Carteggio IX: Realtà e poesia – insegnamento come esperienza di contatto o continua rinascita della relazione

bussola

di Gianluca D’Andrea

Realtà e poesia: insegnamento come esperienza di contatto o continua rinascita della relazione

Le strategie tecniche delle didattiche nel mondo della scuola sono tracce, inducono movimenti, possono significare uno slancio per chi intenda l’educazione come esperienza relazionale, fuori dalle dinamiche del giudizio, nell’immersione quotidiana nel contatto.
La contaminazione derivante dalla disposizione all’accoglienza è la prospettiva aperta dai movimenti oscillatori dell’esistere. L’insegnante è la persona che ha un unico compito: farsi soglia, mostrando le potenzialità dell’apertura all’alterità, evitando come una colpa la ricaduta dell’impostazione frontale, la più frequentata dai docenti, la quale è manifestazione oziosa, la più comoda, di una chiusura autoritaria.
La poesia è lo strumento per eccellenza dell’alterità, di quelle movenze d’origine, cioè, implicate in ogni relazione e, evidentemente, in ogni percorso educativo. Qualunque dettame istituzionale, allora, andrebbe ridiscusso in termini di nuova cultura relazionale: il punto decisivo della didattica è l’atteggiamento inclusivo dell’insegnante, della persona nel suo ruolo, non tanto la standardizzazione delle programmazioni o gli accanimenti metodologici.
Sono consapevole che un discorso di questo tipo possiede valenze utopiche che rischiano di semplificare, anche drasticamente, il dibattito sulle strategie pratiche, sulle normative che tentano di creare un fondo comune per chi si accinge a intraprendere il tragitto impervio della relazione educativa, ma la semplificazione ha una sua giustificazione nell’enucleazione della persona dal ruolo, in modo da ristabilire la dimensione dello scambio, partendo proprio dalla scissione “borghese” creatasi tra missione e istituzione. Provo a spiegare: l’habitus della funzione docente, rischia sempre di vivere nel preconcetto dell’acquisizione di competenze che agiscano da certificatori di professionalità, l’esperienza, invece, parla di realtà sempre diverse, in divenire, per cui è d’obbligo un aggiornamento continuo sul campo, in perpetua adesione alle eventuali richieste dell’altro relazionale. In buona sostanza non si tratta di mettere al centro uno degli attori dello scambio educativo (si tratti del docente o del discente), ma di attivare continuamente il dialogo; in questi termini la funzione docente sarebbe trasformata in una figura nuova, l’insegnante potrebbe diventare il raccordo, la soglia coordinante delle richieste educative, non un blocco onnisciente, né una figura screditata in autorevolezza.
Allo slancio utopico, emerso in precedenza, è collegabile la potenzialità eversiva, che non significa escludente, della poesia: proprio nello slancio e nella “fuoriuscita” dai modelli di riferimento (normativi, politici e, per forza di cose, sociali) è rintracciabile la necessità del messaggio poetico, non certo nella compartizione stagna dell’istituzionalizzazione. La poesia, infatti, è la possibilità liberatoria del linguaggio, senza il pensiero fisso della canonizzazione regolativa. Ecco perché una didattica “statica” – col quale termine s’intenda una modalità limitata alla conclusione di programmazioni sempre in ritardo su se stesse, inconsapevoli o rinunciatarie – della poesia non può esistere, al contrario, potrebbe essere ricostituito un habitus, cioè un’etica del messaggio linguistico che si basi sulle potenzialità radicali (appartenenti a ogni essere umano) del gioco o ri-creative, strettamente legate alla specificità manipolatoria del gesto poetico. Il momento ricreativo non è distinto, almeno nell’esperienza di chi scrive, dal resto della lezione, in questo modo, il gruppo di relazione che definiamo “classe”, si svincola dalle sensazioni segregative derivanti dalla canonizzazione dell’orario scolastico, dalle sue scansioni temporali immutabili, che hanno, purtroppo, quasi condizione retroattiva inversa, il grande demerito di fossilizzare il momento. Lo scambio continuo d’informazioni bilaterali inverte questa tendenza “plasticizzando” gli attimi di ricezione. Una grande possibilità – nel senso appena esposto, nel