Per il fine settimana – Fabio Pusterla suggerisce Giorgio Orelli

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Giorgio Orelli (1998)

Questa settimana Fabio Pusterla suggerisce alcuni testi significativi di Giorgio Orelli, uno dei maestri della poesia, e non solo, del Novecento. Per ricordare con amicizia e trasporto l’autore svizzero e in attesa della pubblicazione dell’imminente Oscar Mondadori. Buona lettura.

Gianluca D’Andrea


Poesie – Giorgio Orelli
(scelte da Fabio Pusterla)

da L’ora del tempo (1962)

SERA A BEDRETTO

Salva la Dama asciutta. Viene il Matto.
Gridano i giocatori di tarocchi.
Dalle mani che pesano
cade avido il Mondo,
scivola innocua la Morte.

Le capre, giunte quasi sulla soglia
dell’osteria,
si guardano lunatiche e pietose
negli occhi,
si provano la fronte
con urti sordi.

*

FRAMMENTO DELLA MARTORA


A quest’ora la martora chi sa
dove fugge con la sua gola d’arancia.
Tra i lampi forse s’arrampica, sta
col muso aguzzo in giù sul pino e spia,
mentre riscoppia la fucileria.

*

PASSO DELLA NOVENA

A mezzo d’uno di quei giorni di primo settembre
che per cinti, selle e bocchette tiran fuori
dalla tana le finte pigre
marmotte e le addormentano sui sassi,
nel mio paese d’origine è ancora
tempo da fieno, tace
la madreperla della fisarmonica.
E lasciato l’ospizio (la donna dagli occhi
troppo azzurri, le teste dei camosci
da gran tempo caduti:
vita rappresa come dentro un quarzo!),
s’invecchia quanto più rari si fanno
gli alberi, quanto più il fiume
ringiovanisce.

Io e mio padre quando fu che bevemmo
la prima volta a questa fonte?
Già notturna è l’ombra
da cui risale il pastore a cacciare
le vacche ai cespi estremi.
E giunge con la riga del suo fischio
un uccello, s’arresta, gli trema
accanto l’erba mutellina.

Poi, sul passo, guardare, stancarsi di guardare,
chiudersi nel rumore fitto d’elitre,
scoscendere colà
dove al camoscio ultimo nato e incerto
volga gli occhi la madre,
soave per lo scoglio sconcio ed erto.

*

A UN GIOVANE POETA CACCIATORE

Ma se lo scoiattolo muore
con la nocciuola in bocca e lo raggiunge
nel folto del mattino un sole
come appena risorto, accendendolo
un attimo che durerà non meno d’un rimorso
(non un filo di sangue, e quel trambusto
per cui ti volgi invano, e, di là, nella radura,
quelle palate, non d’uccelli); se quella che ti passa accanto
nel silenzio che succede allo sparo
non sai di chi nell’alto del calanco,
pernice troppo pesa, ferita,
che precipita sì che tu la vedi
scendere vicinissima in un vuoto
concesso dalle pietre, zampettare, tacere…

***

da Sinopie (1977)

A GIOVANNA, SULLE CAPRE

No che non sono cattivose le capre di Dalpe.
Più che la voglia ingorda e l’anima vagabonda
saggezza le sospinge nei luoghi
più solivi della nostra conca
quando l’inverno è quasi senza neve,
e in giorni come questo luminosi,
vedi, non hanno corpo, non sono che macchie
nere sul greppo; e quella, immota contro il cielo,
potremo attraversarla tenendoci per mano.

Presto esulti, le chiami, gli porti fili d’erba,
lasci che l’una o l’altra ti venga a trovare,
e mentre t’annusa le tocchi il piccolo campano
che suona leggero ma franco più delle campanelle
dell’albero di Natale.

Guardala bene negli occhi, osserva
la tenace pupilla, e come (non piangere, vanno)
a una giusta distanza ci circondano
e pregano per noi.

*

A LUCIA, POCO OLTRE I TRE ANNI

«Di chi è questo odore?» «Questo odore
è del sambuco.» «Del san cosa?» «Del sambuco,
d’una pianta diversa dal pino sotto cui siamo passati
tante volte in questa falsa estate;
coi fiori del sambuco la nonna, la nonna Maria,
faceva la gazosa.» «Sì, è morta.»
Dura l’odore del sambuco, così diverso da quello del pino,
l’odore fresco del sambuco, parente
della robinia, qui, dove rane e immondizie
esagerano, e il sole
sembra affliggerti, figlia
nemica di ciascun crudele, che a volte mi guardi come sapessi
la vita che noi morti qui viviamo.

*

DAL BUFFO BUIO

Dal buffo buio
sotto una falda della mia giacca
tu dici: «Io vedo l’acqua
d’un fiume che si chiama Ticino
lo riconosco dai sassi
Vedo il sole che è un fuoco
e se lo tocchi con senza guanti ti scotti
Devo dire una cosa alla tua ascella
una cosa pochissimo da ridere
Che neve bizantina
Sento un rumore un odore di strano
c’è qualcosa che non funziona?
forse l’ucchetto, non so
ma forse mi confondo con prima
Pensa: se io fossi una rana
quest’anno morirei»

«Vedo due che si occhiano
Vedo la sveglia che ci guarda in ginocchi
Vedo un fiore che c’era il vento
Vedo un morto ferito
Vedo il pennello dei tempi dei tempi
il tuo giovine pennello da barba
Vedo un battello morbido
Vedo te ma non come attraverso
il cono del gelato»

«E poi?»
«Vedo una cosa che comincia per GN»
«Cosa?»
«Gnente»

(«Era solo per dirti che son qui,
solo per salutarti»)

*

QUADERNETTO DEL BAGNO SIRENA

I

Calmo e limpido il mare
che prende e dà memoria
e a te darà sopra tutto salute.

Il cielo in qualche zona
ha l’azzurro nutrito dal ferro
delle ortensie sul Ceneri.

«Vieni», dici, «fa’ il morto,
è così facile». A me
che appena il vivo so fare.

II

«C’era davvero il duca? e perché non è morto
vecchio? Gli è capitato qualcosa?
Perché ha il naso così? Perché era ricco
e aveva così tante stanze? Perché suo figlio
non ha avuto neanche un figlio? E queste scale
perché non gliele fanno anche alla nonna?»

«C’era, c’era davvero. Te lo racconterà
la mamma. Io quel che posso dirti,
adesso, è che quel duca, quel Federico, era come
il re di picche, viveva di profilo.
Gli altri duchi ce l’avevano intera,
la faccia, ma valevano la metà.

Col brutto tempo, al mare,
in una pensione gonfia di bambini.
Qualcuno dei nostri vicini d’ombrellone, due madri,
l’una figlia dell’altra, avevano deciso
di andare a Predappio, o meglio, lo aveva deciso
il marito (di quale?), industriale del nord.
Lo dissero, invitandola, a mia moglie.

«Predappio?», fa la poverina, «a Predappio a far che?»
«Ma a Predappio c’è il duce», dice la madre giovane.
«Sai, la signora è svizzera», dice la madre anziana.
«Pure», insinua la giovane, «ci sono
simpatizzanti anche lassù.»

E così, mentre quelli andavano a Predappio,
non certo a meditare sul nodo e la catastrofe,
sì per fortificare
il mito,
io, mia moglie e le due figliuole viaggiammo in una valle
stupendamente pezzata, sparsa di
lingotti d’oro bianco, finché, tra due colline,
là dove i bambini nei loro disegni mettono il sole,
scorgemmo, rosa vecchio, Urbino.

Dentro, profanavano l’ostia, flagellavano il Cristo.

III

Come viene la sera che sa mai
perché non tornano da tanto le rondini
a disegnare assenze di pensieri
che lasciassero tracce colorate
che sa che Pollok (con i pali blu).

Come viene la sera la Graziella
e la Lucia si lasciano gridando
ciao con echi di terra
e di mare che sembrano d’uccelli
fin che non s’odono più.

IV

Se n’è andato il tedesco di origine croata
con senza una gamba (dum dum
di partigiani iugoslavi).
La nonna che guardando
l’aquilone inciampava in se stessa.
La milanese, l’eterna altrui cara consorte
cui garbìno ritarda le cose.
Adesso Gino (prigioniero
quattro anni degli inglesi in Egitto)
può raschiare la spiaggia del Bagno Sirena
e il gabbiano misurare lampeggiando
lungo tratto di cielo prima di scomparire.

V

Dixit fascista: «Domani è bel tempo,
la bora continua a soffiare,
le stelle ci sono al settantacinque per cento».
La suocera disse che il vento era un altro
anche sul molo,
non poteva essere quello buono.
E aggiunse: «La bambina ha mal di stomaco,
cosa le diamo?»
«Niente», disse il fascista. Poi, dopo insistenze
dell’avversaria: «Se ha mal di stomaco
deve bere il bicarbonato
e basta».
L’amico del fascista ha fatto un gran girare.
Disse: «L’Europa ormai l’ho vista bene,
in qualunque luogo io vada so già cosa mi aspetta.
Chi sa dove mi allargo adesso».
E il fascista: «Parigi è una grande città».
«Come monumentalità», disse l’amico,
«Londra al confronto fa schifo. Del resto, escluso Piccadilly,
che è poi il luogo delle puttane,
Londra sembra il deserto. Eh no, Parigi è diversa,
è più accogliente. Però la città che mi piace
più di tutte è Venezia.»
«A me Roma»,
disse il fascista. «Napoli»,
disse l’amico, «la conosco, si tratta di viverci
pericolosamente».
«Buonanotte.»
«Buonanotte.» L’amico del fascista:
«Mi consolo pensando che domani
sarà bel tempo».

VI

Così piccola, e fragile… Ma Franco
(il Caudillo) sta meglio, torna a casa.
L’ha el cul che s’ul mett da la finestra
ai fa e nid i rundanàin.

VII

Lucia ha un po’ di febbre, resta a letto
e giuoca con due bambole piatte.
Una la chiama Paola, l’altra Sandra.
Le fa conversare col sole.
Dice la Paola: che me ne importa
se sono già morta.
La Sandra: è un sogno.

VIII
(Infallibilità. Buchi. Talidomide)

Venuta la canicola. Ne
profitta il Sant’Uffizio
per mettere i puntini sugl’i
dell’infallibilità. Per fortuna,
salvo qualche indulgente pidocchio,
non gli insetti che conoscemmo
le prime estati in due
varianti parimenti dogmatiche.

La motonave Leonardo da Vinci
annuncia che a più di trenta chilometri
dalla spiaggia operai
italiani, tedesche, francesi
e americani giorno e notte stanno
lavorando, perforando il fondo
marino alla ricerca del metano.

Si perdono bambini. Si ritrovano.
Poco fa Nunzia. «I loro genitori
possono ritirarla al Bagno Meridiano.»
Ma è tale, domineddio, la piccola germanica,
che né mani né piedi potrà mai
levare al cielo.

IN MEMORIA

È bastato un uccello che fuggisse
di sotto ai rami schietti di un sambuco
e un attimo radesse l’acqua verde
per ripensare a te, convinto
com’eri che “una fine con spavento
è meglio d’uno spavento senza fine”
(ancora annominatio, disco rotto).

Ma ecco avvampa nel suo training rosso
l’ex allieva che non ricorda nulla
e si ritempra col PERCORSO VITA.
Di stazione in stazione
eccola che s’arresta: flette, tende
il tronco, alza le braccia in alto,
le bilancia in avanti, poi cerchi,
salti accosciati, costali
sugli ostacoli, senza trascurare
le ginocchia, le anche,
fino al ponte
dove ti ritrovarono.

*

SINOPIE

(…)
mentre in disparte l’umiltà dei vinti
(…)
C.Rebora, Framm. XXXIV

Ce n’è uno, si chiama, credo, Marzio,
ogni due o tre anni mi ferma che passo
adagio in bicicletta, dal marciapiede mi chiede
se Dante era sposato e come si chiamava sua moglie.
“Gemma”, dico, “Gemma Donati”. “Ah sì, sì, Gemma”,
fa lui, con suo sorriso, “grazie, mi scusi.”
Un altro,
più vecchio, che incontro più spesso, son sempre io a salutarlo
per primo, e penso: forse si ricorda
d’avermi aiutato una notte di pioggia e di vento ch’ero uscito
per medicine, a rimettermi in sesto con suoi ferri (a quell’ora!)
una ruota straziata dall’ombrello.
Un terzo, quasi centenario, sordo, per solito
se appena mi vede grida: “Uheilà, giovinotto”, e dal gesto
si capisce
che mi darebbe, se potesse, una pacca paterna sulla spalla,
ma talora si limita a sorridermi, o, ad un tratto, eccitato
esclama: “Ha visto! La camelia è sempre la prima a fiorire”,
o altro, secondo la stagione.
D’altri
pure vorrei parlare, che sono già tutti sinopie
(senza le belle beffe dei peschi dei meli)
traversate da crepe secolari.

