendidi a nascondere le cose» (G. Mazzoni, I mondi, Donzelli, Roma 2010, vv. 24-27, p. 58). Nonostante i toni e gli stili diversissimi, entrambi i libri ci conducono dentro la nostra storia, la storia di un millennio nato postumo e consapevole di ciò che Ivan Illich aveva prognosticato quasi quarant’anni fa: «Una volta oltrepassato il quantum critico di energia pro capite, è ineluttabile che le garanzie giuridiche dell’iniziativa personale e concreta vengano soppiantate dall’educazione agli astratti obiettivi di una burocrazia. Questo quantum segna il limite dell’ordine sociale» (I. Illich, Elogio della bicicletta, Bollati Boringhieri, Torino 2006, p. 12), ovvero consapevole di essere ad un passo dal disastro socio-economico, soprattutto dopo due tappe significative quali l’11 settembre 2001 e il 16 settembre 2008, data in cui si verificò il fallimento della banca Lehman Brothers, conseguenza dello scoppio della bolla finanziaria negli Stati Uniti nel 2007 e avvento della crisi economica mondiale.
Ritornando a La mente paesaggio e consci di un disastro di là da venire eppure già avvenuto attraverso tutte le informazioni che giungono a ravvisarlo, ecco che le dimensioni di tempo e spazio vanno riformulandosi lontano da ogni determinismo o causalità e, attraverso la consacrazione dei concetti di precarietà e indeterminatezza fisica, appaiono le dimensioni liminari dell’acqua (da habitat originario a rispecchiamento e riconoscimento nella mutevolezza) e del bosco («chi aprirà la porta che dà sul bosco» p. 85, v. 6; «il giardino è all’interno del bosco» p. 86, v. 1; «la porta che dà sul bosco/ non è diversa dalle altre» p. 87, vv. 1-2), casa reale a naturale di esseri che ineluttabilmente conservavano «la chiave/ in una tasca/ cucita nella carne» (p. 87, vv. 4-6) e che, nonostante un cammino di allontanamento durato millenni, custodiscono l’essere dentro il sistema mondo in un attraversamento che è memoria. Difficile da spiegare l’evenienza che tutta la costruzione umana originata dalla concatenazione causa-effetto si stia sbriciolando per divenire uno spazio-tempo assoluto ricchissimo di venature. I microliti richiamati come un’eco nel sistema linguistico della Pugno – e che formano l’architettura rizomatica del libro – intraprendono questo percorso di spaesamento e raccoglimento e si sostanziano come unico nutrimento: «la pianta che cresce sott’acqua/ con foglie carnose/ come salvia -// la pianta perduta/ che cambia/ la tua carne// come grano/ perfetto e splendente/ che cresce sott’acqua» (p. 60). Assistiamo al passaggio verso nuove coordinate che fungeranno presumibilmente da dimora, non assistiamo alla nuova etica dell’abitare in quell’oikos che «non è più la polis (la città) ma l’oikoumene (l’insieme della terra abitata)» (S. Latouche, Come si esce dalla società dei consumi – Corsi e percorsi della decrescita, Bollati Boringhieri, Torino 2011, p. 70) ma siamo a un passo dal ricongiungimento ad esso: «il non dolore/ torna, il non/ conosciuto prima/ del dolore// lingua piccola,/ ma ancora/ viva/ che sei la stessa lingua/ la stessa voce// e dirai il paesaggio/ il corpo non/ dimenticando» (p. 90). Per incominciare a ri-abitare il mondo bisogna attraversare questo stesso percorso di de-nudamento (la poesia lo dice con i suoi strumenti e La mente paesaggio diventa uno dei paradigmi più profondi, perché unico esempio finora in Italia, di una vera spoliazione e decostruzione identitaria), in termini socio-economici «Bisogna diventare degli atei dell’economia, cioè non considerare un’evidenza indiscutibile il fatto che la crescita di qualsiasi cosa in modo illimitato è una buona cosa, e che la produzione di beni materiali è più importante dell’organizzazione politica o della felicità familiare» (S. Latouche, cit., p. 53).
Se è vero che «l’arte rappresenta un fondo storico della coscienza spaziale, e l’autentico artista è un uomo che vede gli uomini e le cose meglio e più esattamente degli altri, più esattamente soprattutto nel senso della realtà storica della propria epoca», come dice Carl Schmitt (C. Schmitt, Terra e mare, Adelphi, Milano 2002, p. 70), allora è ancora un’opera d’arte, in questo caso un’opera di poesia, a risvegliare e illuminare il senso di appartenenza e cura del mondo che due secoli di sviluppo economico tecnocratico hanno allontanato dalla prospettiva umana.