tentativo, cioè, di espandere e liberare, nella bilateralità della trasmissione (il dialogo), l’esigenza ludica dei ragazzi – è offerta dalla strumentazione informatica. Le varie possibilità “connettive”, ho potuto costatare, a volte consentono una diversa ricezione collegabile al diverso supporto (il fatto stesso della novità e della diversità stimolano l’attenzione, nonché la vicinanza dello strumento d’uso alla realtà quotidiana dei discenti) e creano momenti di collaborazione che mostrano la decadenza inevitabile dell’impostazione frontale, individualistica. A questo punto, occorre aggiungere che in alcune zone d’Italia (chi scrive ha avuto la possibilità di vivere esperienze educative in più scuole, cercando di far fruttare la condizione di precariato e vagabondaggio professionale) l’educazione si trasforma in ri-educazione agendo sul recupero di individui implicati in dimensioni sociali di forte disagio. Ci sono numerosissime esperienze impegnate nella riabilitazione, e nella cura delle fratture, che la dispersione e l’ostilità verso l’istituzione evidenziano – e che non rendono possibile alcuna strategia d’intervento se non in direzione dell’accoglienza relazionale (in questi casi è impossibile applicare qualunque metodo d’insegnamento canonizzato, perché la trasmissione intesa nozionisticamente è ristretta a informazioni veramente essenziali).
Da quanto appena esposto, emerge ancor più chiaramente la necessità di una rivoluzione relazionale che, pur non essendo strettamente legata all’ambito scolastico, da questo parta, perché, non scordiamolo, è nelle aule scolastiche che si decidono il presente e il futuro di un paese.
Affinché la lezione diventi una compartecipazione, occorre riconsiderare la tensione dialogante, il suo divenire e le sue mutazioni contestuali, l’insegnante ha il dovere di conoscere la “verità” dell’esistere, la continua mutevolezza, il valore unico della diversificazione. La poesia rinasce proprio nelle dinamiche relazionali: non occorre, infatti, dimenticare che le forze propulsive e svincolanti del linguaggio sono trasposizione allegorica dell’esistente, la lingua è ancora lo strumento (soprattutto quella poetica) che, nascendo dall’esperienza del reale, e non potendo aderirvi perché mantenente la sua verità protesica, ricrea continuamente la dimensione di soglia, lo scambio osmotico con lo stesso. In altri termini, completa l’esigenza espressiva umana, manifesta la necessità di incidere, esorcizza l’assenza con la presenza creatrice. La poesia, allora, può essere ancora un valore aggiunto per continuare a definire il mondo, il suo divenire sempre sfuggente, la sua verità appunto.
Intima e collettiva, la poesia è il gioco dell’esistere, le cui dinamiche contribuiscono alla continuità della trasmissione di un messaggio da mettere in comune, anzi che rende effettiva l’esigenza comunitaria. La storia del linguaggio non finisce, per questo anche le informazioni tecniche sulla retorica testuale andrebbero rivalutate, infatti, permettono di individuare alcuni nodi strutturali che creano tracce di senso in direzione delle possibilità comunicative, potenziano la ricezione del messaggio e intensificano, in direzione ludica, il gusto. In altre parole, fortificano le capacità critiche e le scelte estetiche dei ragazzi, in funzione di uno sviluppo futuro sempre più autonomo e maturo. Lo smontaggio e il rimontaggio delle parole (mi riferisco all’impatto dell’etimologia) e dei testi stimolano la curiosità della ricerca, rispondono ai perché sul senso (le domande più frequenti, quando a scuola si parla di poesia, vertono sull’utilità di questo linguaggio) di una tradizione e invogliano la cura per l’alterità implicita nei mutamenti generazionali. I ragazzi, poi, se bene indirizzati, possiedono già le risposte, le quali possono anche essere riassunte: la poesia, in qualche caso è un supporto che conserva l’aderenza, la certezza di senso nella creatività, in altri esprime la forza centrifuga, il desiderio di fuoriuscita da realtà opprimenti – riesce, in sintesi, a far focalizzare le tracce di un percorso, la cui evidenza non è scontata, soprattutto in individui (gli adolescenti) che si incontrano e scontrano senza esperienze strutturate con l’alterità.