*

RICORDI DI M.

“La Franca Valvassori adesso
avrà la tua età.
Avevo cinque anni quando venne dai miei.
Mi ricordo il vestito giallo arancio
coi quadretti marroni.
Da piccola (mi raccontava) credeva che i ricchi
e i preti non facessero la cacca
non avessero neanche il culo
finché non ha visto un figlio di ricchi
fare la cacca nella vigna.
Lei certo non mi ha detto né cacca né culo, parole
che non giravano per casa.
Domestica, prima che da noi, in una città con un fiume grandissimo,
rifiutava d’uscire col figlio del padrone
perché figlio di ricchi
studente in medicina che un giorno
toccandola le disse: “Vedi Franca,
queste sono le mammelle, e questi
i capezzoli…”
Confidenze che non mi turbavano, invece mi terrorizzava
il racconto (ancora al suo paese)
del nonno che tornava di notte nella stanza
e lasciava impronte della mano
nere bruciate sul guanciale.
Dove sarà la Franca Valvassori?
Veniva da un paese dal nome
bellissimo: Foresto Sparso.”

*

FORATURA A GIUBIASCO

I

Nessuno che raggiusti biciclette?
Da un muro all’altro In gremio Matris sedet
sapientia Patris. L’immigrato
manovra seriamente le occlusive
dense della sua bella: ah che Carlo! ah che Porta!
Qui CELLE DI CONGELAZIONE, DO
IT YOURSELF CON TAPPETI,
là misericordine (giusto adesso
che, cauto, m’avvicino, scatta
la serratura dell’ingresso),
ed ecco DA QUI MOSSE I PRIMI PASSI
BERTA EDOARDO (amico
del Chiesa,
Chiesa Francesco, però:
un sì, un no ch’esitano sull’onda)
PER LE VIE LUMINOSE DELL’ARTE.
Ah, LAVASOL con signora Scerpella.
Uno schianto? Ma l’occhio della vecchia
dalla panchina mi guarda, le ortensie
hanno raggiunto tutto il loro blu.

II

Per dire in contropelo lo strazio
patito da una piazza
fra le più miti del mondo: ampio prato in pendìo
che tra castagni d’India e platani (danno ombra
ora a vuote automobili) allontanava
dolcemente le case verso i monti,
paese da scomporre e ricomporre
come un Bruegel, ad ogni stagione;
ed ora bello come un cesso nuovo,
una di quelle belle soluzioni
definitive
che i cervelli asfaltati dei nostri Consigli Comunali
trovano senza ombre di dubbi
nel sozzobosco dell’incultura.
E allora tu, cagnino, alza l’anca, irrora a lungo il frivolo
tappeto verde.

III

“Desidèri?” sospira
un’altra vecchia, “i miei desideri son quelli
della partenza. Ma senta il sogno che ho fatto stanotte.
Ero morta, e credevo d’andare, ma sì, in paradiso,
e vedo davanti a una casa, come là, verdina,
San Pietro che faceva
zoccole, ed io gli ho detto che avevo freddo, e gli ho chiesto
se la strada era quella, e San Pietro mi ha detto: “torna indietro,
che è più corta”, e mi sono svegliata”.

IV

Nell’ultimo sole non dico
Un fiore! ma Xuan Loc e vedo
– lucertola impazzita sull’asfalto
caldo ancora d’estate –
una ragazza che non sa dove andare
col fratellino in braccio
e gira gira su se stessa

V

Da qui,
da questo suolo tra i più intrisi di sangue,
si vede bene la nostra
bella zona di resistenza alla noia,
“chiave dei passi alpini”,
“roccaforte”… di che?
toppa patrizia dove
ci si risparmia,
si economizzano le proprie forze
in attesa di meglio o di peggio.
Troppo tardi ormai per guardare
con calma l’uva più bella
di cui la terza vecchia mi ha parlato
senza invidia mostrandomi un povero grappolo
della sua, straziata dal maltempo.
Quel poco che posso adocchiare
non mi sembra né greve né leggero.
Ma giusto alla mia altezza s’è accesa una stanza,
una donna si toglie la collana,
l’affida lentamente ad un astuccio.
Sorpresa, senza denti, risponde
(grilli per attimi gridano)
al mio saluto attento al cane
(all’ovvio, all’oppio, al cancro, al rincaro).

1975

***

da Spiracoli (1989)

da Quadernetto del mare

VII

Due di Spoleto in viaggio di nozze da un mese
in questa tappa a un tratto si sono seduti
sulla sabbia a nemmeno due passi da me.
Lei da molto che piange per cose che sembrano da nulla
e fanno il nulla davanti e di dietro, lui certo maldestro
anche nel rabbonirla, per poi lasciarla sola
a fare una pietosa barricata di sé,
col seme d’un disgusto già quasi insopportabile,
ed entrare lentissimamente nell’acqua, dove non nuota
e, piantato il tozzo corpo irsuto poco discosto dal palo
di sorveglianza, tanto si spruzza strofina la faccia
che pure lei sorride, ma no, non sorride,
in fretta salutandomi afferra la borsa s’accampa
lontano da me quanto basta per aspettare più sola
il ritorno dell’orso. Che a un cenno più franco
lentamente s’avvìa, ma sulla battigia s’arresta
e, storto, le mani sui fianchi: “Che ora è” quasi grida.
“Le sette” risponde la donna con calma incredibile,
lui senza dir niente si volta, entra di nuovo in acqua,
di nuovo si spruzza friziona con forza la faccia.
Quando infine decide di tornare
e di asciugarsi, un asciugatoio non basta,
lei gliene allunga tranquilla un altro col quale
si può insistere minuti e minuti nelle orecchie.

***

da Il collo dell’anitra (2001)

SULLA SALITA DI RAVECCHIA

“La vera comicità consiste in questo, che
l’infinito può trovarsi in un uomo senza
che nessuno, proprio nessuno, lo possa scoprire in lui”

Sören Kierkegaard, Postilla conclusiva non scientifica

Chi è questo che viene, che solo di vista conosco,
con senza spolverino di tinta neutra
e strani segni in faccia
e adesso che spingo a mano la bici in breve odore
di glicine mi segue da vicino e fa come volesse parlarmi
e prima di giungere in cima all’onesta salita,
sotto il cavalcavia dove nonni e bambini
si fermano a fare cucù: “Scusi”, mi dice toccandosi
svelto il cappello di falda severa,
“la borsa cade”.
“Grazie, è la solita storia, lasciamola
andare dove vuole”, sorrido, “tanto cadendo si avvita
al portapacchi, vede?, e lì certo starebbe
fino al Giudizio Universale; grazie,
comunque”.
(Sembra chiaro chiarissimo perché
tra gole stupite di merli
un ragazzo l’abbia fatta di corsa
questa mite salita, ma dove la strada pianeggia
cammini senza fretta;
sembra chiaro chiarissimo perché
d’un tratto una bambina sia andata fuori di casa
con un cuscino del letto sul capo sebbene non piova)

E lui, quasi fraterno, quasi mosso
da comprensione ironica di sé:
“Lei non conosce me, io svizzero tedesco di Zurigo,
io non tanti anni in Ticino, noi già
visti più d’una volta a Bellinzona
ma non parlato mai insieme, io testimone
di Geova, sa lei
che la fine del mondo è vicina e tutti i capri
saranno separati dai pecori, lei sa?”
“Lo so, ne ho sentito parlare sul treno del sabato
da una sua consorella”, rispondo e intanto
neri gallini cresciuti con fretta
per il gran compimento, becchi alzati
in nome della Legge, di profilo
ci guardano da un orto, “lo so perché anch’io sono oriundo
dell’aldilà”.

*

da Estive

A sinistra un leghista attempato
alla moglie: “Li metto nella borsa
gli occhiali?”. Lei: “Diocristo nella sacca!”
A destra una nonna baffuta che non si spoglia mai
e picchia il nipote dicendo “è solo un acconto”; e lui:
“Vacca!”, e giulivo tira fuori la lingua,
si accovaccia nell’ombra della sdraio a scavare nel naso.


 

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Giorgio Orelli a Prato Leventina, in una foto di Vincenzo Vicardi ©

Giorgio Orelli. Poeta e critico svizzero di lingua italiana (Airolo 1921 – Bellinzona 2013). Laureatosi all’università di Friburgo, dove ebbe tra i suoi maestri G. Contini, e stabilitosi (1945) a Bellinzona, si è dedicato all’insegnamento e all’attività letteraria, collaborando a numerose riviste (Il Verri, Paragone, Strumenti critici). Vicino ai modi della “linea lombarda” individuata da L. Anceschi, ma soprattutto sensibile, agli esordi, alla lezione di G. Pascoli e di E. Montale, e capace di recuperare con naturalezza gli echi più suggestivi della tradizione poetica italiana (da Dante ad A. Manzoni), ha privilegiato nella sua poesia il mondo circoscritto (il “cerchio familiare”) della sua patria svizzera, orientandosi, nelle ultime raccolte, verso cadenze più esplicitamente narrative. Ha pubblicato: Né bianco né viola (1944); Prima dell’anno nuovo (1952); Poesie (1953); Nel cerchio familiare (1960); L’ora del tempo (1962), in cui confluiscono con nuovi testi le precedenti raccolte; Sinopie (1977); Spiracoli (1989); Il collo dell’anitra (2001). Autore anche di un libro di racconti (Un giorno della vita, 1960), ha tradotto poesie di J. W. Goethe e pubblicato saggi letterari (Accertamenti verbali, 1978; Quel ramo del lago di Como e altri accertamenti manzoniani, 1982, nuova ed. 1990; Accertamenti montaliani, 1984; Il suono dei sospiri: sul Petrarca volgare, 1990; Foscolo e la danzatrice: un episodio delle Grazie, 1992).

(Fonte: “Enciclopedia Treccani”)

 

IN GENERE RITUS di Andrea Ponso – La traduzione "in genere ritus"

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Pianura d’ossa (rielaborazione di Gianluca D’Andrea)

