Jón Kalman Stefánsson – Storia di Ásta

«Una volta ero giovane e impaziente di vivere. Che cosa è successo? Eppure mangio lo yogurt naturale, compro uova biologiche. Smisto i rifiuti. Mi tengo al corrente su cosa accade nel mondo. Cos’altro mi serve?
Mia figlia vuole che riparta da zero, che cambi radicalmente il mio modo di vivere, le mie abitudini. Dice che è un mio dovere. Dice che lo devo alle giovani generazioni. E che devo scrivere per salvare il mondo. So che ha ragione. Ma più leggo articoli d’attualità, più mi sembra che il mio compito diventi più vasto, la mia responsabilità più grave. È più facile vivere abbassando lo sguardo. L’ignoranza ti rende libero, la conoscenza ti imprigiona nelle catene della responsabilità».

Jón Kalman Stefánsson – Storia di Ásta (Iperborea, Milano, 2018, p. 262)

 

Michele Mari: Estratti da “Leggenda privata” e “Cento poesie d’amore a Ladyhawke” – SOTTO L’OMBRELLONE

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Michele Mari (Collage di Gianluca D’Andrea)

Michele Mari: Estratti da Leggenda privata e Cento poesie d’amore a Ladyhawke – SOTTO L’OMBRELLONE

Questa notte, in sogno, ho scoperto una cosa interessante sui Ciechi: lo sono perché, toltisi gli occhi, li hanno disposti per tutta la casa, ben nascosti in luoghi strategici. poi, a certi intervalli, fuoriescono dalla Cantina, recuperano gli occhi e se li riadattano: in questo modo vedono tutto quello che è successo nel frattempo, come la registrazione di un sistema di telecamere a circuito chiuso: ogni tanto però qualcuno si mette il bulbo di un altro, donde una serie di alterchi. Questo significa che se esplorassi accuratamente la casa e trovassi tutti quegli occhi, e li prelevassi, i Ciechi non mi vedrebbero più, ma… mi chiedo… non sarebbe ancora più spaventoso? Essere nel loro buio voglio dire, essere cercato da chi vuole indietro qualcosa? Nel dubbio, meglio non contrarre debiti…

(da Leggenda privata, 2017, p. 35)

La marca di gelati alternativa e per noi bimbi persino trasgressiva (non fosse per l’audacia di sfidare l’impero-Motta), era Algida (fondata 1945), forte del suo Cremino (omologo del Montanello) e del prepotente Cornetto: dunque, perché le Bergonzi smerciavano prodotti Motta sotto l’insegna della concorrenza? Era una frode calcolata” E che figura ci facevo, io, a chiedere qualcosa di più vecchio dell’offerta commerciale? Poi, sotto il famoso pergolato delle Mutande della Serva, una folgorazione mnemonica, intensissima e vivida: un bimbo che insiste, «Posso dire una parola?» e reinsiste più volte, finché i Rokes concedono: «E dilla!», e quello: «C’è un Algida laggiù che mi fa gola!», al che corrono tutti laggiù, Shel Shapiro compreso. È troppo, pensare che in momenti come questi si celi più storia e più religione che nell’Iliade, nel Mahābhārata, nel Beowulf? D’altronde, «C’è un Algida laggiù che mi fa gola» è un perfetto endecasillabo, Dante avrebbe potuto metterlo in bocca a Mastro Adamo, quando rimpiange i ruscelletti del Casentino…

(da Leggenda privata, 2017, p. 43)


Testi da Cento poesie d’amore a Ladyhawke (2007)

Chi eri nel mondo dei vivi
chiese il passero allo spaventapasseri

Un uomo
che non suscitò in chi amava l’amore
per questo ti posi impunemente
sulla mia manica vuota

*

Se aveva ragione Cavalcanti
nel dir ch’ogni sospiro è un nostro spiritello
che tremulo e perplesso
si mette in viaggio
alla ricerca della persona amata
e giunto al suo cospetto sbigottisce
che resta ormai di me
sputnik
che ha esaurito i suoi messaggi
per il pianeta Terra?