(Aprile 2014)

Spazio Inediti (11): Maria Borio – di Gianluca D’Andrea

maria-borio-ip

Maria Borio (Foto di Dino Ignani)

di Gianluca D’Andrea

Spazio Inediti (11): Maria Borio

So che αρμονία significa collegamento, contatto,
connessione, unione. «Finchè restano uniti i
tronchi della zattera, / starò qui, resisterò…»

(Odissea, V, 361-362)

Un interno – la pressione dell’acqua
sui tubi, la luce della lampada
sfumata, il respiro,
il masticare oggetti… è nutrirsi
di poco, pensare griglie di metallo
a cui appendere le sostanze della natura,
ricreare.
Poi, esterno – passi come un niente,
si ferma l’auto, il vento, la mosca
sfinita tra i quadranti delle case,
il filo d’erba seccato dal gelo,
ancora passano – come un io moltiplicato.
Fino a quando, mi dirai mi dirai,
sapremo che protetti o esposti
è la stessa cosa?
Mi dirai le creature inconsapevoli
non esistono, e scava scava
ognuno si trova.
In fondo è
la base dell’erba,
il contatto tra la strada e la terra,
il fragore a ultrasuoni tra le ali e l’aria,
le pieghe tra parete e parete,
l’alone del respiro sul bicchiere
e l’ombra che degrada.
Tutto è
vero nelle scale multiple
come le frasi che portano avanti
avanti a capire, il gesto
in cui frughi per vedere il fondo.
Interno pieno di niente,
la luce grigioazzurra che arriva
è mattino e sera
e le cose spogliate dall’ombra
un secondo ti vedono come tu le vedi.

inverno 2013

NOTA: Questa poesia fa parte di una silloge inedita.


Ricreare, cioè formare e agire, questo lo stimolo concettuale della composizione, una riflessione sul tempo (χρόνος, intimamente legato all’atto di produzione, κραίνω) e la resistenza delle parole, la loro localizzazione nel desiderio di contatto di un soggetto che sente nell’alterità la possibilità, o l’appiglio, per scaturire dall’unilateralità della propria visione. Alcuni segnali testuali confermano questa sensazione, in primo luogo le iterazioni che agiscono da spinta, mantra verbale o preghiera: «Fino a quando, mi dirai mi dirai,/ sapremo che protetti o esposti/ è la stessa cosa» (vv. 13-15); «Mi dirai le creature inconsapevoli/ non esistono, e scava scava/ ognuno si trova» (vv. 16-18); «come le frasi che portano avanti/ avanti a capire…» (vv. 28-29). Quindi i giochi oscillatori del movimento testuale: si passa da un interno, in cui il soggetto affina i suoi sensi, avverte, quasi forzandosi alla presenza, la possibilità di un personale intervento immaginifico (i primi sette versi che si chiudono sul verbo d’azione isolato, «ricreare», il cui valore indistinto, tra iussivo e desiderativo, sembra consolidare la necessità di una volontà in cerca d’agnizione), a un esterno che è successione rapida, avvertibile nella fuga asindetica che cade nell’identità molteplice, la quale, nel caso specifico, sembra agire come rifugio al disorientamento implicito nella stessa fuga («… passi come un niente», «…come un io moltiplicato», vv. 8 e 12). I movimenti successivi, lo abbiamo visto, sono scanditi dalla ripetizione e dalla preghiera che l’io si auto-rivolge per attenuare la scissione (quella tra interno e esterno che si ripete in cerca di contatto con l’alterità). Il tentativo di ricomposizione della seconda parte del testo ne evidenzia la dimensione liminale, in una percezione franta e come in attesa: «In fondo è/ la base dell’erba,/ il contatto tra la strada e la terra,/ il fragore a ultrasuoni tra le ali e l’aria,/ le pieghe tra parete e parete» (vv. 19-23). Il tragitto circolare del componimento, oltre a confermare l’ossessione iterativa, permette, in conclusione, di osservare un lieve mutamento nella visuale del soggetto, per cui l’alterazione prospettica (allucinatoria? «è mattino e sera», v. 33), si coagula in una finzione estrema che forza il rapporto tra sé e mondo, inventando un’aderenza ai limiti del possibile: «… le cose spogliate dall’ombra/ un secondo ti vedono come tu le vedi» (vv. 34-35). Il percorso si arresta a questo bivio in cui visionarietà e aderenza al reale non possono trovare accordo se non attraverso una forzatura che, come abbiamo visto, caratterizza gli ultimi versi, e a causa della quale anche il lettore resta in attesa. In attesa che la sospensione asintotica si sciolga e la parola s’incanali nell’alveo che le è più congeniale.