di Andrea Ponso

IN GENERE RITUS – La traduzione in genere ritus

In Gv 2, 21 l’evangelista, riferendosi alla distruzione del tempio da parte di Gesù, ci dice che si trattava del “tempio del suo corpo”. Questa fondamentale sottolineatura giovannea potrebbe essere la base per provare a pensare alla traduzione letteraria in genere ritus. Questa dichiarazione teologica, infatti, sottolinea che sempre, quando si parla di esperienza, non si deve dimenticare che essa è per sua natura multimediale, estetica e spazio/temporale: il tempio non è riducibile alla sua costruzione, esso è anche (e forse soprattutto) fatto dell’insieme sinestetico dei vari linguaggi: perché il corpo, come il testo, parla e ascolta; compie azioni e gesti significanti ed è esso stesso significante nel suo insieme; inoltre, esso è sempre un corpo incarnato in un contesto storico e spaziale, culturale e temporale. E tutto questo ne fa un corpo rituale, vale a dire un tempio nel suo evento non riducibile alla mera linearizzazione cartesiana o della scrittura, alla sua costruzione, ai suoi apparenti confini e muri.
E così lo stesso testo non è riducibile alle sue coordinate logico-grammaticali o concettuali; esso non è un veicolo o un contenitore di significati e immagini solamente. Traducendolo, infatti, esso vive la sua multimedialità, ritorna a rivivere incarnandosi nella partecipazione attiva, interna, del traduttore, dell’esecutore e dell’ascoltatore/lettore – riportando al presente e alla presenza la sua origine, la sua archè: “in principio era il logos”, vale a dire che il principio, l’archè, non può essere collocato oltre o al di sopra dell’evento del testo e dei suoi contesti, ma nel logos che si fa carne, gesto, tempo e storia, sentire e patire, suonare ed essere suonati, accordare ed essere accordati.
Se la traduzione ha un qualche valore, dunque, non sta tanto nella sua capacità riduttiva di tradere e trasportare da un codice linguistico all’altro un pacchetto di significati, magari abbelliti dalla nostra sensibilità e adattati alle coordinate spazio-temporali e contestuali della nostra esistenza – ma dal rendere attiva e viva quell’archè, la sua “tradizione” in atto che, diventando corpo, gesto, sentire e incarnazione, ci rende fedeli sia alla nostra benedetta finitezza, sia all’inesauribilità significante della multimedialità storico-temporale di un testo-corpo che si fa carne.
Naturalmente, non tutto dipende da noi e dal nostro sguardo: questo sarebbe pura e semplice idolatria; la bellezza non è un trascendentale, e nemmeno il nostro modo di concepirla. Essa è piuttosto, anche nella pratica del tradurre, la grazia di vedere, vivere e sentire il tutto, con i sensi, lo sguardo e i linguaggi di un Altro/altro. È vedere, da una prospettiva religiosa, non la bellezza di Dio, ma il mondo con i suoi occhi, di sentirlo con i suoi sensi, di praticarlo con i suoi gesti e con le sue azioni. Questa alterità mai del tutto riducibile a noi stessi, è anche l’alterità del testo originale in una traduzione; e la sua bellezza non sta nel suo essere un oggetto disponibile davanti al traduttore, ma in quel lasciare ospitale che il traduttore cerca di instaurare per far si che sia il suo stesso sguardo guidato dallo sguardo dell’altro.
La condizione del traduttore, in definitiva, è molto simile a quella del profeta Ezechiele che, nel capitolo 37, si trova di fronte alla famosa “pianura d’ossa”: egli si chiede ma, soprattutto, chiede all’Altro/altro e a Dio, “Signore, potranno queste ossa rivivere?”. E forse quelle ossa, quell’immensa comunità-tempio e testo, non sono né vive né definitivamente morte; ma l’uomo e il profeta, come il traduttore, hanno bisogno di staccarsi dall’unicità del loro sguardo – come gli uomini di Babele – per aprirsi alla possibilità di vedere, esperire e vivere attraverso lo sguardo, l’esperienza e la vita dell’Altro/altro, di Dio stesso. Sta nello sguardo di Dio la bellezza, nelle sue modalità multimediali di vedere, non nel nostro affannarci a costruire le nostre idee di bellezza e di perfezione, di traduzione o di esistenza. Ma, nello stesso tempo, tutto questo non avviene “oltre” la pianura d’ossa, ma in essa e da essa. E forse le ossa della traduzione, amorosamente analizzate e studiate, potranno davvero rivivere anche oggi, nel nostro presente.
Tradurre è anche quindi sempre prendere coscienza di quella pianura d’ossa che è il testo, e della sconfitta salvifica a cui andiamo incontro. Ma tale sconfitta, tale luminosa e tragica finitezza, è il punto in cui noi ci stacchiamo dalle nostre pretese egoistiche di chiusura babelica, dalle nostre idee di bellezza e di giustezza/giustizia, per aprirci all’anticipazione che rimette carne e tendini su quell’ammasso seccato e confuso, per ridare vita.
Ed è proprio questo abbandono fiducioso – fiducioso nell’Altro/altro ma anche nella sua radicale limitatezza – che si esplicita nella parola di Ezechiele quando dice “Signore Dio, tu lo sai”: in queste parole c’è un’etica profonda, che può essere perfetta anche per la traduzione. Essa, come abbiamo detto sopra, lascia spazio alla bellezza come modalità del vedere dell’Altro/altro, come anticipazione e affidamento all’alterità e alla relazione con essa.
Tutto questo comporta anche una radicale critica al concetto classico e ipostatizzato, ideale, di bellezza e a quelle che un tempo, in ambito di teoria della traduzione, venivano chiamate “belle e infedeli”. E anche in questo ambito può esserci d’aiuto la teologia, attraverso la Croce: essa, infatti, è uno scandalo che tiene insieme simbolicamente e concretamente una critica radicale all’etica, al religioso, al politico ma anche all’estetico; è la crisi di ogni pre-giudizio etico, religioso, politico ed estetico. È anche la fine della bellezza come “idea”, come “copia”, come adeguazione ad un concetto o ad un dogma. La sua trasgressione impedisce ogni accomodamento dell’alterità, ogni protesi od ortopedia estetizzante, mostrando proprio nella sua finitezza e debolezza l’alterità in quanto tale, nella carne stessa di quell’evento, di quell’uomo, di quel textum vivente fatto di nervi e carne, di azioni e silenzi, di parole e di grida. Con la Croce, infatti,

«viene così ad infrangersi il primato del bello, o almeno di quello legato ai modelli consueti. La croce è una delle più potenti infrazioni dell’armonia e della proporzione, soprattutto se, alla luce della fede, si identifica il crocifisso col Figlio di Dio. La croce è la quintessenza della sproporzione: la sproporzione tra la gloria di Dio e la vergogna del patibolo. […] A ciò sono chiamate non solo le arti visive, e in particolare la pittura e la scultura, ma anche altre arti, dato che nella vicenda pasquale di Cristo c’è la parola dell’abbandono, il suono stridente dei mezzi di tortura, il movimento che conduce alla morte, la rottura del tempio. […] la rilevanza riconosciuta alla sensibilità indipendentemente da un archetipo ideale (almeno in buona parte del mondo biblico) in tempi più recenti diventerà così centrale da poter divenire il prototipo dell’arte: sono così poste le premesse per la sensibilità e l’azione “come” bellezza. In secondo luogo, dato che la sensibilità e l’azione sono segnate anche dalla bruttezza, vengono poste le premesse per una sensibilità e un’azione che sono oltre la bellezza» (G. Bonaccorso, L’estetica del rito. Sentire Dio nell’arte, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2013, pp. 38-39).

Il superamento di un archetipo ideale ha molto a che fare anche con la problematica della traduzione. Quasi sempre l’archetipo ideale viene dalla cultura e dalla lingua d’arrivo, imponendosi in maniera più o meno pronunciata sull’originale; senza contare che la stessa preminenza della divisione dualistica tra significato e significanti porta a privilegiare il primo a scapito dei secondi o, quanto meno, ad usare la forma e i significanti solo come possibilità di abbellire un contenitore in cui già il contenuto è in qualche modo fissato. Ci può quindi essere, nella traduzione, un idolo ideale della bellezza come forma che si adatta alle caratteristiche della lingua d’arrivo; e un idolo ideale della bellezza dei significati e dei concetti in qualche modo indipendenti dalla forma vista come qualcosa di accessorio o estetizzante, qualcosa come il tentativo di portare l’anima del testo originale in un altro corpo adattandola alla sua morfologia. In entrambi i casi le operazioni mancano propriamente il senso e la pratica dell’incarnazione. E questo, sia da una prospettiva di antropologia biblica, sia da una prospettiva cristiana, non è sostenibile.
Il modello, anche per la traduzione, dovrebbe quindi essere proprio quello della rivelazione:

«Se nel modello privilegiato dalla filosofia greca un aspetto decisivo è costituito dalla partizione del reale tra mondo sensibile e mondo ideale, nel contesto biblico emerge un’altra dinamica, che non ripartisce la realtà, ma nell’unico mondo esistente riconosce due poli radicalmente diversificati e allo stesso tempo profondamente intrecciati: si tratta della polarità tra il Signore e il suo popolo, tra il Creatore e la creatura, tra Dio e l’uomo. […] Non a caso la nozione di spirito viene a qualificarsi non come l’indicazione di un mondo alternativo a quello materiale, ma come la relazione tra Dio e l’uomo. […] la relazione teandrica, ossia la rivelazione di Dio all’uomo, si muove tra una dimensione etica e una dimensione estetica, insistendo ora più sulla prima ora più sulla seconda. Se però ci si riferisce alla bellezza, è quanto mai rilevante procedere a individuare ciò che anticipa l’uomo e il suo impegno etico: occorre cioè rivolgere l’attenzione a ciò che sorprende l’uomo come avviene nell’intervento estetico di Dio. Il bello estetico è primario rispetto al bello etico (o al bene), proprio come l’essere sorpresi dal rivelarsi di Dio è primario rispetto alla risposta dell’uomo. E poiché la rivelazione consiste tanto nel fatto che Dio intercetta la sensibilità umana, quanto nel fatto che per fare ciò deve muoversi verso l’uomo, ossia agire, il primato della bellezza estetica riguarda tanto la sensibilità quanto l’azione» (Bonaccorso, ibid., pp. 40-41).

In questa logica della rivelazione come incarnazione può entrare anche la dinamica più appropriata alla traduzione. L’essere anticipati dalla rivelazione presuppone una continua criticizzazione radicale dei nostri modelli di bello, di forma e di cultura (senza tuttavia cancellarli): chi traduce dovrebbe scoprirsi letteralmente anticipato e sorpreso dal testo che sta ascoltando e a cui sta lavorando, così come dovrebbe accadere al lettore. La forma è quindi quell’azione che ha la forza di imporsi anche contro, seppure dentro, le nostre categorie, non lasciandosi mai catturare completamente nelle regole e nelle estetiche della lingua d’arrivo. Questa rivelazione della traduzione potrebbe forse essere avvicinata a quella capacità individuata da Deleuze di rendere minore la lingua maggiore, di deterittorializzarla, di lavorarla dall’interno mettendola in una crisi positiva, senza perdere o addomesticare la novità e la sorpresa della rivelazione dell’estraneità e dell’alterità che l’originale porta sempre con sé.
Se si prende come esempio la riflessione di Rosenkranz sul “brutto” si potrebbe forse sostenere che anche la bellezza di una traduzione non sta tanto nella mimesis dell’ideale originale che, inevitabilmente, cadrebbe nelle consuete categorie della lingua d’arrivo, ma in un’azione e in una dinamica di relazione tra queste ultime e l’alterità e il non-consueto dell’originale che, di solito, si tende a neutralizzare. Non si può più immaginare, insomma, una relazione al bello ideale, al testo di partenza come archetipo assoluto, proprio perché, così facendo, si proietterebbero quasi inevitabilmente le nostre concezioni di bello, di ritmo, di proporzione, e alle regole specifiche della lingua d’arrivo; una lingua che porta già al suo interno tutto un insieme di valori e di idee, di forme e di articolazioni regolari del testo che non possono non spingerci verso la direzione prima stigmatizzata. Lo scontro che può portare anche al “brutto” e al non-consueto, nel nostro caso, è quindi riferito alla frizione e all’attrito che l’azione del tradurre dovrebbe portare inevitabilmente con sé. La riconsiderazione di tale attrito tra i due testi in questione, allora, ci porta anche ad una pratica del testo come corpo e fisiologia, ad una somatica, ad un tatto che non significa semplicemente e idealisticamente rispetto delle “buone maniere” della lingua d’arrivo, ma percezione della ruvidità e grumosità, dei vuoti e dei pieni di una fisiologia del testo che si espone alla mano nell’ascolto, nella pratica e nella lettura.
Tutto questo passa attraverso la centralità del significante, di un significante non contrapposto ai significati ma che, tuttavia, li eccede anche nella figura stessa di quel corpo/significante che letteralmente sta in primo piano, davanti al segno che la croce comunque è:

«se il lavoro sul significante prescinde da semantiche prestabilite, si può accedere a qualsiasi operazione artistica, trasgredendo continuamente i canoni estetici. La trasgressione diventa l’atteggiamento prevalente: non c’è una bellezza da perseguire (con l’imitazione o con l’invenzione) sulla base di qualche suo significato precostituito, ma un’esperienza da attivare lavorando costantemente sulle possibilità inedite del significante» (Bonaccorso, ibid., p. 53).

Anche per la traduzione, dunque, risulta di fondamentale importanza quanto segue:

«Se l’arte ha a che fare con la sfera dell’azione e della sensibilità, in tali sfere deve esprimere una sporgenza, o meglio un’eccedenza. […] l’arte sembra implicare l’eccedenza nel senso di ex-cedere, di andare oltre, senza che questo comporti una qualche idea precostituita di trascendenza. La dinamica estetica consisterebbe nel non lasciarsi tradurre e circoscrivere in una modalità lineare che sia espressione dell’ovvietà quotidiana. L’opera d’arte, anche quando impatta il brutto, eccede tutto ciò che è semplicemente scontato. “Potremmo dire che l’arte provoca una percezione selvaggia che scalza le sedimentazioni culturali, infrange i divieti, fa ritorno alla propria nascita nei dintorni dell’originario” (Dufrenne, Estetica e filosofia, Marietti, Genova 1989, p. 14). In quanto estetica, sensibile, l’opera d’arte appare: ma il suo modo di apparire consiste nel sollevare dal solito apparire. […] Sotto questo profilo l’arte non è mai una semplice imitazione di ciò che appare quotidianamente ai nostri sensi, non è mai propriamente mimetica. Più precisamente, non è mai mimesis del reale, ma è per così dire mimesis di un’esperienza in cui si attraversano soglie inedite del reale» (Ibid., p. 55-56).

