La fine di un libro di parecchio tempo fa è la descrizione medico-scientifica del processo di dissoluzione di un organismo morto.
Morte in vita, niente di nuovo, ogni morto che cammina, ogni zombi, è in attesa di concludere il suo ciclo, chiudere il cerchio, tracciare la parabola della fine.
Ma il mio corpo finirà in cenere e poi nello spazio assoluto, nella non-fine di un tragitto immaginato.
Osservai emergere dall’orizzonte
un filo scabro che divideva il cielo,
la notte stellata, l’onda di luce
dondolò un attimo
e infine gli occhi percepirono
l’urto del buio. Una terza linea
incendiò il quadro fino ad assestarsi
in un riflesso nero-scarlatto.
A lato della capsula una capsula,
un riverbero, una figura.
Ma fu un lampo perché le orbite
spezzarono la tangenza momentanea
e casuale che fu sostituita dal trascinarsi lento
in direzioni opposte delle capsule, come la fine
di un rapporto consolidato
nella sua ineluttabile
incompiutezza.
Come un filo d’argento,
come un serpente con le sue squame,
la nube era sorta all’orizzonte.
Le strisce gialle sulle pareti metalliche
rimbalzavano un bagliore bianco
soffuso. Ero immerso nell’osservazione dei fatti, eppure i miei pensieri sognanti e dispettosi mi fecero immaginare presenze. Una donna, dai capelli arancioni intrecciati che rilasciavano sfumature brune e riflessi mutevoli, si sporse da una delle pareti. La sua camicia larga e svolazzante, di un bianco sgualcito, spiccava su una gonna lunga, ugualmente sgualcita e di un rosso brunito, quasi vinaccia.
I fiori degli anni scandiscono il tempo (almeno nei miei ricordi vetero-libreschi) e la donna era l’immagine di chissà quale desiderio antico. Si muoveva ripetendo un unico gesto: sporgendosi dalla parete, piegava il ventre e si fletteva in avanti, ruotando il volto verso la sua sinistra, volgeva lo sguardo e non guardava, non lasciava trasparire alcun obiettivo, perché era la proiezione di chissà quale mio desiderio.
Chiusi gli occhi e sentii il torpore invadermi. Mi lasciai avvolgere dall’abisso e sparii.
Al risveglio, la donna ormai fagocitata nel cunicolo della memoria, guardai il riflesso sulle pareti,
il biancore suscitava un’atmosfera
allucinata. Le strisce di cielo
si riunivano per sganciare
fuochi propulsivi,
un’unica prospettiva
(come nella scena celebre per quanto arcaica di “2001: Odissea nello spazio”)
che scomparve,
mentre il giallo e l’arancione
cadevano, mescolandosi
in una nebulosa
sempre più vibrante,
sinuosa, da cui si staccò
come un serpente
con le sue squame
un filo di vapore
dissolvendosi infine
in un ultimo bagliore
d’argento in un’aurora
mercuriale.
Mi sveglio sempre come in quell’immagine
una volta celebre di Vertigo, immerso
nella lucina verde, nel riflesso alienante
spiazzato dall’ombra lunga che l’azione
umana ha proiettato per lungo tempo.
Prima del contatto, nel desiderio,
col feticcio costruito per destinarsi
alla dissolvenza, la finzione
amoreggiava col reale e l’eccesso.
Lo avvertivo e dovevo smorzarne la potenza,
contenerlo nello spazio minimo
della mia solitudine. Infatti
sullo schermo appaiono ancora oggi,
ogni mattina, dopo l’alba verde,
telefilm di famiglie sorridenti per relazioni
che bastano a se stesse e risollevano
lo spettatore da un quotidiano semiserio.
Un senso di colpa più alienante
della lucina verde mi dirige
alla ricerca di altre immagini,
di famiglie esplose in aeroporti
o metro, di corpi scarnificati a un soffio
dalla disintegrazione. La mia capsula
non può tornare indietro nel tempo,
è evidente, credo, per questo coordino
dalla console il peggio che l’uomo del benessere
ha prodotto, i suoi scarti, i consensi
superficiali, i corpi noiosi della gloria,
gli scheletri e i ventri estroflessi,
la riproduzione spettrale della materia
ripresa ed esposta a un compenso
che riproduce nell’ozio gli incubi
dell’essere di pienezza estinto.
Verso sera, al tramonto, mentre
la luce aranciata si mescolava
allo strato fuligginoso dell’atmosfera
e ombre giallastre s’imponevano
sullo spazio come aureole di luce
lunare, alla console suonava
un video anni Ottanta di Fiordaliso.
La nota accattivante del paesaggio
risiede nel contrasto tra l’assenza
e il desiderio: tu non ci sei
anche se sei presente
e io ti urlo contro, anche in absentia,
che desidero fare l’amore con te.
Prendermi il tempo per creare, nell’ozio,
il tempo della relazione che annulla
ogni scansione.