(Aprile 2014)


Maria Borio (1985) è nata e vive a Perugia. È dottoranda in Letteratura Italiana. Ha scritto saggi su Sereni e Montale. Collabora a varie riviste tra cui Allegoria, Moderna, Poesia, Studi novecenteschi, Strumenti critici, Il Reportage. E’ redattrice del sito Le parole e le cose e di Nuovi Argomenti online. Sue poesie sono uscite sull’Almanacco dello specchio Mondadori 2009, su Poesia, Atelier, L’Ulisse.

NUOVI INIZI – IL DESIDERIO E LA SOSTA: “Abbonato al programma delle nuvole” di Giampaolo De Pietro, L’arcolaio, Forlì 2013

giampaolodepietro

Giampaolo De Pietro

NUOVI INIZI – IL DESIDERIO E LA SOSTA: Abbonato al programma delle nuvole di Giampaolo De Pietro, L’arcolaio, Forlì 2013

E se il canto sgorga autentico da un petto
gagliardo, alla fine si scolora,
svanisce tutto quanto, e solo restano
la vastità, le stelle ed il cantore.

Osip Mandel’štam

abbonatoalprogrammaEvocare, portare la voce fuori, ricordare che il contatto è la prima esigenza, il desiderio di costituire la relazione, il dialogo. L’implicazione anelante, la ricerca dell’aderenza all’alterità, scandiscono il terzo libro di Giampaolo De Pietro, autore catanese nato nel 1978 e redattore di Incerti editori, coraggioso progetto d’editoria indipendente.
Il divenire temporale, l’eternità sfuggente del fluire, caratterizzando la prima sezione di Abbonato al programma delle nuvole in negativo, sono i segnali di una forte aspirazione ideale, la percezione che la parola può riprodurre una tensione etica, proprio partendo dal desiderio:

Vorrei lavorare
sui piccoli rumori
del tempo, badando
ai piccoli rumori
di tempo, che registrerei
con un apparecchio specifico
Un antiorologio.

(p. 14)

Il movimento, in direzione di un miglioramento, origina dall’azione ipotetica e registra i mutamenti minimi, semplifica il dettato, come la poesia successiva sembra confermare con le sue movenze da filastrocca:

Non so che cosa
accade ai nostri discorsi
so solo che il tempo
sconsiglia sostanze
scompiglia forme
e forse lo spazio
assottigliandosi torna,
parola per parola.
Conto la vita
dito per dito,
o illudo
tratto per tratto
la mia stessa mano.
Ma il gesto è un altro
e un altro ancora,
e dello spazio
la traccia sola.

(p. 15)

La temporalità, percettibile negli infimi movimenti del reale, si lega all’alterità spaziale, in una sonorità che ricrea il contatto tra le due dimensioni, attraverso un gioco d’assonanze che costituiscono una nuova intonazione, un cantabile: «Ma il gesto è un altro/ e un altro ancora,/ e dello spazio/ la traccia sola» (Non so che cosa, p. 15, vv. 14-17).
Il legame vuole fissarsi, l’anelito di cui parlavamo all’inizio, infatti, traluce dalle scelte verbali, dall’azione del desiderio che tende a rafforzare l’unione:

Ancora

La foglia è del ramo
la notte lo sa bene si
tengono e reggono
ma viene la stagione
di mano e in mano lo
strettissimo bisogno
del legame s’ispessisce
e conta e rimane il
tempo ai respiri soltanto
il respiro nel tempo è aria.

(p. 21)

Le inarcature forti (si separano, per estendere la voce, anche i nessi semplici, ad esempio articolo/sostantivo) inducono un respiro che si sciampia nell’abbraccio del comunicare. Anche la disposizione dei testi manifesta la voglia progressiva del contatto, così «l’aria» che chiude la composizione, si trasforma nel «vento» di quella successiva: «Vento, la vita ci ripara/ poi ci piove addosso./ Piove spiove./ Vento spione» (Vento, la vita ci ripara, p. 22, vv. 1-4), per cui la diversificazione, il movimento nello spazio, porta alle oscillazioni dell’esistere che solo l’osservazione dei fenomeni fa percepire e che l’ironia del soggetto può contenere e tramandare, nel tentativo di difendere la propria stabilità – sempre precaria – perché immersa in contesti mutevoli.
Il reale, in questa poesia, può scatenare, oltre il movimento contenitivo, un contromovimento, una forza centrifuga che spinge in direzione dell’affabulazione, nell’esigenza immaginifica che è visione deformata dall’ironia:

Abbonato al programma delle nuvole

Quella nuvola ha
il profilo liscio di
balena e le ali da
passero, si sta
assottigliando.
Ce n’è un’altra
più rapace ha ali
divise. Abbonato
al programma
delle nuvole, per
il cane la porta
che si apre è
la scena madre.