*

Per più di trent’anni
ti ho abusata
fingendoti secondo dittava il mio capriccio
e come cera molle ti ho plasmata
e rifusa e riplasmata

Ma adesso che mi hai offerto
specimina precisi dei tuoi giorni
opponi resistenza
e imbrigli il mio delirio

Così il solipsismo si fa impuro
ed il romanzo uggioso
onta suprema
per chi da sempre nei romanzi aborre
il manzoniano vero

*

Coincidere con chi si è diventati
credendo sia saggezza
è il più facile dei tradimenti
perché il suo castigo è nella pace

*

La fiaba degli amanti
cui un maleficio tolse
d’incontrarsi
———(donna di notte lei
——————————e con la luce falco
———lui con la luce uomo
—————————-e nottetempo lupo)
ci piacque tanto che per un bel pezzo
ci siamo firmati Knightwolf e Ladyhawke
finché capimmo
l’inutilità della speranza di ritrovarci insieme
nell’umano
il nostro più ambizioso traguardo
essendo di confondere
il pelo con le piume

*

Il tuo silenzio
dici
è pieno di me

Così so
come si sentono i morti
pensati dai vivi

*

Il nostro fidanzamento è morto

Adesso lo imbalsamo
poi mi iscrivo a un corso da ventriloquo
e come Norman Bates
apro un motel

*

I poeti latini
avevano una splendida espressione
per indicar le stelle che cadono in estate:
labentia signa
cioè segni scivolanti

Tale mi sembra il tempo
in cui ci siam baciati
scia luminosa
passata troppo in fretta

L’astrofisica insegna tuttavia
che quel teatro
caro ai bambini ed agli innamorati
non è caduta e non è scivolamento
ma solamente morte

*

Ti cercherò sempre
sperando di non trovarti mai
mi hai detto all’ultimo congedo

Non ti cercherò mai
sperando sempre di trovarti
ti ho risposto

Al momento l’arguzia speculare
fu sublime
ma ogni giorno che passa
si rinsalda in me
un unico commento
ed il commento dice
due imbecilli

*

Avendo la testa montata all’indietro
non so cosa mi aspetta
ma quando cadrò nel vuoto
starò certamente ammirando
la sinossi di tutti i nostri incontri

Una riflessione su Franco Buffoni, “Il racconto dello sguardo acceso”, Marcos y Marcos, Milano, 2016

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Emilio Sanchez, Untitled, Faces, particolare

Una riflessione su Franco Buffoni, Il racconto dello sguardo acceso
(Marcos y Marcos, Milano, 2016)

«Ogni concezione della storia è sempre data insieme con una certa esperienza del tempo che è implicita in essa, che la condiziona e che si tratta, appunto, di portare alla luce».