Gianluca D’Andrea
(Ottobre 2011)

Carteggio XXII – Marianne Moore

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Marianne Moore

di Gianluca D’Andrea

Marianne Moore

What Are Years?

What is our innocence,
what is our guilt? All are
naked, none is safe. And whence
is courage: the unanswered question,
the resolute doubt,—
dumbly calling, deafly listening—that
in misfortune, even death,
encourages others
and in its defeat, stirs

the soul to be strong? He
sees deep and is glad, who
accedes to mortality
and in his imprisonment rises
upon himself as
the sea in a chasm, struggling to be
free and unable to be,
in its surrendering
finds its continuing.

So he who strongly feels,
behaves. The very bird,
grown taller as he sings, steels
his form straight up. Though he is captive,
his mighty singing
says, satisfaction is a lowly
thing, how pure a thing is joy.
This is mortality,
this is eternity.


Che cosa sono gli anni?

Che cos’è la nostra innocenza,
che cosa la nostra colpa? Tutti
sono nudi, nessuno è salvo. E donde
viene il coraggio: la domanda senza risposta,
l’intrepido dubbio, –
che chiama senza voce, ascolta senza udire –
che nell’avversità, perfino nella morte,
ad altri dà coraggio
e nella sua sconfitta sprona

l’anima a farsi forte? Vede
profondo ed è contento chi
accede alla mortalità
e nella sua prigionia si leva
sopra se stesso, come
fa il mare dentro una voragine,
che combatte per essere libero
e benché respinto
trova nella sua resa
la sua sopravvivenza.

Così colui che sente fortemente
si comporta. L’uccello stesso,
che è cresciuto cantando, tempra
la sua forma e la innalza. È prigioniero,
ma il suo cantare vigoroso dice:
misera cosa è la soddisfazione,
e come pura e nobile è la gioia.
Questo è mortalità,
questo è eternità.

Questa poesia così carica di saggezza mi fa ricordare il niente che siamo, che l’unica traccia è l’opera, il lavoro che sfuma nel tempo e può riaccendersi all’improvviso. Scontri, incontri, personalità che tentano di urlare o silenziosamente scomparire, ma il lavoro, il percorso è l’unico manifestarsi di una libertà sempre in sordina, perché un “Io” presume di esistere quando invece è vissuto e, a volte, subisce i pensieri che crede propri.
Il percorso, la linea non lineare, il segnale che rischia continuamente di essere perso di vista e che all’improvviso si ritrova, sono possibilità e annichiliscono definitivamente il soggetto.
Anche l’archivio è una traccia, una potenzialità che si allontana dagli individui che se ne occupano.
Tutto esiste perché scompare – “questo è mortalità, / questo è eternità”.
Nessuno esclude nessuno, anche la letteratura finisce, la “parola” può sempre riemergere, anche nel detrito, nella deriva più sconcertante, ma è sempre necessario correre il rischio della sventura. Essa – la “parola” – non ci appartiene e, come il fantasma di ogni accensione momentanea, sola “trova nella sua resa / la sua sopravvivenza”.

(Novembre 2014)

 

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Filippo Davoli – Tre inediti

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Filippo Davoli

Domande e desiderio, speranza che emerge da un sentimento quotidiano sempre vigile e disposto all’accoglienza degli eventi. Gli inediti (generosamente offerti da Filippo Davoli) proseguono un percorso poetico sempre coerente con questa volontà d’immersione nelle vicende e sempre in attesa di riscoprirne così, dall’interno, il mistero. Dai quesiti senza risposta sulla fine, alla “luce” sorprendente della rinascita, rivelazioni di una fede che travalica i dogmi, perché necessitante di cogliere di continuo la meraviglia e lo stupore imponderabile dell’esistere.