(p. 25)

La ricerca di una «scena madre» affidata, negli ultimi versi, a quel «cane» che è figura simbolica – e che si maschera di una valenza correlativa – si ripercuote, nei testi successivi, fino a scaturire, finalmente, nelle «vie del bene dire» (p. 28), cioè nel desiderio di dire bene il mondo, il contatto con esso. Ecco che l’affabulazione ricrea l’aderenza:

Il cuore ha una mano?

Amelia Rosselli

Il coraggio di un’imposta aperta.
Di una nuvoletta d’intonaco appena scoccata.
Di ognuna delle facce.
Comprese quelle dell’ombra
di un qualsivoglia malumore.
Le vie del bene dire.
Le strade che si accendono in pace,
nonostante e per il saluto del sole
alla luce artificiale tra le persone.
Le facce ancorate all’affetto perenne.
E i cuori, e allora le stelle?
Le vie del bene dire

(p. 28)

I giochi di suono, la cantabilità di molti componimenti, rispondono all’anelito di relazione; abbiamo notato le assonanze, ma la trama fonosimbolica è ricca anche di rime interne, «Se/ sanguino riparo/ nel mio segreto,/ mi paro…» (Titolo, l’amore, p. 29, vv. 1-4). Si creano ritmi apparentemente ingenui, “orecchiabili”, che velano e stemperano la profondità concettuale, la centralità tematica, così ambiziosa, che riflette sull’esistente e, come abbiamo visto, sulle potenzialità relazionali.
La seconda sezione – Pane delle stesse cose – si apre nel segno di Osip Mandel’štam, i cui due testi posti in epigrafe (dai Quaderni di Voronež), fanno intuire la sicurezza di De Pietro nello scandaglio del movimento oscillatorio, che lo spinge alla compenetrazione della “realtà della visione” nella “visione della realtà” (“l’eternità” cara a Mandel’štam), per accettare finalmente «l’uguaglianza delle pianure». Nell’umiltà e affabilità della concretezza delle cose (Giovanni Raboni – in un articolo del Corriere della Sera, risalente all’aprile 1995 -, riferendosi proprio ai Quaderni di Voronež, evidenziava che l’ultimo Mandel’štam era riuscito a passare «dalla trasfigurazione delle cose alle cose, dall’ininterrotta ed euforica invenzione verbale di un mondo parallelo alla contemplazione disperatamente affettuosa di questo mondo») si riscopre l’attaccamento al mondo da cui può ripartire la fiducia nell’alterità: «scrivere non è niente, ha più risorse il pianto, forse, più/ sorgenti il riso. ripeto a fiato./ Scrivere proviene da un’altra stella, che crolla tra il vetro e la/ carta» (Scrivere viene, p. 37, vv. 20-23). L’alterità («l’altra stella»), dicevamo, è la vera risorsa della scrittura, indizio di questa constatazione può essere, allora, un verso che scavalca le sue precedenti dimensioni, allungandosi fino al riempimento completo della pagina, facendosi tentare, per istanti, dalla prosa, pur non rinunciando alla sua cantabilità. Questa necessità di espansione narrabile del respiro è comunque contraltare – anche qui l’azione di Mandel’štam è evidente – di una ristrutturazione formale che si fa esplicita in un’architettura più contenuta, nel riattivarsi continuo dell’anelito all’armonia (cioè al contatto):

Che belle
le donne
che camminano piano
al loro passo fedeli
e mai invano

per tutte quelle
che hanno fretta
ce n’è sempre una che
da sempre aspetta
al centro di una stanza
coprendo o lontananza
o intemperanza sfinente
– una fermata del bus a suo nome –

chi colma sofferenze
sorridendo a distanza
chi di un giorno di compleanno
fa una festa per le minoranze
che si sommano con gli anni
e fanno un giorno alla bellezza
dai polsi ai fianchi
del cielo che si meraviglia

e tanti auguri dolce sorella,
perché il tuo nome è come
un’ondata di coriandoli e
la tua voce nidiata di rondini
per i nostri sogni di allora
e per quelli di ieri, di ora, e domani
– regalarti un megafono –

tanti auguri di mani e coraggi,
perché senza te la rima del nome finisce,
ed anche la primavera a venire,
non esisterebbe alcun maggio
nulla sarebbe fiorire, nulla decidere…