G. Agamben

il-racconto-copIl lavoro di scavo di Buffoni nei fatti continua attraverso “inserti” narrativi che, nel complesso di un’opera pluridecennale, tradiscono un’urgenza sempre più chiarificatrice. L’indagine, compiuta tra esperienza personale e vicende del mondo, parte da un approccio poco evenemenziale, riattivandosi proprio nei nodi e negli intrecci di un flusso che prova costantemente a ri-orientare il soggetto, perché parte integrante dello stesso intreccio.
Curiosità fattuale, dunque, e si spiega così la tensione esplicativa di cui all’inizio, o volontà di cura nel tentativo di scovare, tra le situazioni e gli incontri casuali, la capacità della parola di comunicare un senso. Sforzo estenuante ma eseguito con assoluta dedizione. Ad emergere, allora, anche ne Il racconto dello sguardo acceso (che si pone negli “immediati dintorni” del precedente La casa di via Palestro, anche se, quasi specularmente, adesso lo sguardo si allarga sul mondo come nell’altra operazione si focalizzava sulle origini – due ante dello stesso οἶκος visto da prospettive diverse, in cui il ricordo ha più valenza cairologica che cronologica, e quindi riflette sulle opportunità offerte dall’esistenza più che sulla nostalgia del tempo perduto) è la capacità testimoniale della parola.
Tra wit e denuncia, arguzia e sempre rinnovata consapevolezza, Buffoni riesce a vivificare, in un tragitto in 14 stazioni (i 14 racconti del testo diviso in 2 parti, dittico nel dittico che si forma se aggiungiamo le 3 parti di 13 racconti ciascuno de La casa di via Palestro) la necessità di un’identità per troppo tempo nascosta dal senso di colpa, un’identità – personale e collettiva – che può riconoscersi solo in funzione dell’altro, com’è evidente ne Il racconto di date e guerra: «sono […] un ponte tra quattro secoli: un ponte a una arcata tra Ventesimo e Ventunesimo, e grazie alla forza della parola e del ricordo, un ponte a più arcate tra il Diciannovesimo e il Ventiduesimo» (p. 179). Ma l’agnizione avviene attraverso il continuo disconoscimento di un’identità fissa e organizzata attraverso parametri socialmente imposti. Così ne Il racconto di Pasolini possiamo leggere un’inversione di opinione nella ricezione di un messaggio tra i più controversi del secolo appena trascorso, un’inversione che rimette in questione le stesse capacità interpretative del soggetto e permette al lettore di comprendere la necessità di mantenere il proprio “sguardo acceso” sui fatti. La trasformazione che “consustanzia” il punto di vista del soggetto, aderisce al messaggio di cambiamento intravisto da Pasolini, inizialmente frainteso: una realtà nascosta tra le pieghe dell’allegoria che il reale stesso comprende nell’affabulazione della parola, il corpo dell’essere denunciato nella sua mercificazione.
Eppure è proprio in questa reificazione del corpo che si scorge il cunicolo di trasporto al presente, la constatazione del mutamento che si riversa nella parola, la necessità dirompente della testimonianza che denuncia lo stesso presente con tutto il suo peso: «Solo parole al vento, potreste replicare… Niente affatto. Perché le parole – messe tutte assieme – diventano macigni, e i macigni pesano e possono anche rotolare» (p. 216). Lucidità nell’utilizzo di ricordi sempre vivi (ecco la valenza cairologica della memoria che elimina l’impasse da “fine della storia”). L’eziologia si scioglie in racconto, la casualità degli incontri personali si spoglia di ogni mitologia e trasforma la riflessione intima in critica sociale. L’opera si presenta nella veste di un pamphlet senza invettiva, la sua caratteristica principale è un’ironia arguta e illuminata senza pathos o esuberi.
Il percorso di conoscenza – la ricerca di «una verità fattuale dentro la verità emotiva dei ricordi», (La casa di via Palestro, p. 152) – si accende sulle metamorfosi dei costumi (la centralità dell’eros, l’approccio alle lingue “altre”), intraviste come sintomi di nuove possibilità. Così ne Il racconto di segni e segnali possiamo leggere delle mutate modalità di approccio alla lettura («”Ecco, vorrei chiederti… se mi puoi mandare il pdf, così posso anche leggerlo», Così posso anche leggerlo, p. 120, oppure «Consegno il libro con la dedica per Mishima e la mia firma: “Mishima allora conosce bene l’italiano…” “No, assolutamente. Ma è un bravissimo fotografo…”», Libri come gadget, p. 122), così come degli indispensabili richiami a una tradizione che va preservata e riattivata nel presente: «Nella convinzione che sì, le ultime lettere potranno anche diventare le ultime e-mail di Jacopo Ortis, ma – dentro – qualcosa che mi piace definire anima dovrà pur continuare a pulsare» (Cuore ed e-mail, p. 124).
L’elastico tra passato e futuro – il ponte – è l’individuo, lo sguardo attento e libero che, solo nella volontà di cura per l’alterità, può slacciarsi dai vincoli del “sempre uguale” e riaffacciarsi di continuo sul presente accendendone la grazia. Gli inserti di poesia dentro la trama narrativa hanno proprio questa funzione baluginante ed è così che mi piace terminare la riflessione su Il racconto dello sguardo acceso, con un componimento che sembra riassumere il sentimento di pietas che pervade le ultime opere di Buffoni – e che infatti è già presente in forma diversa nel libro Roma, del 2009 – la sua devozione verso il mondo, la sua cura, la sua pulizia:

Gay Pride a Roma

“E il caffè dove lo prendiamo?”
chiede quella più debole, più anziana,
stanca di camminare. “Alla casa del cinema,
là dietro piazza di Siena…”
Non si erano accorte della mia presenza
nel giardinetto del museo Canonica:
si erano scambiate un’effusione,
un abbraccio stretto, un bacio sulle labbra.
Parlavano in francese, una da italiana:
“Mon amour” le diceva, che felicità
di nuovo insieme qui.
Come mi videro si ricomposero,
distanziando sulla panchina i corpi.
Le scarpe da ginnastica,
le caviglie gonfie dell’anziana…

«Quella sera, come smollò il caldo, passeggiai fino a Campo de’ Fiori: pizzeria all’angolo, due al tavolo seduti di fronte, giovani puliti timidi e raggianti. Dritti sulle sedie, col menù, sfogliavano e si scambiavano opinioni, discretamente.
Lessi una dignità in quel gesto educato al cameriere: una felicità di esserci, intensa, stabilita.
Decisi che li avrei pensati sempre così, dritti sulle sedie col menù».

Gianluca D’Andrea
(Marzo 2016)

UNDERCORNER – Rubrica per giovani lettori (“Fight Club” di Chuck Palahniuk)

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UNDERCORNER – Rubrica per giovani lettori (Fight Club – di Chuck Palahniuk)

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Combattere contro qualcuno che non esiste eppure è sempre accanto a noi, non è davanti, non è dietro, ci circonda a trecentosessanta gradi, siamo incapaci di sfuggire al suo sguardo. Il senso di impotenza, figlio della totale assenza di spiragli, non farà che aumentare il potere di quell’ombra funesta che è il desiderio. Quel desiderio che alberga nel cuore di ognuno di noi e che prende forma ogni volta che, specchiandoci in un frammento di vetro, ci troviamo di fronte al migliore dei nostri riflessi: perfetto nella sua imponenza e magnificenza, dall’indiscutibile carisma e dalla dirompente personalità. Il nostro avversario più abile e al contempo il nostro premio, la somma ambizione, l’utopico possesso. L’origine di una fine è una miope frustrazione, la consapevolezza di non essere capaci di automigliorarsi e quindi la ricerca di un rimedio al mal di vivere e l’approdo all’autodistruzione. Questo è Fight Club: la storia di un’autodistruzione.
I personaggi sono delineati da grezzi contorni oscuri, qua e là bruciati da baci chimici o da fiamme di sigarette non ancora consumate, dietro questi grotteschi tratti scuri si può chiaramente distinguere ogni granello di umana angoscia. Come in un vortice senza fine sembra protrarsi la sofferenza, non esiste stabilità, ma solo dittatoriale anarchia. Le claustrofobiche brevi sentenze, i dialoghi velati di nero sarcasmo, le rivoluzionarie affermazioni capaci di trasformare ogni individuo in una scimmia spaziale, succube del fascino di un utopico e crudele sogno individuale, ci trasportano in un limbo solitario e al contempo sovraffollato. Non ci sono donne in questo mondo. O quasi. C’è Marla. Marla, la cui filosofia è “di poter morire in ogni momento” e la cui sofferenza viene dal fatto che ciò non accada; la causa concreta dell’inizio di tutto, madre del turbamento che per la prima volta farà apparire Tyler Durden, Marla che non ha un grammo di grasso in corpo e che non ama Tyler, ma qualcosa del genere. È l’unica donna ad avere un ruolo rilevante in Fight Club, ma non per questo assume la forma di uno stereotipo; è una persona “storta”, particolare, unica nel suo dolore e nella sua pazzia. Tutto è frenetico in Fight Club, confuso, interrogativo e spietato. E noi non capiamo più se ci troviamo tra le grinfie di una rivoluzione o nel bel mezzo di un dispotico universo. Ognuno di noi conosce Tyler Durden, che di colpo si fa più reale, più ostinato. Ognuno di noi vorrebbe essere Tyler Durden. Ognuno di noi, per questo motivo, lo colpisce. Non dimenticherò facilmente questo romanzo, che neanche nella sua morte trova una conclusione. È geniale. È semplicemente geniale. Un più realistico, moderno e violentissimo Dr Jeckyll e Mr Hyde. Noi siamo Tyler Durden, siamo Marla Singer, siamo una scimmia spaziale, siamo Big Bob, siamo Chloe. Tutto nell’arco di un attimo, senza neanche accorgercene. Perdiamo la nostra identità immergendoci completamente tra le pagine. Smettiamo di cercare dei limiti o delle mura, qualunque cosa vi sia dalle due parti. Scopriamo che stiamo combattendo. Li sentiamo, i colpi che Palahniuk ci sferra parlando dell’Ikea e delle nostre vite da consumatori. Desideriamo uscirne. Ci sottomettiamo alla sua idea rivoluzionaria. Ci sentiamo illuminati. Ma magari Fight Club lo stiamo leggendo proprio da sotto un piumone, con la TV accesa a fare da sottofondo e un divano Ikea sotto al sedere. E di colpo ci chiediamo quando anche noi avremo il coraggio di incontrare Tyler Durden. O forse ricordiamo il tragico epilogo del libro, decidiamo di passare oltre le pagine e di etichettare il narratore come uno psicopatico: scatti violenti, manie suicide… le stesse idee che pure una volta ci erano sembrate brillanti…come altro potremmo chiamarlo?
Improvvisamente ci rendiamo conto di quanto sia comodo il nostro divano Ikea e di quanto sia caldo il nostro piumino. Non è vero che non ci serve, altrimenti come riusciremmo a superare il freddo invernale? Forse abbiamo paura che i nostri comodi cuscini diventino verdi e umidi. Il dramma del narratore si poteva evitare? Il problema non sono i cuscini. Possiamo anche non riconoscerci nelle parole di Tyler Durden, ma prima di essere consumatori, siamo umani. E se per delle comodità siamo capaci di rinunciare a declamarci così in primis allora potremo dire di aver venduto i nostri principi etici per un tavolino facile da montare.

