
Hans Holbein il Giovane, Gli Ambasciatori (1533)
di Gianluca D’Andrea
Ma profondamente familiare non significa “intimo”. Iniziare ad annusare «la fanghiglia delle strade» come la “macchia” lacaniana che ci attrae perché ne possiamo compartecipare.
Lo spettacolo dell’ombra non è fatto per restare – «le nostre ombre, / le loro ombre, non restano» (Guido Mazzoni, La pura superficie, Roma, 2017, p. 77) – ma può ridurre la vanitas di un soggetto appeso all’immagine.
La compartecipazione apre a una nuova prospettiva e fa cogliere altri principi. Certo, i motivi sono sempre “ritornanti” (rette, curve, punti, ecc.), ma ci permettono di accedere a parametri di un diverso orientamento spaziale (cambia il tempo perché cambia lo spazio che attornia il soggetto osservante, ecc.) che provoca un assestamento nella vertigine del mutamento.
L’attrazione per l’apparenza/apparizione del mondo (che ha già digerito la scomparsa) inaugura, da sempre, un tragitto:
Allora comincerò con un altro disegno,
un’altra carta, ancora una leggenda.
(Franco Fortini, Composita solvantur, Torino, 1994, p. 45)
Occorre lo spostamento del soggetto per focalizzare l’immersione in un nuovo spazio, un allenamento sempre più deciso alla decentralizzazione che non si riduce però alla scomparsa (quella è già digerita, dicevamo, nel nulla dell’assenza di traccia) ma si riconforma a sempre nuove anamorfosi, a una riformulazione della presenza e del distanziamento.