Queste ultime considerazioni, in particolare, legate alla mimesis, diventano un vero e proprio obiettivo della traduzione come rito e liturgia: l’atto del tradurre non si limita a riportare mimeticamente e in maniera letterale l’originale, ma cerca di parteciparvi attivamente, di entrare nelle sue dinamiche, nella sua azione e nella sua estetica come sentire implicato e non meramente da spettatore esterno. Ecco perché, anche nella traduzione, la mimesis riguarda non tanto il testo, quanto piuttosto la sua esperienza vissuta.

Lo stesso spirituale, dato che parliamo principalmente della traduzione di testi sacri,

«non dovrebbe essere collocato nel contesto di una realtà separata da quella visibile, ma come un modo di vedere che oltrepassa ciò che appare per volgere l’attenzione alla ricchezza incontenibile dell’apparire. Il punto fondamentale è costituito dal gioco tra visibile e invisibile, tangibile e intangibile, udibile e inudibile, non come relazione tra due mondi eterogenei, ma come unità nel sensibile tra l’oggetto visto (il visibile) e l’atto di vedere (che è l’invisibile), l’oggetto toccato (il tangibile) e l’atto di toccare (che è intangibile), l’oggetto udito (l’udibile) e l’atto di udire (che è inudibile). Sotto questo profilo si può parlare di un’eccedenza rispetto agli oggetti sensibili che è il sensibile stesso nella sua complessità» (Ibid., p. 56).

Un contesto che, naturalmente, implica non solo l’impossibilità dell’oggettivazione totale, ma anche quello della soggettivazione:

«La dimensione contestuale dell’arte ora assume la valenza di una perdita del “soggetto” inteso come realtà individuale forte e originaria, e implica l’emergere di una sorta di iper-soggetto. Questo iper-soggetto è l’interattività, che ovviamente non elimina il soggetto, ma lo configura come componente di un’interazione senza la quale scompare l’orizzonte dell’arte» (Ibid., p. 69).

Anche questa è una caratteristica del rito che può essere avvicinata a quella della pratica della traduzione. Insomma, il “primato del processo artistico” è sempre prevalente rispetto alla “semplice

Per il fine settimana – Franco Buffoni suggerisce Constantinos Kavafis

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Ritratto di Constantinos Kavafis (fonte: Maya Angelou).

La rubrica “Per il fine settimana” è un suggerimento. Alcuni autori sceglieranno i versi di poeti amati. L’unica direzione della parola è quella della sua riattivazione attraverso la lettura, questo ne fa la storia. E questo è il nostro unico augurio. Oggi Franco Buffoni suggerisce Constantinos Kavafis.

Gianluca D’Andrea


Poesie – Constantinos Kavafis

In chiesa

Amo la chiesa con i suoi labari, con i suoi
amboni e le sue luci, e le immagini, e i suoi
candelabri, e l’argento dei vassoi.

Com’entro là, nella chiesa dei Greci,
con gl’incensi fragranti, con le sue liturgie
risonanti di voci e d’armonie,
con le parvenze dignitose e pie
dei preti, il ritmo greve di gesti e movimenti,
il fulgore dei lunghi paramenti,
corre la mente all’era bizantina, alle splendide
glorie di nostra gente.

(trad. di Filippo Maria Pontani)

*

Una notte

La stanza era povera e volgare
nascosta sopra una taverna infima.
Dalla finestra si vedeva il vicolo
stretto e sporco. Da sotto
venivano le voci di operai
che giocavano a carte, si divertivano anche.

E là, su un lettuccio da poco prezzo
ebbi il corpo dell’amore, ebbi le labbra
voluttuose e rosee dell’ebbrezza –
rosee di una tale ebbrezza, che anche ora
che scrivo, dopo tanti anni!
m’inebrio nella mia casa deserta.

(trad. di Nelo Risi)

*

Lo specchio nell’ingresso

Quella casa di lusso aveva, nell’ingresso,
uno specchio grandissimo, antico
almeno d’ottant’anni.
Un ragazzo bellissimo, il commesso d’un sarto
(la domenica, atleta dilettante),
era là, con un pacco. Lo consegnò a qualcuno:
quello andò dentro per la ricevuta.
Il commesso del sarto
restò solo. Aspettava.
S’avvicinò allo specchio. Si guardava; assestava
la cravatta. Portarono, dopo cinque minuti,
la ricevuta; ed egli la prese, e se n’andò.
Ma quello specchio antico, che in così lunga vita
ne aveva viste tante
– migliaia d’oggetti, di visi –
ma quello specchio antico s’allegrava,
s’esaltava d’avere accolto in sé
– per attimi – l’armonica beltà.

(trad. di Filippo Maria Pontani)

*

E s’informava della qualità

Aveva, in quell’ufficio,
un posto trascurabile, pagato male
(circa otto lire il mese; con gl’incerti).
Uscì, finito quel lavoro squallido
che lo teneva tutto il giorno chino.
Uscì: le sette. Camminava, adagio,
bighellonava per la strada. – Bello,
e interessante: egli appariva giunto
alla resa dei sensi piú matura.
Ventinove anni aveva finito il mese prima.

Bighellonava per la strada, in quelle
viuzze miserabili che portavano a casa.
Ma, passando dinanzi a un bugigattolo
pieno di cianfrusaglie dozzinali
per operai, di basso costo, vide
là dentro un viso, vide una figura
che lo spinsero forte a entrare. Ecco: voleva
vedere fazzoletti colorati.

E s’informava della qualità dei fazzoletti
e del prezzo; con voce soffocata
e quasi spenta per il desiderio.
E cosí, le risposte:
assorte, a voce bassa,
con un consentimento tacito.

Parlavano, parlavano dell’affare – ma uno
era lo scopo: un incontro di mani
là, sopra i fazzoletti uno sfiorare
dei visi, delle labbra, come a caso:
tatto di membra, un attimo.

Furtivamente, rapidamente. Perché il padrone
non s’avvedesse, immobile in fondo al magazzino.

(trad. di Filippo Maria Pontani)

*

Giorni del 1908

Quell’anno non trovò da lavorare.
Gli davano da campare
le carte, i dadi, prestiti in denaro.

Un posto gli era stato offerto: in una
Cartoleria, per tre sterline al mese.
Ma rifiutò senza incertezza alcuna.
Non faceva per lui. Quel salario da usura
A lui, venticinquenne, e di buona cultura!

Due, tre scellini al giorno, s e no, li rimediava.
Ma con le carte e i dadi non cavava le spese,
nei caffè della sua classe, volgari
sebbene lesto al gioco, con avversari sciocchi.
Quanto ai prestiti, poco da scialare:
un tallero, più spesso mezzo; e da qualcuno
si riduceva a prendere uno scellino, e basta.

Per una settimana, o per più giorni al mese,
si rinfrescava ai bagni, nuotando nel mattino,
quando scampava ai torbidi delle notturne imprese.

Erano uno sfacelo gli abiti. Sempre uno
il vestito che aveva, color cannella chiara
che il tempo aveva fatto scolorare.

O giorni dell’estate del novecento otto! A uno a uno
vi vedo. Dall’immagine vostra sparì – per una rara
magia – l’abito stinto color cannella chiara.

Ma l’immagine vostra l’ha serbato
nell’attimo che via da sé gettava
le vesti indegne e quella biancheria rattoppata.
Restava nudo, irreprensibilmente bello: una meraviglia.
Spettinati, all’indietro, i suoi capelli;
e le carni abbronzate, appena un poco,
da quella mattutina nudità, ai bagni, e sulla riva.

(trad. di Filippo Maria Pontani)

*

Aspettando i barbari

«Sull’agora, qui in folla chi attendiamo?»
«I barbari che devono arrivare»

«E perché i senatori non si muovono?
Cha aspettano essi per legiferare?»

«E’ perché devono giungere, oggi, i Barbari.
perché dettare leggi? Appena giunti,
i Barbari, sarà compito loro »

«Perché l’Imperatore s’è levato
di buon ora ed è fermo sull’ingresso
con la corona in testa?»

«E’ che i Barbari devono arrivare
e anche l’Imperatore sta ad attenderli
per riceverne il Duce; e tiene in mano
tanto di pergamena con la quale
offre titoli e onori»

«E perché mai
sono usciti i due consoli e i pretori
in toghe rosse e ricamate? e portano
anelli tempestati di smeraldi,
braccialetti e ametiste? »

«E’ che vengono i Barbari e che queste
cose li sbalordiscono»

«E perché
gli oratori non sono qui, come d’uso,
a parlare, ad esprimere pareri?»

«E’ che giungono i Barbari, e non vogliono
sentire tante chiacchiere»

«E perché sono tutti nervosi? (I volti intorno
si fanno gravi). Perché piazze e strade
si vuotano ed ognuno torna a casa?»

«E’ che fa buio e i Barbari non vengono,
e chi arriva di là dalla frontiera
dice che non ce n’è neppure l’ombra»

«E ora che faremo senza Barbari?
(Era una soluzione come un’altra,
dopo tutto…)».

(trad. di Eugenio Montale)

*

Per quanto sta in te

E se non puoi la vita che desideri
cerca almeno questo

per quanto sta in te: non sciuparla
nel troppo commercio con la gente
con troppe parole e in un viavai frenetico.

Non sciuparla portandola in giro
in balìa del quotidiano
gioco balordo degli incontri
e degli inviti,
fino a farne una stucchevole estranea.

(trad. di Nelo Risi)


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Constatinos Kavafis

Constantinos Kavafis nacque ad Alessandria d’Egitto nel 1863 da famiglia greca e morì nel 1933. Nel 1870, alla morte del padre, si trasferì con la famiglia in Inghilterra, per poi tornare nel 1885 ad Alessandria, dove, a parte alcuni soggiorni a Londra, Parigi e Atene, rimase per il resto della vita, lavorando come giornalista e come impiegato al ministero dei Lavori pubblici, all’epoca sotto il controllo dell’amministrazione britannica. Kavafis scriveva le sue poesie in lingua greca su fogli sparsi o fascicoletti che diffondeva solo nella ristretta cerchia dei suoi amici. Solo nel 1935, due anni dopo la sua morte, furono raccolte in volume 154 sue liriche, cui in seguito se ne aggiunsero altre da lui rifiutate. Solo a quel tempo, quando la sua opera fu conosciuta nella sua interezza, Kavafis ottenne, postuma, la fama che meritava. Cultore dell’età ellenistica ma anche del Basso Impero romano e di quello bizantino, Kavafis mostra nelle sue liriche uno spiccato senso delle stratificazioni culturali e storiche, che a distanza di secoli, secondo lui, continuano a permeare l’età presente.

 

SELMA – LA STRADA PER LA LIBERTA’

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Una scena dal film SELMA – LA STRADA PER LA LIBERTÀ

di Francesco Torre

SELMA – LA STRADA PER LA LIBERTA’

Regia di Ava duVernay. Con David Oyelowo (Martin Luther King Jr.), Tom Wilkinson (Lindon Johnson), Tim Roth (George Wallace), Oprah Winfrey (Annie Lee Cooper).
Usa/GB 2014, 127’.

Distribuzione: Notorius.

