Silvia Bre – Poesie da “La fine di quest’arte” (Einaudi 2015)

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Sebastián Piñera mostra il biglietto scritto dai 33 (fonte Wikipedia)

Silvia Bre – La fine di quest’arte (testi scelti)

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Ecco la notte, ciò che ti oltrepassa
e ti lascia dove non sei
dentro un altro dominio
dentro un altro.

Solo un gallo ancora muto che non vedi
è più che mai il suo canto
nell’aperto di un’idea, in un’alba
che viene e viene tanto che ti svegli.

*

Entierro

Dal 5 agosto al 13 ottobre 2010
trentatré minatori sono rimasti sepolti
nella miniera San José di Copiapó (Cile).

 

Fiore che si depone
ai propri piedi
e con il collo piegato dai raggi
devasta tutte le scene,
ecco che noi sorgiamo
eloquenza della pena
incatenati
dove l’aria sovverte il respiro
in archi tanto acuti che si muore
e la caduta è libera di cominciare.

Estamos bien nella terra che ci mangia
per atroce diritto, la radice da cui siamo
fuoriusciti di testa dentro il tempo
violento del cielo
quello del glicine
che si torce un braccio alla volta tra i sibili
e sale lungo le bianche sere
sulle notti, finché sboccia
crollando azzurro nel suo aprile.
Qui è nero, s’inala attesa
ed è una festa di ubriachi
estasiati dall’umido della vena gonfia
suoi globuli
a ristagno nella quinta essenza
al bordo di tutte le vite.
Che storia godere da vivi la fama dei morti:
ogni momento sta naturale nella sua purezza
come piombato in un emblema d’oro
ogni parola pesa il suo giusto
che è miracoloso –
ha nevicato in tutti noi oggi
perché qualcuno ha bisbigliato neve.
I nostri giorni adesso
sono vostri, son tornati da voi
i lontani –
noi ci accostiamo insieme
al denso cuore che rallenta
un’ala profumata leva le mani dalle facce
e sotto resta l’occhio
la nuda qualità che ci è propria
ci siamo noi nella povera luce.
Estamos bien qua sotto
come bambini nella disobbedienza
con questo senso che nel cervello
dorme e si sveglia al fondo
di un silenzio minerale –
il nome che ci detiene urla da solo
tatuato sui muri.
Nell’antro stretto il pensiero s’incurva
tanto vicino ai corpi da sembrare
uno specchio che ci osserva
è come se quello che diciamo
fosse ciò che prega d’esser detto
per rimanere intorno
come una stagione –
uno splendore minimo incendiarsi
allucinati non troviamo altro
lampi
dell’estate in un sudario.
Pare impossibile a quelli che eravamo
e ancora spostano i piedi scorticati
calmi nella memoria della terra
amandone la forma con le mani.
Noi cambiamo.
A turno uno veglia
ripara nella solitudine la tana
più insicura, la figura del vivere
mentre si sfalda teneramente, mentre
il fuori arriva. E molti dormono
tuffati nel guscio aperto
dove i mondi si urtano uno con l’altro
come all’ombra di un sole.
L’aria che ci respira è inesauribile.
Così lontani non torneremo mai –
ci riusciranno altri
quelli che stanno muti in fila per salire
sradicati come gli esuli, gli spaesati
i nati appena

*

La poca la povera cosa
si mette davanti, s’imposa
come una donna nascosta
in un velo da sposa.

E io maledetta che ho scelto
la sua parte, quel buio senza ritegno
in cui cadere,
la fine di quest’arte.

*

Quell’attimo d’agosto
dura ancora
la camminata l’arco
di un passare solitario
sulla città che scintillava
dietro i gas

la vita si era sciolta
dalle parole
tutta ferita
si trascinava via
ugualmente –
un male ce non smette
con cui si paga un po’ di conoscenza
una più chiara percezione del reale.

*

Lo si sa sempre
che verrà un momento
– è già qui in agguato è sotto è dentro –

in cui il disordine l’avrà avuta
vinta a tutto campo
senza neanche un superstite

un abc, un qualunque fondamento
generale, un solo gesto.

Ma forse anche le cose come stanno
hanno un ordine

tanto più vasto
da uscire dall’inquadratura

da non entrare mai
in nessuna mente

così il massimo di reale combacia
con l’astrazione pure

come quando la notte
essere e non essere
niente
si equivalgono.

*

So,
lie there, my art.

W. SHAKESPEARE
—-The Tempest

 

Ma se quelli raccolti intorno a un fuoco
i rapiti da una così lontana cosa da non essere lì
se quelli che sono qui perché son corsi
dietro un’immagine che li ha trapassati
prima di andarsene
e dunque noi che sentiamo le voci
venire dalla note
con le nostre parole e altri accenti
il loro insieme barbaro che sa le storie delle pietre
degli oceani
noi tradotti in un luogo sconosciuto per essere lacune
d’altri luoghi
segreti vivi che si pentono di non poter tacere

aaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaalba ti alzi
aaaaaaaaaaaacos’hai da raccontare che non sia
quello che porti nelle tue cellule di sole.

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