Gianluca D’Andrea


TESTI

Con quale energia, con quale alterità
un uomo qualunque decide il troncamento
della sua esile trama? Con quale acume
sceglie il metodo (e vibra
il fendente mirato, e ammorbidisce
con il grasso la corda)?
Con quale ferocia uccide chi rimane
senza offrirgli uno scampo,
una parola che rimetta le colpe,
un sorriso che annulli lo strazio,
un varco, un pertugio per proseguire?
La vendetta è tremenda, insoverchiabile.

Il momento, quel momento preciso
in cui la soglia forzata s’è dischiusa
è valicato, ormai.
Non si ritorna.
Da lì si snoda una spirale impietosa
che tutto rimpicciolisce
e allontana, in un vortice.
La sagoma che penzola, la spoglia
frantumata, il malloppo
d’ossa e di carne fradicia
s’attarda penosamente sullo sfondo,
spicca il suo dramma
da un’altra dimensione a noi ignota.
Sembra che ci interpelli, ma è soltanto
un male in dismissione, un referto
senza voce che la memoria eternando rimuove.

Voleva questo, mi chiedo? Voleva
non essere, o solamente non esserci più?
Avrà pensato a sé stesso come al fagotto
calato nella dimenticanza della terra?
Come avrà fatto a staccarsi dall’anima,
a sganciarsi dal sangue?
Quanto dolore (o forse più nulla,
come un corto che leda i circuiti
e invogli con l’inganno di un limbo
in cui spegnere il fiato), mi dico:
quant’orrore dev’esserci stato?

*

Canto vigile

La luce a volte. Un balsamo
che scende al consolato
cuore, dove l’incontro si fa carne.
Così mi accogli in queste oscure pagine.
Ed io non so
che accettarne l’incarico, procedere
per frammenti di me fra le parole.
(Ossifica la parola, rendila acerba
perché conduca a una stabilità.
Regredisciti in essa fino a sparirti
come la riga che discontinua tracci
sul malcerto quaderno.
Solo la mano sappia che afasie
per giungere ad un segno.)

È candida la cecità del vento
che squassa gli orti, che rompe
gli argini dell’affetto, che assume
l’ora opportuna alla spada
nel gorgo dei giorni.
E qui nel vento io vivo

(quanta notte, le tue mani
belle nel vuoto)

*

Un temporale

Lo scroscio fu subitaneo, rabbioso.
I tuoni vennero dopo, al finire del gioco.
L’acqua ci entrava da ovunque,
sul pavimento strisciava invadendo
le oscurità sotto i mobili.
Nemmeno il cane sapeva se poterla bere
o temerne qualche retrogusto spietato.
Però fu bello. Fu uno spettacolo pieno
vedere il cielo sparire dietro la grandine
e l’aria far nuove le ossa.


Filippo Davoli è nato a Fermo il 22 agosto 1965, vive e lavora a Macerata.

In ambito poetico ha sinora pubblicato In epigrafe (1986), Mal d’auto (1990), Poemetti del contatto (1994), Alla luce della luce (Nuova Compagnia Editrice, 1996 – Introduzione di Franco Loi), Un vizio di scrittura (Stamperia dell’arancio, 1998), Una bellissima storia (Stamperia dell’arancio, 2000), padano piceno (GED, Biblioteca di Ciminiera, 2003), A tempo nuovo (pro manoscriptu, 2005 – Introduzione di Andrea Ponso e Postfazione di Gabriel Del Sarto), Gli incendi (L’arcolaio, 2008), Come all’origine dell’aria (L’arcolaio, 2010) e I destini partecipati (La Vita Felice, 2013). Finalista al Premio “Dario Bellezza” del 2001, è tra i vincitori del “Premio Montale” dello stesso anno per l’inedito, pubblicato col titolo 14 solitari in 7 poeti del Premio Montale (Crocetti, 2002). In edizioni numerate e fuori commercio, sono apparsi Piccolo canzoniere familiare (2002) e Midrash (Sagittario, 2004 – a cura di Elio Grasso). E’ tradotto in Francia nell’antologia “Filippo Davoli. Cinquante poesies – 1994-2003” (Editions Bénévent), a cura di Daniel Bellucci.
In ambito critico letterario, oltre a numerosi articoli apparsi in varie riviste, insieme a Guido Garufi ha curato il volume In quel punto entra il vento, dedicato al poeta Remo Pagnanelli (Quodlibet, 2008).