(pp. 48-49)

Lo sguardo si focalizza sul mondo ma non viene meno la riflessione sul tempo. Anche questa tematica, però, subisce alterazioni in termini concettuali, in direzione dell’accettazione del divenire: «la cosa terrestre che abbiamo/ chiamato occasionalmente tempo perso» (Buona parte d’ombra., p. 45, vv. 7-8).
Occorre ancora evidenziare, però, che l’abbassamento tonale, l’umiltà raggiunta, non implica un appiattimento del gesto poetico sulle cose, non finge la scomparsa del soggetto, amplifica piuttosto la prospettiva, come abbiamo notato. Il risveglio nel reale complica la visione, nel senso che l’arricchimento nell’alterità, pur potenziando lo sguardo, mantiene il rischio del fraintendimento, ecco perché ritorna necessaria la componente affabulatoria, che solo la volontà del soggetto può ricreare con la propria immaginazione:

Le foglie cambiano pelle,
me lo hanno detto loro.
Chiedono, inoltre, di dire
ai bambini che, poi, tutte
andranno in cielo, dato che
provengono da lì, loro e i
loro genitori, gli alberi, ma
proprio da lontano, quando
terra e cielo erano un solo ramo.

(p. 85)

Il segreto dell’affabulazione vive nel dialogo e nella ricreazione che da esso può scaturire in direzione della trasmissione («di dire ai bambini»). L’esistente per un istante (l’istante della poesia) riproduce il miracolo dell’unità, il primo movimento si riavvera (come un dono) “disponendosi” all’accoglienza dell’esterno («le foglie»), il soggetto coglie e passa il messaggio, è testimone ma anche voce ri-creante dell’estroversione del reale, non solo suo descrittore. De Pietro, in questo componimento, riesce a liberare il gesto della poesia e, pur partendo dalla testimonianza, riformula l’evento, non si limita a osservare i fenomeni, non attende un barlume metafisico, reinventa da referenti comuni.
Nella terza sezione – Nuvole in cielo – Capelli di Virginia Woolf in foto – ancora una volta la riflessione sul tempo cambia connotazione, stavolta è il ritorno del passato nella memoria a donare sfumature nostalgiche al segno (ritornano le nuvole della prima sezione). Una volta di più l’oscillazione del divenire si approfondisce e riabilita il ricordo, che funziona anche da sosta momentanea, da revisione del viaggio compiuto, delle esperienze appena vissute. Questa ricaduta nel passato fa respirare il presente, perché la voce deve nutrirsi del proprio passato per vivificare la spinta immaginifica, altrimenti il messaggio verrebbe bruciato nell’istante di composizione, dimenticando la trasmissione e cancellando l’esigenza relazionale. La nostalgia, allora, sarà il contatto col perduto – una morte sempre avvenuta – aggiungendo, in tal modo, il tassello della scomparsa ineluttabile nella ricostruzione dell’esistente. Solo in questa percezione della scomparsa, il viaggio di De Pietro può continuare e il poeta può pronunciarsi sull’ignoto (che arriva a conoscere per mezzo dell’affabulazione): «Così io mi sento. Come mi muove l’atmosfera che non/ riesco a intravvedere, immaginando» (Tenere tracce dei consigli, p. 89, vv. 17-18).
Alcuni segnali retorici sembrano confermare la volontà o necessità di sosta: le inversioni sintattiche s’intensificano, complicando la ricettività – ma è il rapporto col mondo che è complesso, il linguaggio si limita a esprimerlo –, come le reticenze e le iterazioni (quasi balbettii), gli incisi e le parentesi che addensano il dettato di nuovi dubbi:

Contratto, mi sono legato(a)un dito. A un Tempo solo per
Leggere e Reggersi ritornando come
indietro a ripensare vorrà dire il più avanti possibile a
ciascuna importante (causa o) lettura. Scrivere
avventura le cose leggere le ridestina. E una casa la vive
anche il vento, lettere (se abbassare lo
sguardo può, potrà equivalere a credere a un filo e sorreggere
una foglia col pensiero, se chiudo un occhio e lo colmo
nell’altro, lo sguardo vi sembrerà allora più aperto?)
Verso dove e Verso cosa, e chi. (verso)
Per qual sanzione di tempo, ritardo? Mai credere dunque di
star sé sprecando solo
se il silenzio perdona le ruggini sui materiali in disuso e le
cose invece ne vedono il verbo sciupare, anche senza il
suggerimento di te, mio precettore comune padre, o amor
denominatore. È viva, alla luce
delle lacrime, anche la semplice speranza, evviva più. Di
morire, come non dire alla sorte, la voce primule delle
persone, in trattenere, intrattenere. E quelle avventure sorde.

(p. 90)

La sospensione, la stasi espressa dalla reticenza («Le palpebre hanno/ l’impossibile/ canzone del», Ci sono piume., p. 91, vv. 9-11) riporta al tempo assoluto del desiderio – come già nella prima sezione – per cui l’unica possibilità è resistere fino al prossimo approdo immaginifico: «O spaziature del mare,/ per isole del verbo resistere» (Scala infinita, p. 95, vv. 10-11). Il movimento è composto di slanci e ricadute, è necessario tenerlo presente, altrimenti si rischia di non cogliere le possibilità aperte da questo libro, il quale è uno spaccato di esperienze immerse nel divenire. Si tratta di una poesia vivente, che rifugge l’invadenza delle strutturazioni formali e retoriche nel senso di un’esibizione virtuosistica del dire, nonostante le conoscenze approfondite degli strumenti del linguaggio che De Pietro possiede. Al poeta non importa il cedimento di tensione che conduce alla maniera, maschera della caduta dello slancio nelle certezze delle proprie acquisizioni, ma la riattivazione della stessa tensione in direzione del senso con tutti i dubbi che esso comporta, riflettendosi sul fare. Il cammino, d’altronde, non è solo progressione o mantenimento di una posizione (non sarebbe più movimento), ma il vagabondaggio pellegrino che non conosce la sua meta, per questo la sosta si carica di attesa e successiva rivelazione.
Molti verbi e sostantivi della raccolta, in questa terza sezione in maniera maggiore, tradiscono il desiderio prima, l’evenienza poi, del nuovo movimento: «Cammina,/ conoscenza…» (Vita mia, p. 103, vv. 7-8); «mondo delle mosse» (C’è la commozione, p. 106, v. 12); «Avanza. E magari si distrae…» (Credo nel pomeriggio, p. 109, v. 11).
Anche l’ipotesi emerge dalla sosta, prima di ripartire ecco un respiro lungo, un anelito nuovo verso un tu non ancora realizzato:

Fossi tu la
Santa protettrice
dei cespugli e dei
mazzetti di fiori di campo
farei come a pregarti
di tanto in tanto
di dormirmi accanto così
che il fianco riposi la notte
e posi i germogli sul morbido
cuscino di quasi ogni stanchezza
e poi al mattino la fioritura sarebbe
certa e incerta, come da te protetta
mi sentirei campo nel campo dei festivi,
le settimane mi innaffierebbero il fiato, ti affiderei
di tanto in tanto il respiro (un ironico trattamento, scelto e
serio), senza liberarmene ma
per affidargli quel senso di protezione, per farlo nostro
sollievo – angolo, orto
angolo, orto delle mani, raccolto – zolletta di respiro, o
zucchero indeciso
piccola aurora àncora alla tua aureola che ora risuona d’una
grande mancanza
di te, tutta nuova
a primavera e poi a sera si fa più precisa, allora fa’ come il
respiro
il cuscino qualche sogno buono e molta fioritura,

(p. 114)