La prima delle tre marce da Selma a Montgomery per supportare la causa del diritto di voto degli afro-americani si svolse il 7 marzo 1965, e passò alla storia come “Bloody Sunday”. La sua ricostruzione sullo schermo è posta giusto al cuore della narrazione del film che Ava duVernay ha dedicato a Martin Luther King Jr., al revisionismo storico e al cinema politico. Una sequenza rabbiosa con un montaggio serratissimo, tagli di inquadratura audaci, lo sfocato usato come elemento pittorico e movimenti di macchina ora ampi e liquidi ora veloci e sincopati. Uno scenario di guerriglia armata che per tecnica e forza evocativa può ricordare le concitate sequenze di lotta civile dei film di Ejzenŝtein e dei formalisti russi, ma che più opportunamente rientra nei canoni estetici e linguistici del war movie, genere cinematografico cui peraltro il film rimanda sin dalle prime battute, sia nella struttura (per esempio tramite l’esibizione immediata di un’atrocità con la funzione di casus belli, la bomba di Birmingham con cui il Ku Klux Klan uccise quattro bambine nere, che però in realtà successe ben 2 anni prima dei fatti di Selma), sia nel lessico (trincea, esercito, soldati sono parole molte frequentate dalla sceneggiatura).
Eppure evidentemente Selma – La strada per la libertà non è un film di guerra, e nemmeno un western sebbene proprio la figura di King sembri forgiata nello stampo di Shane e dei tanti cavalieri della valle solitaria che hanno alimentato il mito della frontiera. Con i generi cinematografici classici, così come con il bio-pic, la regia di Ava duVernay ha anzi un approccio destrutturante e composito, che come nel Lincoln di Spielberg sembra mirare ad una narrazione complessa e stratificata atta a sublimare il senso della Storia tramite la mitizzazione di persone, luoghi e soprattutto immagini-simbolo (Deleuze avrebbe detto op-segni). Quanto ciò abbia a che vedere con la storia dell’evoluzione del linguaggio cinematografico, con la crisi dell’immagine-movimento, del nesso organico tra percezione e azione che ha caratterizzato tutta l’epoca della cosiddetta classicità, sembra piuttosto evidente. Meno chiaro è però il perché esigenze di tipo estetico debbano inficiare il rigore filologico e la verosimiglianza storica.
Al netto dei dialoghi pedagogici e dell’esuberanza degli artifici retorici di stampo visivo (piazzare un ritratto di George Washington in bella vista dietro ogni scena “a due” tra King e l’allora Presidente degli Stati Uniti Lindon Johnson è puro didascalismo), il film non sembra infatti capace di contemplare all’interno di uno schema narrativo coerente tutte le istanze socio-politiche del tempo. La morte di Kennedy e la guerra in Vietnam, per esempio, vengono appena accennate. Malcolm X è poco più che una meteora, e il suo assassinio – che pure avviene due settimane prima del Bloody Sunday di Selma – non sembra avere alcun peso nel processo di condizionamento mediatico dell’opinione pubblica sul tema dei diritti civili dei neri d’America. Gli stessi rapporti tra King e Johnson, qui raffigurati come una dialettica tra due diverse accezioni della politica comunque indirizzate verso lo storico obiettivo della rimozione della discriminazione razziale, sono stati al centro di polemiche e censure sul fronte interno in buona parte delle analisi critiche sul film.
Chi legge Selma secondo la lente del puro revisionismo di stampo manicheo, soffermandosi unicamente sulla rappresentazione storica degli eventi, sembra però non riflettere sull’obiettivo forse più importante che il film di Ava duVernay evidentemente si prefigge, quello cioè di dichiarare il diritto del popolo nero occidentale ad avere una propria letteratura cinematografica, un repertorio epico da giustapporre se non contrapporre – quasi alla stregua di una controcultura – alla Storia ufficiale. In questo Selma non è certo un prototipo: The Help, The Butler e 12 anni schiavo, per esempio, costituiscono dei precedenti altisonanti, nel cui solco il film di Ava duVernay trova una posizione dominante. Raffigurando i marcianti di Selma come un “quarto stato”, folla indistinta di uomini e donne che avanzano leggeri, eterei sulle strade dell’Alabama nel nome di un progetto comune, e recuperando poi nel reale repertorio di immagini del tempo i volti, gli abiti e anche le voci dei protagonisti di quella vicenda storica, c’è davvero la sensazione che – con tutti i distinguo che sono necessari al paragone – il racconto cinematografico delle 10 miglia della marcia di Selma potranno rappresentare per i neri d’America quel che i 100 passi di Peppino Impastato rappresentano nell’immaginario di ogni siciliano della generazione di mezzo. Tanto più che il film si nutre sì di un eroe giovane e carismatico – King aveva 36 anni all’epoca – ma narrato anche nelle sue più intime debolezze, nell’ordinarietà della vita familiare così come nel dissidio interiore di fronte alle conseguenze più estreme della lotta non violenta. Un gigante “spirituale”, un grande statista, un incredibile comunicatore, ma anche un uomo fragile, che nell’incipit del film immagina con ironia un destino da maestro di campagna, da ultimo tra gli ultimi, per sé e la propria famiglia. Agiografia? Il rischio c’è, ma la mediazione offerta da Oyelowo nell’interpretazione soprattutto degli “a duo” con la moglie Coretta (un’intimità palpabile che la messa in scena accentua con una totale sospensione dell’azione e la completa privazione dell’audio ambientale) preserva meditazione e mistero.
Di grande eloquenza e attualità, infine, più dell’acclamato discorso “We shall overcome” sul finale, il blocco narrativo in cui King svela a due giovani militanti – critici nei confronti della provocazione mediatica come strumento di lotta per i diritti civili – come politica e comunicazione siano tra di loro interdipendenti, e come la creazione di immagini costituisca di per sé un atto politico. Una lezione che Ava duVernay sembra aver imparato, anche a spese della verità.

La citazione: “Il nostro compito è negoziare, dimostrare, resistere”.

Per il fine settimana – O Germania, o frantumazione, o età di mezzo

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Mercedes vs Semaforo (rielaborazione di Gianluca D’Andrea)

“O Germania, o frantumazione, o età di mezzo”. Partendo da O Germania di Franco Buffoni (Interlinea, Novara 2015), con favola in appendice.

Buffoni, O Germania 180Se il libro di Buffoni, O Germania, sia una ricognizione della storia d’Europa attraverso la sovrapposizione delle vicende personali e le riflessioni, altrettanto personali dell’autore, alla questione del predominio tedesco all’interno dell’area euro, perde rilevanza a favore di altre considerazioni.
Non voglio certo approfondire, per mia debolezza strumentale, le eventuali potenzialità o fragilità di un’Europa evidentemente “germanocentrica”. Mi piace allora considerare la “frattura” dei caratteri emergente dalla lettura del libro, la cui prima sezione in prosa ha la valenza aneddotica, “perlustrativa”:

Mercedes vs Bmw

Una trentina di anni fa, quando ancora scorrazzavo per l’Europa in macchina, mi accadde un significativo episodio su un’autostrada tedesca. Percorrevo il breve tratto tra Bonn e Colonia, dove ero atteso all’Istituto Italiano di Cultura; ed ero in ritardo per via di un malinteso sull’orario. Guidavo allora una BMW 320 a iniezione, una vettura – guarda caso – tedesca, che in condizioni di assoluta sicurezza consentiva velocità molto elevate. Mi portai in corsia di sorpasso e pigiai sull’acceleratore: certamente viaggiavo oltre il limite consentito su quel tratto autostradale. Ad un tratto una Mercedes che avevo superato, d’impeto mi si fece vicinissima con i fari abbaglianti sgranati costringendomi a farmi da parte. Dopo avermi risuperato, la Mercedes rallentò fino a rientrare nella velocità consentita, ma senza lasciare la corsia di sorpasso. Impedendomi fino a Colonia di consumare la mia infrazione.
All’autista della Mercedes non avevo arrecato alcun disturbo, l’uomo non era in divisa, non era un tutore dell’ordine, era un comune cittadino. E se proprio vogliamo parlare di rischio, la sua manovra era stata molto più azzardata della mia. Ma l’aveva compiuta per farmi rispettare la legge. Sentendosi perfettamente virtuoso.
Questo episodio mi insegnò molte più cose sul carattere tedesco di un intero trattato di sociologia.

*

Odio e amore

Odio e amore, dunque, da parte mia nei confronti dell’immenso territorio che sta sopra la mia testa. E sopra quella della mia famiglia. Mio nonno Francesco Buffoni aveva fondato – recandosi personalmente in Prussia ad acquistare le macchine – uno dei primi ricamifici a Gallarate, nel 1910. Ma poi, sergente nella I Guerra Mondiale, per i postumi dei gas nervini austriaci, dal 1924 restò paralizzato su una sedia a rotelle. Morì nel 1944, mentre suo figlio Piero – mio padre – tenente di fanteria nella II Guerra Mondiale, si trovava nel Lager di Oberlangen, dove trascorse due anni sempre rifiutandosi di firmare per la Repubblica di Salò: aveva giurato fedeltà al re, mai avrebbe accettato di riacquistare la libertà passando alla “repubblica”, come scrive nel suo diario.
Sfuggì una frase a mio padre nei primi anni Sessanta, mentre il giornale-radio dava notizia dell’ennesimo assassinio di fuggitivi da Berlino Est. Alla mia domanda di scolaretto «I Vopos, le guardie di frontiera che sparano dalle torrette del Muro, sono russe?», mio padre – che della sua esperienza non faceva mai parola – bofonchiò: «Se fossero russe non prenderebbero così bene la mira».

*

Strade e elegie

Io sono stato decisamente più fortunato di mio padre e di mio nonno: quando compii vent’anni, nel 1968, ero studente alla Bocconi. Ma feci a tempo a conoscere le guardie di frontiera tra le due Germanie. Nel 1973 rientravo in Italia da Edimburgo – dove mi ero trasferito per continuare gli studi – con la mia 128 gialla targata Varese e comprata a rate. Cambiavo ogni volta itinerario: quell’anno presi la nave da Leith a Copenaghen, mi fermai ad Amburgo e poi decisi di visitare Berlino Ovest scendendo a Sud attraverso Lipsia e Monaco. Giunto in località Ludwiglust entrai nel territorio della DDR. Era il tramonto: fotografie di fronte e di profilo, permesso di transito. Non feci molto caso a ciò che stava scritto su quel foglio. Ripartii baldanzoso, ma non avevo fatto i conti con la strada, che subito dopo la frontiera divenne stretta e accidentata: in pratica era rimasta quella del tempo di Weimar o al più di Hitler. Alle otto di sera capii che non sarei riuscito a raggiungere Berlino Ovest per cena come avevo previsto. Mi fermai in una Gasthaus molto modesta. Dopo cena, stanco, chiesi una stanza per la notte. Al mattino ripartii e in un paio d’ore raggiunsi il confine.
Avevo un permesso di transito di sei ore. Dove e con chi avevo trascorso le altre dieci?
Auto, passaporto e bagaglio requisiti, cintura e stringhe sequestrate: in cella.
Alle tre del pomeriggio un ufficiale mi interroga: ripeto la nuda e cruda verità già detta al mattino ai graduati: avevo fame ed ero stanco, mi sono fermato a dormire. Dovevo dimostrarlo. E lì mi salvò l’amore per la lettura: mi ricordai che al Frühstück stavo leggendo Rilke e che probabilmente la ricevuta della Gasthaus era rimasta nel libro. Dal bagaglio requisito riapparvero le Elegie duinesi. Telefonata, conferma, rilascio con rimprovero severo: «Das ist sehr unmoralisch».

***

Il libro possiede, comunque, evidenti intenti polemici – l’ironia, sostenuta dallo schema del pamphlet è un innesto reattivo che scatena le possibilità critiche della parola di poesia, dirigendosi all’invettiva.

Oggi che la Germania

Oggi che la Germania
Non è più il mostro accucciato
Che ho conosciuto nell’infanzia,
Oggi che è tornata arrogante
E la sua
Meticolosità nell’efficienza
Mi appare per quel che è
– Nevrosi da obbedienza –
Io le ripeto: quieta, zitta, a cuccia
Già hai dato il meglio, non strafare.

La frantumazione politica in seno a un’unità che vira verso l’accentramento decisionale di un’unica nazione potrebbe condurre a vertici di orgoglio nazionalista, pericoloso e ambiguamente reazionario. All’interno delle nuove dinamiche capitalistiche si creano già nuclei non statali, aggregazioni più economiche che semplicemente territoriali: si fa luce una frustrazione autonomista in cui le stesse nazioni sono viste come vincoli per la produzione e lo sviluppo.
Paolo Gila in Capitalesimo (Bollati Boringhieri, Torino 2013) illustra significativamente l’ininfluenza dell’economia statale (e quindi il potere effettivo degli stati) al cospetto della invasiva e fantasmatica – invasiva perché fantasmatica – economia globale, la quale si nutre anche grazie alla turboplutocrazia in equilibrio sulle fibre ottiche della Net-sfera. In riferimento all’area euro, Gila ci informa che:

«Il potere sovranazionale si afferma grazie a due grandi mezzi: la moneta unica e la salvaguardia della cultura localistica. Non è un caso che il processo di integrazione dell’Unione Europea abbia spinto su queste due leve per affermarsi. La nascita dell’euro ha integrato mercati e popoli dentro un’unica piattaforma di liberi scambi. Il trattato di Maastricht ha fissato le regole generali di impostazione e sviluppo, il trattato di Schengen ha sancito le modalità di contatto tra le varie zone. Ma il piano complessivo è di tipo federale […]. Tuttavia nell’idea di “federalismo europeo”, quella cara all’ispiratore Jacques Delors, il regionalismo trova massima espressione. Così, mentre si rafforzano le decisioni a livello superstatale e comunitario, si irrobustiscono anche le autorità e le decisioni locali. In questa visione i particolarismi locali, le autonomie provinciali, le regioni, le macro-aree sono i naturali contraltari allo stato nazionale, che deve essere progressivamente spento a residuo, secondaria e marginale sfera di potere e di decisioni.
[…] Tutto ciò impone che gli stati cedano la loro sovranità ad un governo europeo. Se si vogliono trovare le antiche basi storiche, il modello europeo è stretto in una morsa doppia, tra la visione carolingia dei francesi con un forte apparato centrale in un contesto di difesa delle autonomie locali e la visione tedesca che rievoca la lega anseatica, con la libera circolazione delle merci nelle zone franche, e la dinamica teutonica di avanzamento graduale per integrare territori e regni.
[…] Ma il disegno tedesco di riunire in un unico modello di riferimento con una sola area monetaria l’Europa era già presente nell’Internazionale Institut für Nationalitätenrecht und Regionalismus, più comunemente noto come Intereg, fondato nel 1977 a Monaco di Baviera. L’Intereg è un nodo nevralgico di una rete estesa […]. In Europa, falcidiata da una serie di guerre funeste, si dovrebbero abolire le nazioni per dare vita a ciò che “in passato erano i piccoli principati di Burgundia, Piccardia, Navarra, Alsazia, Lorena, Saar, Savoia, Lombardia, Napoli, Venezia, gli Stati Pontifici, la Baviera, il Baden, il Galles, la Scozia, la Cornovaglia, l’Aragona, la Catalogna, la Castiglia, la Galizia” e via discorrendo. Quasi nascosta come un fiume carsico, questa cultura è riuscita a progredire, a farsi forte, a condizionare le opinioni dei politici e ad avere il gradimento dei mercati e dei suoi operatori, tanto da ispirare, ad esempio, il progetto del filosofo politico Rudolf Hilf di una “Convenzione Internazionale per i diritti dei gruppi etnici” insieme ad un “Protocollo europeo delle regioni”.
[…] I pezzi del puzzle si compongono negli anni e nel territorio: l’Europa è un fermento di idee che hanno un obiettivo chiaro, quello di comporre un’unica area monetaria dove lo spazio di autonomia sia concesso in prevalenza alle realtà locali e in subordine alle istituzioni statali, che devono essere stemperate nella sovranità superstatale. È un modello che somiglia ai regni del Medioevo, in quelle regioni dove, sotto l’egida di un sovrano che aveva l’autorità centrale e il potere di legiferare e di coniare moneta, le genti locali potevano continuare a vivere nel rispetto delle proprie tradizioni e del diritto romano che seguivano da anni. Certo, le differenze tra la realtà attuale e quella passata sono notevoli, ma l’affinità e la consanguineità dei modelli sono altrettanto robuste. La novità che la storia attuale presenta rispetto al passato è il ruolo del mercato.

[…] Il 17 luglio del 2012 il governo italiano ha approvato lo statuto e la convenzione del GECT (Gruppo europeo di cooperazione territoriale) tra Friuli Venezia Giulia, Veneto e Carinzia, autorizzandone la creazione. Si tratta della prima esperienza di Euro-Regione senza confini, che sarà progressivamente dotata di propri organi istituzionali e si occuperà di sviluppare progettualità comuni in modo semplificato, attraverso un’unica rappresentanza comune. Attenzione, il GECT Friuli Venezia Giulia, Veneto e Carinzia, potrà chiedere fondi e risorse finanziarie direttamente a Bruxelles senza dover passare dai rispettivi governi nazionali, italiano e austriaco, per la preventiva autorizzazione. A ciò si aggiunga che i prestiti erogati all’Euro-Regione non andranno a gravare sul debito pubblico degli stessi stati. Una rivoluzione epocale».

(Paolo Gila, Capitalesimo, cit., pp. 49-52).

***

Il ragionamento sui caratteri dei popoli cammina sul filo dell’aneddotica di matrice romantica. Eppure desidero anch’io chiudere questa piccola riflessione con un aneddoto perché, forse, è proprio dentro il “comune” del “luogo comune” che risiede un nuovo orientamento, certo individuale che, in O Germania risalta evidente, non significa sempre restrittivo.


APPENDICE: Favola meridionale con clacson

Era un giorno qualunque, un mattino qualunque d’inizio estate. In quella particolare città siciliana, in cui mi ritrovai per nascita a vivere molti anni e alla quale mi sento molto legato – come una chiocciola al cespo di lattuga in un orto abbandonato – accade che le persone abbiano la consuetudine di attendere, con qualunque mezzo di locomozione a disposizione, lo scatto del semaforo verde con la mano appoggiata sul pulsante del clacson. Il motivo di tale pratica risiede nel gioco di riflessi e nell’apprensione sonora utile alla necessità di far proseguire la circolazione stradale.
L’abitudine è tanto radicata che i conducenti molto spesso non fanno più attenzione al semaforo e si concentrano sul richiamo sonoro, non più sentito come rimprovero ma come necessità. La mescolanza di necessità e comodità caratterizza un habitus mediterraneo tra i più diffusi, di quella latinità, cioè, screziata da molte culture.
Tornando a quella mattina, non occorre aggiungere che mi trovavo in macchina, alla guida, e non mi erano consentiti alta velocità o sorpassi di sorta, ma prospettive di imbottigliamenti e teorie di veicoli ai semafori. Di fronte al Palazzo della Provincia, in quella particolare città, si staglia la copia di una statua famosa che rappresenta Nettuno nel gesto di placare le salse acque. Il gesto (apotropaico?) simboleggia la difesa della città e dei cittadini in essa contenuti, ma le terga della statua, rivolte alla terra ferma, richiamano buffamente l’abbandono metonimico al destino di tutto ciò che in quella terra è contenuto: un deretano dritto in faccia alle amministrazioni “civili” di un luogo che si produce fagocitandosi nell’arrembaggio più brutale alle cariche pubbliche, sistemazione per l’individuo senza riguardo al collettivo. Vicino alla statua, comunque, sulla strada che porta al centro città, c’è un semaforo. Proprio in questo punto mi ritrovai in coda con la mia autovettura, in attesa che un segnale ci portasse alla continuazione del tragitto. Aspettavo, aspettavo svogliatamente ma con la rigida convinzione etica di non suonare il clacson allo scattar del verde. Nonostante il proposito, chi mi precedeva pensò bene di aspettare il segnale sonoro rinunciando all’attenzione per quello visivo e, in buona sostanza, fui costretto a suonare il clacson, mandando gestualmente a quel paese il mio concittadino. Svincolato dal primo intoppo, continuai lentamente il mio percorso al semaforo successivo, dove mi attendeva l’altro capitolo dell’avventura segnaletica. Uno sconosciuto in motocicletta accostò l’autovettura con me alla guida, chiedendo a gesti la possibilità di interloquire. Costretto dalla pausa forzata, in attesa di un segnale, abbassai il finestrino mettendomi in posizione d’ascolto col gomito sullo sportello, in un atteggiamento tra il sussiegoso e l’indolente. Lo sconosciuto mi rimbrottava riferendosi a quanto accaduto al semaforo precedente: pur non essendo coinvolto in maniera diretta, mi disse quanto fosse ingiusto mandare a quel paese chiunque per un errore, una svista – e non siamo tutti passibili d’errore? – un non comprovabile sbaglio che non giustificava la mia reazione stizzita e pulsionale. Non ebbi il tempo di controbattere all’accusa perché scattò il verde e lo sconosciuto ripartì sgommando sulla sua moto, lasciandomi solo ad ascoltare i clacson reboanti che mi svegliavano da quell’accusa imprevista. Riflettevo sulle parole «tu non hai mai sbagliato?», forse banali eppure cruciali in quel momento – come a ogni incrocio semaforico – in cui si perdeva il confine tra la regola e il suo eccesso, dove l’habitus diventa alibi che può giustificare un comportamento ritenuto “incivile”, dove l’individuo si separa dalla collettività e persegue il proprio errore.
O Germania, consentici, ancora, la potenza dello sbaglio, di riflettere sulla norma; o Italia, rifletti con decisione sulla norma come potenzialità della condivisione.

Gianluca D’Andrea

 

IN GENERE RITUS di Andrea Ponso – Cosa c’entra il rito con la letteratura?

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Eglise Saint-Eustache (2014)

di Andrea Ponso

IN GENERE RITUS – Cosa c’entra il rito con la letteratura?

Perché mai provare a scrivere con regolarità in un sito come questo, che si occupa essenzialmente di letteratura, proponendo temi che non lo riguardano, almeno in apparenza, come la riflessione teologica e rituale? Le risposte potrebbero essere molte e, per nostra fortuna, nessuna completamente giusta. Il rito ha sicuramente legami con il ritmo, con le forme e le metriche, con l’estetica intesa nel suo senso primo; possiede anche quella capacità che chiamiamo sinestetica, tipica della scrittura poetica. Ma, soprattutto, ed è questo che più mi interessa, ha relazioni strette con la parola, ma in una modalità che mi pare fondamentale: nel rito la parola non è mai “prima”, non dovrebbe mai essere esaltata a scapito degli altri linguaggi e codici.
Chi si occupa di scrittura, oggi, spesso dimentica questa umiltà del rito di contro alla prevalenza occidentale della parola e della sua linearizzazione alfabetica – anche se in poesia essa viene continuamente spezzata quando pensa di essere giunta alla “fine” e riportata ogni volta al suo umile inizio al verso successivo. Del resto, questa critica al logocentrismo è una considerazione che ritroviamo, ad esempio, anche ne Il teatro e il suo doppio di Artaud, e che tutta l’antropologia e la storia delle religioni non smette di sottolineare come un dato sicuro e, aggiungo io, felicemente liberante.
Ci si dimentica che “in principio” non c’era probabilmente la parola ma, come ci ricorda Goethe, “l’azione”, il gesto, il movimento, la danza; e che i primi nomi dati alle cose erano gesti, azioni, organizzazioni dello spazio: e non è un caso che in molte lingue antiche, come ad esempio quella ebraica, il verbo abbia grande importanza, ritrovandosi anche in quasi tutte le formazioni delle radici delle parole. Questo ci rende consapevoli che la nostra presunta padronanza del linguaggio verbale, dei concetti e delle idee, non è altro che una convenzione perché la nostra mente lavora embodied, incorporata alla carne, alla fisiologia e al respiro; che la percezione è già una rappresentazione e che i significati sono veramente meno importanti, nella loro effettiva incisività, rispetto a tutte le altre componenti della comunicazione. Che la schematica divisione tra significati e significanti non è altro che un espediente, come del resto la stessa suddivisione tra prosa e poesia: il continuum del ritmo (che, come abbiamo visto, è quasi un sinonimo del rito), direbbe Meschonnic, di contro al discontinuo delle nostre categorizzazioni, ha la forza di modificare le nostre bloccate percezioni e idee sui generi e sul nostro stesso modo di pensare. Del resto, nella Bibbia tale divisione in generi dal punto di vista formale, sembra non avere nessun fondamento.
Il rito, come l’autentica riflessione teologica, non può mai essere messo a tacere completamente attraverso una sua esaustiva descrizione, mediante una sua definizione esauriente: la sua multimedialità, l’incrocio sinestetico di vari campi della percezione, delle pratiche e dei saperi, la sua capacità di mostrare l’invisibile nel visibile, senza cancellare il mondo, il corpo, il tempo e lo spazio, ci dice qualcosa di fondamentale sulla vita, indipendentemente dai dogmi e dalle credenze di ognuno di noi. Inoltre, ci obbliga ad una partecipazione attiva, sempre, senza lasciarci comodamente seduti nel ruolo di spettatori passivi o, peggio, distaccati e puri. Anche la scienza, come sappiamo, ha da tempo compreso la rilevanza dell’osservatore in rapporto al suo oggetto, e il fatto che il pensiero e ogni sua attività è qualcosa di diffuso, indistinguibile dai sentimenti, dai gesti, dai contesti e dalla stessa carne vivente che siamo, che la res extensa non si contrappone alla res cogitans, e che quindi ogni nostra attività e coscienza è sempre embodied, embedded e extended – come ci dicono ormai da tempo i ricercatori. Ed è per lo meno strano occuparsi di letteratura, estetica e poesia senza avere almeno una vaga cognizione di tutto questo.
La famosa definizione di Florenskij relativa all’icona in rapporto alla pittura prospettica mi sembra perfetta per avvalorare le brevi considerazioni appena fatte. Quelle che Florenskji chiama “trasgressioni dell’unità prospettica” sono propriamente la forza dell’icona, e non la sua debolezza; esse costringono lo spettatore a non essere solo spettatore, ma a partecipare all’evento uscendo dalla limitatezza del suo punto di vista prospettico, o di un solo punto di vista esterno all’opera: in questo modo non si può che entrare nell’evento dell’icona, rompendo e trasgredendo la falsa realtà/naturalità creata dalla prospettiva pittorica. Tutto questo, tra l’altro, permette di non confondere mai graphé (disegno) da perigraphé (circoscrizione/circoscrivere): di non cadere mai né nella concezione dell’immagine come mero contenitore accessorio al trasporto di significati, né al pericolo idolatrico. In questo modo, inoltre, il sensibile è lo spazio dell’epifania del suo oltre, il visibile dell’invisibile. Stare davanti all’icona è letteralmente l’impossibilità di rimanere fermi nel proprio limitato punto di vista prospettico soggettivo, magari spacciato per “naturale” o universale. Significa anche non esaurire la multimedialità contenuta nell’esperienza testuale nella pura linearizzazione alfabetica.
La cosa straordinaria, anche nel senso di profondamente deprimente, è che sono giunto a questo tipo di conoscenza non attraverso gli studi letterari che ho concluso, ma grazie a quelli biblici, teologici e liturgici. Magari sarà solo un mio personale percorso, una privata traiettoria di ricerca che mi ha portato qui; ma forse si tratta di qualcosa di diverso, di più universale. Il pressapochismo di tanti “attori” del mondo letterario, l’improvvisazione scambiata per freschezza e immediatezza comunicativa, la quasi assoluta ignoranza di fronte agli strumenti e ai codici, le trite e ritrite idee relative all’ispirazione, alla fisiologia e alla mente, che molti letterati si ostinano a perpetrare quasi con orgoglio … tutto questo porta la letteratura e in particolar modo la poesia in una sorta di ghetto scambiato per regno aristocratico – aristocratico anche quando si arroga la pretesa del sociale, del “parlare a tutti con il linguaggio di tutti”. Questa camera stagna mi ha tolto il respiro e mi ha spinto fuori. Ringrazio Dio per tutto questo. E mi scuso con tutti se è solo una mia personale “prospettiva”: vorrei invece fosse almeno l’ombra di un’icona.