Charlotte Westenra

Le narrazioni (a cura di Daniele Greco) – Marco Belpoliti, “Primo Levi di fronte e di profilo”, Guanda, 2015

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Marco Belpoliti

di Daniele Greco

Leggendo Primo Levi di fronte e di profilo
(Marco Belpoliti, Guanda, 2015)

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«Primo Levi si è sempre opposto a chi leggeva le sue opere testimoniali, in particolare Se questo è un uomo, come opere letterarie: non è un romanzo, ripeteva. Ma al tempo stesso voleva essere uno scrittore, sapeva di esserlo» (p. 355).
Al centro esatto di quest’ultimo lavoro di Marco Belpoliti, Primo Levi di fronte e di profilo (Guanda, 2015), si trova una considerazione decisiva per provare a guardare in modo corretto all’opera di uno degli scrittori che più di altri ha fatto comprendere il Novecento dei conflitti e di quell’abominevole esperimento che sono stato i lager nazisti.
Nelle oltre 700 pagine di cui si compone il libro, Belpoliti traccia uno degli studi più ricchi e completi sulla vicenda intellettuale e biografica di Levi analizzando una mole imponente di documenti: romanzi, racconti, poesie, fotografie, recensioni, bibliografie, interviste, letture, traduzioni, saggi, spogli lessicali delle singole opere.
Il ritratto che ne esce è quello del “poliedro-Levi” (p. 16), cui Belpoliti si dedica da decenni, rielaborando e riscrivendo molti dei suoi testi per consegnare, più che un saggio tradizionale, “un dizionario, un’enciclopedia (…), un’«opera aperta»” (p. 16) che il lettore può leggere liberamente.
Colui che nel 1948 pubblica con De Silva Se questo è un uomo, dopo l’iniziale rifiuto di Einaudi – l’editore che in quegli anni inseguiva la forma del romanzo – è un uomo della borghesia torinese, di ottime letture, che si è laureato in chimica nel 1941 e nel 1944 è stato deportato ad Auschwitz.
Il suo esordio – afferma Belpoliti – è scritto “in una lingua straniera” (p. 119), che eccede il mero valore testimoniale e sentimentale, di molti altri testi coevi sulla shoah, e rigetta i temi dell’innocenza o della colpa delle vittime, del sacrificio o della loro sacralità (p. 121). Lo sguardo di Levi è fin da quel momento quello dell’ “etologo”, dell’entomologo (p. 123), dello scienziato che scruta come l’animale-uomo abbia potuto concepire e realizzare la deportazione di milioni di suoi simili nei campi di concentramento.
Non è un caso, pertanto, se dopo la conclusione del dittico della guerra, avvenuto nel 1963 con La tregua, alcuni critici e lettori si sono sorpresi della scelta di Levi di pubblicare dei brevi racconti di argomento scientifico e fantascientifico. Storie naturali (firmato con lo pseudonimo di Damiano Malabaila), Vizio di forma, Il sistema periodico segnano un passaggio decisivo nella produzione di Levi, il quale vuole fare emergere le sue doti di scrittore e pensatore onnivoro, di chimico prestato alla letteratura o di scrittore prestato alla chimica.