In ambito critico musicale, appare con un suo studio nel volume “Cantami di questo tempo. Poesia e musica in Fabrizio De André” – Atti del Convegno dell’Università di Cagliari, giugno 2003 (Aipsa Edizioni, Cagliari, 2007). Di lunga data è inoltre la collaborazione, sia letteraria che musicale, con il cantautore Claudio Sanfilippo. Altri suoi articoli sono apparsi in riviste specialistiche.

In ambito teatrale, ha collaborato alla stesura di Osvaldo Licini, errante erotico eretico, insieme a Giovanni Allevi, Neri Marcorè, Tullio Pericoli e Sandro Polci.

Direttore fino all’ultimo numero della rivista “Ciminiera”, fondata con l’ispanista Giovanni Cara, è compreso nelle antologie La poesia delle Marche. Il Novecento (Il Lavoro editoriale, 1998 – a cura di Guido Garufi), La voce dolce di resa (Stamperia dell’arancio, 2000 – a cura di Daniele Maria Pegorari), Il pensiero dominante. Poesia italiana 1970-2000 (Garzanti, 2001, a cura di Franco Loi e Davide Rondoni), Vent’anni di poesia (Passigli, 2002 – a cura di Maria Luisa Spaziani), La voce che ci parla. Antologia di poesia europea contemporanea (Archivio della Poesia del ‘900, Mantova, 2005 – a cura di Alberto Cappi) e Trent’anni di poesia italiana e dintorni (Book Editore, 2005 – a cura di Alberto Bertoni).

Della sua scrittura si sono occupate diverse testate, tra cui “Sole 24 Ore – Domenica”, “Avvenire”, “La Stampa”, “Rai RadioUno (Zapping, Con parole mie e In viaggio con le parole)”, “America Oggi”, “La Voce di Mantova”, “L’Unità”, oltre a riviste come “Poesia”, “Portales”, “Pelagos”, “Letteratura Tradizione”, Origini”, “Verso”, “I limoni”, “La Clessidra”, “Arca” e “Hortus”.

Già Presidente del Consiglio dei Curatori della Biblioteca “Mozzi-Borgetti” di Macerata, è curatore responsabile della rivista “Quid Culturae” in http://www.cronachemaceratesi.it/quid-culturae.

Carteggio XXI – Ancora su “Jucci” in forma di epistola

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Franco Buffoni

di Gianluca D’Andrea

Ancora su “Jucci” in forma di epistola

Caro Franco,
rileggo ancora Jucci e sento l’importanza della trasfigurazione evocativa compiuta attraverso la relazione “reale” con la persona “Jucci”, il senso vitale della letteratura derivante dal “senhal”, cioè un nuovo attraversamento. Questa raccolta apre un percorso assoluto di salvazione per mezzo del rapporto.
“Vita nuova” che si espande con uno scarto minimo ma evidente rispetto alle operazioni di maniera prodotte in questi ultimi due anni, incentrate sulla dialettica vita/morte che non trova un canale di fuoriuscita dalla constatazione della fine (penso alle costruzioni “nichilistiche” di La morte moglie, Tersa morte o Il sangue amaro). Jucci va oltre questa constatazione e rilancia sull’unico bene possibile, la stessa possibilità dialettica senza rese, né tregue, con una fiducia che attraversa la sofferenza ed emerge in rinnovamento: molto sinceramente, e senza orpelli, le perdite sono stimate nella giustizia dura di un tragitto di maturazione (il che implica un distanziamento dall’accaduto proprio attraverso il ricordo dello stesso – poesia e letteratura solo in questo caso possono coincidere). Una strada adesso è tracciata: dall’aderenza all’evento alla trasformazione, tutto avviene nel movimento continuo – e tutto fisico – di attrazione/repulsione dei corpi; la meta-fisica senza verticalità è l’altro perpetuo dei nostri attraversamenti, soggetti sempre alla nostra ultima umanità.

(Novembre 2014)