Poi, la vita ricominciava a battere
l’altro desiderio, l’allontanamento
definitivo da te. Ora, sono fuori
dal panorama, nel riflesso dimensionale
di un vetro, appoggiato a una balaustra
a guardare, attraverso il vetro,
la luna, la sua faccia di rena sbiancata,
il pallore della tua distanza
attendendo la prossima tempesta
canticchiando di quel che non voglio,
osservandolo.
Viaggiare nella capsula e nello spazio sembrava l’opposto che vagare nelle foreste del fondo marino. Andavo in giro e i miei capelli diventavano bianchi come la brina d’inverno (almeno da quel che posso ricordare). L’unico mostro era la luce, perché ognuno di noi era solo pur mantenendo contatto. Per questo tutti erano consapevoli di essere morti e attaccati alla vita, ecc.
Ogni dato, frammento, video, caricamento era un riflesso. Potenzialmente ogni solitudine era scomparsa perché ognuno bastava al contesto, in quanto spettacolo di se stesso; ogni scelta attivava un percorso di cunicoli la cui unica meta era il desiderio, ormai facilmente rintracciabile attraverso lo schermo della console. Tutti uniti nella dissociazione, collegati al desiderio che fagocita e ingloba e riproduce il desiderio, ecc.
Guardavo scene documentarie:
Lo spettacolo della luce, il fruscio
intermittente della luce
arrivava improvviso e terrificante.
Ondate possenti che rilasciavano
tutta l’angoscia accumulata nell’attesa,
inconsapevole e pacifica, della routine
di sguardi e riflessi che caratterizzava la vita
nella capsula. Le cadenze nervose
della luce, la violenza dell’impatto
che rende temporaneamente ciechi
e il fastidio ineluttabile di non vedere,
di pensare al buio e attendere
la scia lattiginosa della fine,
il risucchio prima della calma
basculante e soporifera: il riposo
e la noia che mi spinge
alla console a cercare giochi
di luce terrestre e l’arte di crepuscoli
e aurore eclatanti, spettacolari.
L’unica risposta allo sfacelo è proseguire nonostante il bruciore agli occhi, non per amore – concetto scaduto nella solitudine dei tanti riflessi – ma per amore di altri amori che arriveranno, è certo, dentro lo stesso riflesso in questa luce soffocante e deludente dello sfacelo.
Ricordai il gesto d’amore in una poesia di Brecht – altro nome scaduto nel tempo della fine – e il susino ironicamente, seriamente, abbattuto e ridotto a correlativo di un mondo trapassato.
Mi svegliai tremante e infreddolito
e iniziai a scrivere di quella scomparsa –
la console trasmetteva immagini testimoniali di un senso abbandonato e ridotto al consenso di un attimo, variato e ripetuto,
variato e ripetuto
variato e ripetuto, ecc.
La luce era calata, aveva assunto sfumature brune, poi violacee sempre più distanti. L’atmosfera, all’interno della capsula, stava tornando alla consuetudine per cui era possibile concentrarsi e raggiungere la console. Sentivo apprensione per gli abitanti delle altre capsule – come ogni volta che i bagliori diventavano insostenibili. Infatti, la sosta condivisa sembrava attenuare il disagio di dover accusare passivamente le azioni del mondo esterno. Ma la sensazione di aver subito una violenza fu presto sostituita dal desiderio di attrazione del momento, ed esserci dentro cancellò ogni malessere. Nella contemporaneità assoluta che solo i brevi momenti di rottura creati dalla luce esterna incrinavano, raggiunsi la console e avviai un video in cui istantanee con un’esposizione superiore e con soggetti d’ombra si susseguivano senza un significato apparente, ecc.
Molte volte la sensazione mi sorprese
d’inadeguatezza a seguito dei dolori
scaturiti da difetti congeniti
e da un’educazione da tempo dispersa
nel silenzio di queste notti
e giorni reinventati. Forse il cosmo,
questa luce plastica che si riflette nei corpi,
è una luce bruna in fuga
sulle grandi distanze tra i corpi.
Se non esiste prospettiva ma solo un grumo
di figure che illudono lo spazio
nella molteplicità infinita dei punti di vista,
non resta che l’accumulo
di immagini, mai ricomponibili in un racconto,
o in un raccordo col dopo
che qualcuno pazientemente ricostruirà?
Poiché la celebrazione della libertà è un sogno retorico, una montatura di parole che toccano valori condivisi iniettati di storia occorre ripetere con veemenza i concetti cardine di una volontà individuale che coinvolge l’altro, per indirizzarlo, ecc.
La libertà come valore scaduto, come residuo di un’illusione che supera il mondo. Il desiderio diventa reale nell’istante in cui tra medium e individuo non esiste confine ma un’unica appartenenza, un mondo unico in cui soggetto e oggetto sono attivati in uno scenario che scaturisce dal desiderio dello stesso soggetto e ne realizza la pienezza. Unico come uniforme o crepa nel dubbio e nella scelta? Unico come pienezza o inibizione?