L’elaborazione del proprio sistema intellettuale, la cui griglia interpretativa lo avrebbe portato a concepire uno dei libri più importanti per capire a fondo il XX secolo, I sommersi e i salvati (Einaudi, 1986), passa attraverso queste prose.
La ricerca di una “congiungente, un meticciato fra le mie due attività (di chimico e di scrittore)” (p. 253) è finalizzata a pubblicare, ne Il sistema periodico, dei racconti che hanno come titolo il nome degli elementi della tavola di Mendeleev e il cui pretesto della chimica, che è il linguaggio della materia, serve a indagare, attraverso la letteratura, qual è il linguaggio della vita.
Ecco come una rilettura de I sommersi e i salvati alla luce dell’intera produzione di Levi e del libro di Belpoliti consentono di cogliere come Levi soppesi, misuri, analizzi al microscopio la natura umana, tra l’aspetto emerso – razionale, sociale e umano – e il fondo sommerso – cieco, irrazionale e animalesco – che sono sempre inestricabili. Colui che si è sempre percepito autore ibrido, un centauro della letteratura, che ha cercato di riunire nei suoi lavori queste due sfere d’interesse, ha lasciato in eredità un modo nuovo di guardare alla realtà che è il cuore del libro di Belpoliti.
Quale migliore lascito dell’opera leviana, segnaliamo nel libro la sezione intitolata “Lemmi” in cui, alla fine di ciascun capitolo, si analizzano le parole-chiave dell’alfabeto leviano (Lager, Tedeschi, Treno, Fantascienza, Ibrido, Animali, Antisemitismo, Chiaro/oscuro, Zona grigia, Memoria, Suicidio…).
I “lemmi” sono la tavola periodica di Levi, ricostruita da Belpoliti, la mappa sulla quale inseguire la multiforme attività di un protagonista del Novecento al quale restituire la centralità che merita, quella di essere stato uno scrittore completo e di prima grandezza e troppo a lungo considerato solo un “testimone”.

Fabula – Frammenti per la notte (a cura di Daniele Greco). Saul Bellow, “Il dono di Humboldt”, Rizzoli, 1976

di Daniele Greco

Saul Bellow, Il dono di Humboldt, Rizzoli, 1976

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Fabula – Frammenti per la notte (a cura di Daniele Greco). Alice Munro, “Maschi e femmine”, da “Danza delle ombre felici”, Einaudi, 2013

di Daniele Greco

Alice Munro, “Maschi e femmine”, da Danza delle ombre felici, Einaudi, 2013

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Fabula – Frammenti per la notte (a cura di Daniele Greco). Giovanni Arpino, “Azzurro tenebra”, Einaudi, 1977

di Daniele Greco

Giovanni Arpino, Azzurro tenebra, Einaudi, 1977

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Fabula – Frammenti per la notte (a cura di Daniele Greco). Dario Bellezza, “Morte di Pasolini”, Milano, Mondadori, 1981

di Daniele Greco

Dario Bellezza, Morte di Pasolini, Milano, Mondadori, 1981

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Fabula – Frammenti per la notte (a cura di Daniele Greco). Alain-Fournier, “Il grande Meaulnes”, Garzanti, 1981

di Daniele Greco

Alain-Fournier, Il grande Meaulnes, Garzanti, 1981

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