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Andrea Ponso (2014)

Andrea Ponso è nato a Noventa Vicentina nel 1975. Dopo studi letterari sta concludendo quelli teologico-liturgici. Si occupa di letteratura, teologia e traduzione dall’ebraico biblico e collabora come editor per alcune case editrici. Ha pubblicato testi di critica e poesia in varie riviste, mentre il suo ultimo libro, I ferri del mestiere, è uscito per Lo Specchio Mondadori nel 2011. Una sua nuova versione del Cantico dei cantici uscirà per Il Saggiatore nel 2015.

Per il fine settimana (il paesaggio) – Andrea Zanzotto

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Giorgio Dario Paolucci, Monfumo, 1967

Per il fine settimana (il paesaggio) – Andrea Zanzotto

e ogni fioca paralisi
ogni aberrata biologale frana

(IX Ecloghe, Ecloga V, vv. 60-61)

IN BASSO

Sull’immenso declivio dei greti
oltre i limiti del vento
i paesaggi si spengono in foglie
e tenta il sole nuvole remote.

Tanto godé chi visse
che la ricca memoria marcisce
e di bellezza l’anima è stanca;
alle sterili cacce ora s’accende
e nei boschi affonda
i cammini pesanti
in basso, dove al lume
di morenti bufere
nobili cani e uccelli
incalzano l’ultimo autunno.

Dei ruscelli fantasia
di bimbi ignari non resta
che una trasparenza di gelo.

Ma se appari
sulla strada, improvvisa,
e chini il capo sorridendo,
ancora un raggio ha il tuo monile.

(da Dietro il paesaggio, 1951).

*

NOTIFICAZIONE DI PRESENZA SUI COLLI EUGANEI

Se la fede, la calma d’uno sguardo
come un nimbo, se spazi di serene
ore domando, mentre qui m’attardo
sul crinale che i passi miei sostiene,

se deprecando vado le catene
e il sortilegio annoso e il filtro e il dardo
onde per entro le più occulte vene
in opposti tormenti agghiaccio et ardo,

i vostri intimi fuochi e l’acque folli
di fervori e di geli avviso, o colli
in sì gran parte specchi a me conformi.

Ah, domata qual voi l’agra natura,
pari alla vostra il ciel mi dia ventura
e in armonie pur io possa compormi.

(da IX Ecloghe, 1962).


Il paesaggio come eros della terra (estratto)

…Ma la poesia “realizzata”, anche quella riconosciuta (ma sempre a posteriori) come la più conscia delle leggi stilistiche soggiacente ai propri meccanismi espressivi, è in realtà connessa a un enigmatico-angosciante processo di “genesi” dagli esiti imprevedibili, configurandosi come groviglio inestricabile di fantasmi che aderiscono al vissuto individuale. Questo vissuto primo è per me il paesaggio…

…Il paesaggio, a ben vedere, ovvero quello che noi chiamiamo «paesaggio», irrompe nell’animo umano fin dalla prima infanzia con tutta la sua forza dirompente; da questo “stupore” iniziale ha origine la serie interminabile dei tentativi (tattili, gestuali, visivi, olfattivi, fonatori…) compiuti dal piccolo d’uomo per giungere ad esperire le cose come si verificano; ma fino a quel momento egli deve illudersi, avvertendo soltanto una specie di “movimento di andata e ritorno”, o di “scambio”, tra l’io in continua e perenne autoformazione e il paesaggio come orizzonte percettivo totale, come “mondo”. Il mondo costituisce il limite entro il quale ci si rende riconoscibili a se stessi, e questo rapporto, che si manifesta specialmente nella cerchia del paesaggio, è quello che definisce anche la cerchia del nostro io…

…il paesaggio diviene […] qualcosa di “biologale”, una certa qual trascendente unità cui puntano miriadi di raggi, di tentativi di auto-definizione, di notificazioni di presenza. – In altre occasioni, ma toccando i medesimi argomenti, ho sottolineato l’estrema fragilità di questo «esile mito» (bella l’espressione di Vittorio Sereni) paesistico, più che mai esposto al pericolo di una disintegrazione nei momenti di forte crisi, sia sociale che individuale: in entrambi i casi, infatti, vengono scosse le stesse colonne portanti dell'”io”, della possibilità stessa del costituirsi dell’idea di “essere umano” -.
Questo paesaggio creato o concreato dall’uomo, che è manifestazione di un rapporto continuo di gioia ma anche di fuga, di difficoltà, di spaventoso mancamento, può dare almeno una vaga idea di ciò che può essere il paesaggio come manifestazione di un eros insito nella natura: un eros della natura verso la natura e della natura verso l’uomo, in quanto si è dentro un sistema, ci si sta dentro, insomma.

(Il paesaggio come eros della terra, in Per un giardino della terra, a cura di A. Pietrogrande, Olschki, Firenze, 2006, pp. 3-7; ora in Luoghi e paesaggi, a cura di M. Giancotti, Bompiani, Milano, 2013, pp. 29-38).

***

Resta ferma […] la convinzione che la poesia debba ostinarsi a costituire il “luogo” di un insediamento autenticamente “umano”, mantenendo vivo il ricordo di un “tempo” proiettato verso il “futuro semplice” – banale forse, ma necessario – della speranza.

(Sarà (stata) natura?, in Coscienza e conoscenza dell’abitare ieri e domani. Trasformazione e abbandono degli insediamenti nella Val Belluna, a cura di A. Bona, A. Alpago Novello, D. Perco, Belluno, Provincia di Belluno – Museo etnografico della provincia di Belluno e del Parco Nazionale Dolomiti Bellunesi, 200, pp. 57-58; ora in Luoghi e paesaggi, cit., p. 153).


Andrea Zanzotto (Pieve di Soligo, 10 ottobre 1921 – Conegliano, 18 ottobre 2011)

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Andrea Zanzotto – Illustrazione di Marta Pegoraro © (2012)

Opere di poesia: Dietro il paesaggio (1951); Elegia e altri versi (1954); Vocativo (1957; 2a ed. ampliata 1981); IX Ecloghe (1962); La Beltà (1968); Gli sguardi, i fatti e senhal (1969, poi 1990); A che valse? (Versi 1938-1942) (1970); Pasque (1973); Filò (1976, con una lettera di F. Fellini, e una nota dell’autore; poi 1988); II Galateo in bosco (pref. di G. Contini, 1978); Fosfeni (1983); Idioma (1986); Meteo (1996); Ligonàs (1998). Le poesie e prose scelte sono state raccolte nei “Meridiani” (1999); hanno fatto seguito Sovrimpressioni (2001), Conglomerati (2009). La sua prosa narrativa e critica è raccolta in Racconti e prose, intr. di C. Segre (1990; poi, con ampliamenti, 1995); Fantasie di avvicinamento. Le letture di un poeta (1991); Aure e disincanti del Novecento letterario (1994); Europa melograno di lingue (1995); infine Scritti sulla letteratura (2 voll., 2001). Meditazioni autobiografiche nella conversazione con F. Simongini, Il nido natale come una catacomba, in “Lingua e letteratura”, 14-15 (1990); autoritratti sono in “L’Approdo letterario”, 77-78 (1977) e in “L’Ateneo veneto”, 18 (1982); ed ora: Eterna riabilitazione da un trauma di cui s’ignora la natura (2007).

“Tua e di tutti” di Tommaso Di Dio (Lietocolle, 2014)

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Tommaso Di Dio (Foto di Dino Ignani)

Tua e di tutti di Tommaso Di Dio (Lietocolle, 2014)

tommaso-di-dio-tua-e-di-tutti-copertinapiatta21La nuova raccolta di Tommaso Di Dio si confronta con la nominazione e la possibilità della parola di espugnare il vuoto di senso. La dicibilità di un mondo che si avverte “agonizzante” si volge nella premura “agonistica” del martellamento nominale: «Milano le case le strade; la sera, lo sgorgo» (Forse bisogna chiudere gli occhi, p. 20). L’accumulazione non vuole dare ordine ma tensione e sforzo a una parola destituita di valore e credibilità, non c’è climax e neanche il suo contrario:

La strada; il giorno che
qualcosa ricomincia. Ora
sei venuto a stare qui. Ma dall’alto la città
non era che una miriade sbriciolata di luce
strada faccia qualunque. Bisogna legarsi
erodere le grandi distanze
per le schiene delle montagne
cercare dove fra gli occhi la vena
prende sangue e qualcosa ancora
resta, s’infittisce, moltiplica,
dice cosa è
dimenticarsi; di aver odiato
una volta in ogni dove il tutto
di questa vita.

(p. 32)

La neutralizzazione del senso trova uno sbocco nella pietas per il circostante cui si chiedono momenti di accensione, desideri dileguati di un’individualità in deficit o in apprensione per la scomparsa:

Ho ancora gli occhi
sporchi dei sogni. Ci sono tanti
alberi e cieli nella mente tenuti
troppo stretti che ora
cosa sono. E invece vedi questo
sentirmi nel corpo solo, neutrale; e volere tutto
da questa materia fragile
ottusa insensibile vivacità della pelle
che tocca l’altra pelle. Sono gli anni un bosco
rotto per la luce del giorno, del non preciso
amore che mostra
la solitudine dei rami. Chiudo gli occhi.
Voglio sporcare il giorno di tutti i sogni.

(p. 35)

Forse è il magistero di Rebora a farsi più pressante nella riflessione poetica di Di Dio, la volontà di insieme che traspare dai versi e l’umiltà “procacciata” sin dal titolo della raccolta investono il desiderio di comunicazione (le parole comprensibili e “umiliate” di matrice lombarda) del barbaglio di una comune appartenenza: il niente che ci pertiene è la potenza di dirlo, appiattiti sì sul luogo comune della nominazione che non riesce a rinnovarsi ma ri-scopre le cose – pochi testi, ma significativi, vertono sui tempi verbali del passato e dell’imperfetto e portano all’emersione i grandi temi del ritorno e del ricordo:

Non era neve. Non era bianco.
Non aveva
ricordo di te. Se non
quel cielo sempre indietro.
L’Italia le case le montagne; le domeniche
spianate a furia di preghiere
i mattoni la tivù
le chiese. La spalla non aveva
che un foro, un buco. Un passo
un grado più in là, nel deserto
dell’Afghanistan un dio senza peso
non aveva
ricordo per te. Di te cosa tiene
il mio paese. Non era neve.
Non era bianco. Quel sapore dell’altro
uomo che hai
sulla bocca.

(p. 38)

La prospettiva di un futuro che sia espiazione nell’ammonimento dell’annientamento avvenuto da sempre

Quel che ammonirono i libri santi.
Quel che scrissero i poeti. Le epigrafi.
I ruderi. Le pietre le caverne
scavate con le mani in gloria
del sangue di bufali, di elefanti. Tutto questo
essere stati non basta
bisogna ripetere tutto, capitolare.
Bisogna pagare.