Unico come tensione sempre irrisolta verso una totalità assente, uno sguardo sull’incompiuto, sull’apparato cunicolare che può ammettere una fuoriuscita ma non ne considera la necessità. Diversamente sarebbe uno scontro dialettico, con servo e padrone costantemente interscambiabili, invece a me – e a tutti i soggetti delle capsule – era toccata in sorte l’osservazione dei fatti accaduti, impastarsi nel fango virtuale di un mega-archivio, per selezionare barlumi e reimmetterli in un racconto impossibile, ecc.
Nel solco di mezzo, nella solitudine manierata che contraddistingue questi giorni nuovi – come sempre – traccio connessioni possibili tra gli eventi. Una maschera dopo l’altra, uno svelamento nel suo procedere.
Dalla luce indifferente e dorata
al tramonto dei sensi
nel cuore del desiderio, ecc.
Sdraiato sul letto dietro la console
osservo un tramonto terrestre.
La steppa confonde e disorienta,
i suoi odori provengono da ricordi
industriali ed erbe innominabili
suscitano un approccio tattile e un calore
estinto s’insinua nella distanza dal mondo
del prima. Il viola ostile
che si appressa ai campi e la bruma
sulla striscia aerea che avvolge
lo sguardo scende da un cielo immutabile.
Poi, come in una notte d’estate,
l’imbrunire trasforma il paesaggio,
la comunione crepuscolare e mediterranea
dei corpi in un riverbero, nel canto basso
all’orizzonte di una sfumatura dorata,
la fine nuda che chiude ogni riflesso.
Un ottantanove infinito, un ottantotto…
il nastro girava sulla stessa scena:
Ben Johnson batteva Carl Lewis,
Carl Lewis battuto da una bomba
mai esplosa. No, occorre osservare
bene, ricominciare (dalla console
nella mia capsula): Ben Johnson
abbatte il record del mondo,
la creazione dell’uomo supera l’uomo,
lo spirito olimpico è in esubero, lo spirito.
Giunge al tracollo lo spirito.
La realtà dice di polizie scientifiche
e di controlli scientifici e risultati scientifici, ecc.
Osservo lo scatto della scienza,
lo sprint della chimica, l’impatto organico
sulla linea della sostanza, sull’organon
risonante di tempo che sposta il traguardo
e lo oltrepassa. Il corpo sacro dello sport
è superato, nasceranno altri fenomeni
come fulmini e ultimi scenari
della storia. La storia della fine
inaugurata dal figlio della sfortuna
a discapito del figlio del vento,
con un’audacia che rende merito all’assenza,
all’adattamento, alla selezione
innaturale dei nuovi vincitori.
Come essere dentro un sogno i cui protagonisti sono attori, come essere dentro un film notturno o dentro l’acqua dopo aver attraversato la spiaggia, aver raccolto un oggetto indefinito ed essersi fatti attraversare da un’onda enorme, senza timore per l’impatto imminente, per la sopraffazione che avviene ma si dilegua in un attimo e apre a un nuovo scenario in cui il passato non è più ricordo di turbamenti ma proiezione, visione trasformata nel presente e il soggetto è solo me spettatore che ricorda a malapena il suo tragitto e il suo attraversamento. Vedo i miei desideri sfilarmi davanti come figure in carne e ossa o è la mia immaginazione a essersi assuefatta alla visione? Così le immagini sono sentimenti defunti e non desideri, nessuna utopia, nessun futuro.
Ma questo balenare
di dimensioni temporali
o immagini senza tempo
qui e ora sub specie aeternitatis,
questo eccesso di energia
nel bagliore accecante
è solo un riflesso che si libera
e concentra in questo punto
infinitesimale, in quel punto
focale che è ogni individuo,
oppure è il principio di una sfumatura
che si allarga, una macchia
che esplode il suo nucleo
in un abbraccio seriale,
un rizoma fatto di centri
che non sanno di comunicare?
Sembrava non guardare ma percepiva
esplosioni di luce – non il calore –
perché l’orizzonte picchiettava di bagliori
i vetri della cabina. La console distante
emanava i suoi colori e parole.
Un unico linguaggio fatto di segnali,
intermittenze, quasi la progressiva
scomparsa del corpo di ogni oggetto,
un alone, un’ombra come
nelle vecchie immagini di Hiroshima.
Ogni frammento di realtà rimaneva
sospeso ma al riparo da ogni minaccia,
eppure un pericolo imperscrutabile
sembrava incombere e provenire
dai bagliori. Ma lui era rannicchiato
al centro del corridoio, contro il pavimento
tiepido, su alcune lastre metalliche,
sfiorato dalle ombre dei corpi.
Il loro carattere era un insieme
di immagini latenti, scandite
in uno scenario che lui avrebbe voluto
occultare, ignorando o dimenticando i dettagli.
Il vero scopo di questo gioco a nascondere
sembrava risiedere in una volontà
passiva che non cercava indizi
e non credeva in alcun mistero.
La luce ormai blandiva
la capsula e i bagliori si attenuavano
mentre un’altra sera arancione
riempiva lo spazio e un senso
di raccoglimento emanava,
come in un riflesso concreto,
dallo schermo della console.