(p. 41)

è in realtà la speranza che «mentre monarca/ l’ombra divora» (Ci sono ore di ordine; stagioni, p. 46) un percorso continui. Ripetizione più che linearità, le chiuse sereniane («Ho cercato tanto un tempo del tempo/ per dire qui», p. 46) ribadiscono l’ossessione per i giorni e i tempi. Dalla monotonia, dal niente urbano e post-umano, l’infimo inizio di una fuoriuscita, sgorga quantomeno il dubbio che comunque questa, e non un’altra, vita sia desiderabile.

Gianluca D’Andrea


Di seguito una riflessione sul testo più rappresentativo dell’intera raccolta, apparsa su Cronache Maceratesi nel marzo dello scorso anno.

Spazio Inediti: Tommaso Di Dio

Sotto il deserto
Sterile nel tempo,
Procede fresco e lento
Un fiume immenso.

C. Rebora

Il giorno che s’avvera; da qualche parte nella mente
l’erba, ogni singolo
mattone che all’alba prende
luce e presenza. Poi
la salita lungo i boschi, la spianata
la casa bassa e le poche finestre
i vetri e l’opaco, la porta che si apre e sei
cielo di sguardi dentro tutto questo
sogno innocente. Ma dopo la notte c’è
l’aria fredda e la scura
discesa nella metropolitana; dopo arriva
la catena regale degli abbracci
degli sputi della cenere da scacciare
a viva forza. E lei è lì; prega
storta e disancorata. Sempre lei
balla cade offende, fa di tutto perché mai tu
l’ameresti così come ora l’ami
tua e di tutti, questa
vita reale più ricca e sgualcita
dal niente che non l’abbandona.


È un piccolo percorso di risalita, un’ascesa laica all’innocenza, la prima parte di questa composizione. I primi nove versi (dei 20 complessivi), infatti, tentano la costruzione di un quadro che si presenta come l’avveramento del sentire nella sorpresa dell’esserci: «Il giorno che s’avvera; da qualche parte nella mente/ l’erba, ogni singolo/ mattone che all’alba prende/ luce e presenza». La presenza di oggetti poco definiti, che lasciano spazio alla rivelazione di un senso che non si spinge oltre – non lo vuole – quei minimi contatti di realtà. Una realtà illuminata per un attimo (la rivelazione) che poi si appresta a ridiscendere «scura» accompagnata dall’«aria fredda […]/ nella metropolitana». Catabasi del segno che, impastandosi di vita, prova a riformulare una visione per accostamenti e aderenze nei confronti del reale, e suscita symbŏla, idee diverse dai meri dati sensibili. Non è lo slancio ma la volontà umile, bassa (ricordiamo che il poeta è lombardo), a cercare e ad aspirare all’immersione nell’esistere: «[…] E lei è lì; prega/ storta e disancorata. Sempre lei/ balla cade offende» la vita in deficit, la vita fragile da amare nonostante il male, il «niente che non l’abbandona».
L’aspetto edificante, la religiosità laica che ha una tradizione importantissima proprio in Lombardia – si guardi alle origini della nostra letteratura, a Bonvesin de la Riva per esempio – è presente in questo testo semplice, accessibile ma non per questo ingenuo. Abbiamo fatto riferimento a una costruzione per tappe: la prima, “ascensionale”, vive in un tempo di sospensione, tra il percorso concreto e l’immagine mentale della salita, fino a una fugace apertura metafisica («[…] la porta che si apre e sei/ cielo di sguardi»). L’atmosfera è tenue e non è sbilanciata neanche nella fase discendente (dal verso 10 in poi), anzi dopo una breve parentesi – le metafore “oscure” dei vv. 12 e 13, «la catena regale degli abbrac-ci… ecc.» – torna a concretarsi nella figurazione della «vita reale», in una contrapposizione col niente dell’ultimo verso, che ristabilisce la scelta dopo l’attraversamento. Il viaggio del soggetto, che si dispone a una maggiore aderenza ai ”segnali” della vita, è, quindi, la semplice constatazione di esserne parte e di amarne la fragilità, perché è sempre incombente l’esposizione al nulla, alla fine.

Gianluca D’Andrea
(Marzo 2014)


Tommaso Di Dio (1982), vive e lavora a Milano. È autore di Favole, Transeuropa 2009, con prefazione di Mario Benedetti. Ha tradotto una silloge del poeta canadese Serge Patrice Thibodeau, apparsa nell’Almanacco dello Specchio, Mondadori 2009. Una scelta di suoi testi è stata pubblicata in La generazione entrante, Ladolfi Editore 2012. Dal 2005 collabora all’ideazione e alla creazione di eventi culturali con l’associazione Esiba Arte, per la cui compagnia teatrale scrive testi. Partecipa agli incontri di poesia Fuochi sull’acqua. Recentemente è stato segnalato come il poeta tra i 20 e i 40 anni più votato da pordenonelegge. È fra i redattori della rifondata rivista Atelier.

Per il fine settimana (omaggio alla pianura) – Philippe Jaccottet

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Colli Euganei

Philippe Jaccottet – da Libretto, Scheiwiller, Milano 1995

Trad. di Fabio Pusterla

librettoDalla pianura del Po

Adesso, la dogana severa delle montagne è ormai scordata: non sono null’altro che una fumata di profumi, d’incenso, specchi velati eretti sopra zoccoli di bruma.
I pioppi, giallognoli o fulvi (dipende dagli anni, dalla loro varietà?), parlano piano attorno ai prati brillanti che delimitano, e l’aria prende i colori dell’iride.
Questa perpetua vibrazione delle foglie catturate da una leggera bruma: davvero è solo un caso, o non è forse qualcosa che in tal modo ci viene suggerito? Se non di dar loro risposta, almeno di saper vedere (ed è come un soffio di freschezza che ci ravviva un istante, un ruscello di foglie), intanto che altre, quelle vere, più furtive, si sono risvegliate anch’esse in ogni dove, brillano anch’esse, moltiplicano la luce senza peso di marzo o d’aprile.
Mi sorprendo a preferire questa pianura a quasi ogni altro paesaggio d’Italia di cui mi rammento.
Vasti recinti che le loro alte barriere non chiudono, proprio come le parole, non oscurando la pagina, collaborano a svegliarvi, o magari a stirarvisi, una figura sconosciuta.

Dalla pianura del Po, verso Bologna

Il giorno declina, il sole è dietro di noi. Un’ombra di fatica si annuncia, in cui si precisano miraggi di cibo: tutta la bellezza del mondo non ci farà saggi o angeli. Perché non siamo soli a scivolare su questo celeste pendio, perché è necessario questo vociferante, rischioso traffico di città in città, e come è possibile che qui si dia accesso a tanti rozzi stranieri? C’è forse qualcuno che sappia apprezzare, amare questo paese come noi? (Così questo principio di stanchezza suscita inezie deliranti).
Ma, rispondendo alle pergole nude di val d’Aosta, ecco i frutteti d’Emilia, già sfioriti alcuni, questi grovigli di legno tra bruno, grigio e rosa che accoglieranno, sospeso alle loro corde, ogni frutto delle Georgiche. E sulla nostra destra, da qualche tempo succede qualcosa; la pianura produce, come un vapore azzurro, delle colline, proprio nel modo in cui il sogno può a volte generare una dormiente inaccessibile: i Colli Euganei. Le fattorie hanno il colore del sangue di porco e il nobile equilibrio dei palazzi. Tra i loro pilastri squadrati si ammucchiano i lingotti della paglia.

(Là, dunque, il nostro preludio, ad ogni annuncio di primavera, ancora fresco, suonato da flauti di madreperla e spinette dorate, strumenti che forse noi soli ascoltavamo, rapidi, accompagnati da tutta l’orchestra invisibile dell’aria, al nostro servizio.
Prime battute d’argento, di bruma e di giada).


 

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Philippe Jaccottet. Photo: J. Sass © (2003)

Philippe Jaccottet (Moudon, 30 giugno 1925) è un poeta, traduttore e critico letterario svizzero. Dopo gli studi in lettere all’università di Losanna, ha vissuto a Parigi per un breve periodo, lavorando come corrispondente dell’editore Mermod. Nel 1953 si è stabilito a Grignan, nel Sud della Francia, con la moglie pittrice.
Traduttore in francese dal greco (Odissea), dal tedesco (Goethe, Hölderlin, Rilke, l’opera omnia di Robert Musil), dall’italiano (Leopardi, Carlo Cassola, Giuseppe Ungaretti, Giovanni Raboni) e dallo spagnolo (Góngora).
È oggi considerato uno dei maggiori poeti europei, più volte candidato al Premio Nobel, autore di un’opera dal lirismo asciutto, che interroga la natura, la morte, l’essere al mondo con bisogno preoccupato di rigore etico. Oltre all’opera poetica, ha pubblicato numerosi volumi in prosa, diari, riflessioni sulla poesia e sulla traduzione ed è autore di acuti articoli di critica sulla poesia francese.

 

IL NOME DEL FIGLIO

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Una scena dal film IL NOME DEL FIGLIO

di Francesco Torre

IL NOME DEL FIGLIO

Regia di Francesca Archibugi. Con Alessandro Gassman (Paolo), Micaela Ramazzotti (Simona), Valeria Golino (Betta), Luigi Lo Cascio (Sandro), Rocco Papaleo (Claudio).
Italia 2015, 94’.

Distribuzione: Lucky Red.

Panoramiche circolari, piani sequenza, brevi ma incessanti movimenti di macchina e un continuo alternarsi tra dentro e fuori (l’appartamento con terrazza in cui si svolge la vicenda) e tra passato e presente (adolescenza/età adulta). Allergico alla sperimentazione espressiva e sempre in cerca di un equilibrio interno alla narrazione che appiattisca il valore universalmente simbolico del testo di riferimento (Le Prénom, pièce teatrale di Alexandre de La Patelliére e Matthieu Delaporte, già trasformata in film dagli stessi autori nel 2012 con il titolo italiano Cena tra amici) a vantaggio di una metafora socio-politica in fin dei conti ruffiana quanto buonista, il film di Francesca Archibugi sembra cedere complessivamente più ai ricatti del box office che al rigore autoriale.
Di scena è la borghesia italiana di oggi: narcisista, opportunista, ideologicamente in crisi di identità. Caratteristiche che emergeranno in tutte le proprie declinazioni quando Paolo Pontecorvo, il figlio di un ex deputato ebreo di sinistra, comunicherà in una cena di famiglia – per celia – il nome scelto per il primogenito: Benito. La mostruosità dei protagonisti verrà condannata prima e salvata in extremis dopo, con uno slancio ottimistico a cui si arriverà tramite atto di fede più che con sillogismo aristotelico.
Fondato sul gioco dell’immedesimazione quanto sulla dialettica soffocante del “noi” e del “voi” (Virzì docet), il film regala più di un momento di autentica adesione umana ai personaggi (in questo richiamando uno schema abbastanza consolidato della tarda “commedia all’italiana”, basti pensare alle rappresentazioni familiari allargate dei film di Scola degli anni ’80), ma senza riuscire a liberarsi di immarcescibili maschere preconfezionate: l’immobiliarista spregiudicato; l’intellettuale di sinistra con presunta superiorità morale; l’artista colto e anticonformista (che Papaleo interpreta con inedita misura, e direi – per chi ha visto il film – «giustamente»); la donna di mezza età piccolo borghese col vizio del martirio; l’intrusa proletaria depositaria di valori e virtù ormai quasi del tutto dispersi. A questo proposito, non sorprende come Alessandro Gassman e Luigi Lo Cascio, a pochi mesi di distanza dall’uscita di I nostri ragazzi di Ivano Di Matteo, qui indossino ruoli del tutto sovrapponibili.
Quando la regista si confronta direttamente con il proprio retaggio autoriale, però, il film si impreziosisce di improvvisi quanto purtroppo fugaci slanci. Non rappresentata sullo schermo, la periferia romana di Casal Palocco – come il Flaminio pre-Auditorium in Mignon è partita – emerge in maniera evocativa sullo sfondo come ideale terra di confine sociale e culturale, quasi una riserva identitaria con una capacità endemica di salvaguardare e tramandare sani processi di sviluppo personale e collettivo.
Lo sguardo più intimo e vero, il testamento poetico, il tratto estetico più incisivo di tutto il tessuto filmico, infine, Francesca Archibugi li esprime attraverso i personaggi dei due figli di Betta e Sandro, bambini dotati addirittura di un piccolo drone con il quale osservano il mondo degli adulti, esplorando dettagli casuali e apparentemente marginali ma riuscendo a cogliere la verità nascosta dietro le apparenze: un mondo in bianco e nero.

La citazione: “Io volevo solo fare uno scherzo”.