Tutto il componimento è un lungo periodo ipotetico (che non termina, notare la virgola finale) dell’irrealtà, perché dalla stasi sta per riprodursi, attraverso il desiderio di riverifica relazionale, il cammino, la necessità di ricolmare la distanza – o la mancanza – con l’alterità.
La quarta e ultima sezione – Vedi, è un improvviso – (alfabeto, miglio) – riattiva, finalmente (?), le potenzialità immaginifiche del linguaggio, come a dire che si è pronti a intraprendere un’altra volta la trasformazione. Alcune formazioni verbali della sezione evidenziano quest’impressione: «Panterreno dei voli/ pancielo dei passi» (Passano farfalle, le età, p. 119, vv. 6-7), in cui la funzione di rinnovamento si esprime per neologismi, accompagnando la pienezza espressa dai prefissi (“Pan-“), con l’apertura del movimento (i «voli» e i «passi»). Lo slancio “oltranzistico”, entusiasta, è avvertibile anche nell’inversione dei referenti, per cui alla terra è associato il volo, come al cielo i passi.
Appare un altro riferimento ”letterario”, il Bartolo Cattafi de Le mosche del meriggio, cui è dedicato il testo di p. 120, il quale, a mio avviso, è indizio dei mutamenti oscillatori che emergono nella raccolta e che rappresenta la gestualità poetica di De Pietro. Tangenze concettuali, più che stilistiche, accomunano i due autori siciliani, le quali vanno rintracciate nella specificità di una forma mentis – legata forse al territorio di provenienza – “fratturata”, scissa tra il desiderio della fuoriuscita e l’aderenza all’origine (la problematica del νόστος). Il valore delle “cose” (l’alterità oggettuale, di acquisizione lombarda e raboniana) in Cattafi vive nell’antitesi o comunque nell’ambivalenza:

NEL CERCHIO

Qui nel cerchio già chiuso
nel monotono giro delle cose
nella stanza sprangata eppure invasa
da una luce lontana di crepuscolo
può darsi nasca un’acqua ed una nebbia
il mare sconosciuto e il lido
dove per prima devi
imprimere il tuo piede
calando dalla nave
consueta, transfuga
che il rombo frastorna
in corsa nella mente,
lungo le belle curve di conchiglia.
Sarà prossimo il centro:
là s’appunta il nero
occhio, la nostra
perla di pece sempre in fiamme,
serrata tra le ciglia,
che per un attimo, in un battito ribelle
intacca il puro ovale dello zero.

(B. Cattafi, Le mosche del meriggio, Milano 1958)

Lo slancio trascendentale, che non ha implicazioni d’ordine metafisico, ma esprime la tensione al vero movimento – in cui il mutamento avvolge anche il soggetto poetante che lo compartecipa grazie alle sue capacità affabulatorie – è fondante in entrambi i poeti. In Cattafi la monotonia delle “cose” apre alla visionarietà immaginifica, come in De Pietro, d’altronde, il quale aspira a «Una poesia che sposti le cose,/ che chiacchieri per loro voce» (Giri le lettere, p. 124, vv. 6-7).
Il «continuo argomentare» (Di questo, p. 141, vv. 2-3) della poesia avrà ulteriori sviluppi, quella di De Pietro si ferma, per ora, interrogandosi sul destino della stessa, seguendo fino in fondo il modello mandel’stamiano – Abbonato al programma delle nuvole si chiude, infatti, riportando per intero M’è dato un corpo – che ne farò io, nella traduzione einaudiana di Remo Faccani) –, laddove il poeta russo riflette sul tempo nella speranza che il gesto poetico si eterni distaccandosi dall’autore che l’ha prodotto. Sì, perché la memoria dell’autore che ha compiuto l’atto di ricreazione della poesia, per quanto importante, non è essenziale quanto la trasmissione del messaggio, dell’umanità di un gesto che può estendersi alla collettività, al futuro.

Gianluca D’Andrea
(Aprile 2014).

Spazio Inediti (10): Marco Malvestio – di Gianluca D’Andrea

marco malvestio

Marco Malvestio

di Gianluca D’Andrea

Spazio Inediti (10): Marco Malvestio

Su due quadri di Alexander Adrieanssen e Willem Claesz

Tra la polvere che in questi miei giorni
col silenzio concorre in eruzioni
cutanee ad infierire sui miei ozi
e lo specchio infedele che mi filtra
spettrale attraverso le lenti
dell’occhiale, e i versicoli d’amore
e le prose non già di romanzi
ma degli strutturalisti,

i cumuli di pesce ordinati
sugli argenti, immobili, egualmente
e gelidi, i pallidi limoni,
i calici di liquidi placati,
l’assurdità serena degli artropodi –

compongono un paesaggio lunare
di simboli precisi e commestibili
cose che altrimenti vivremmo
come votate alla carneficina
del tempo, certe visioni di morte
che si acconciano, nel semplice miracolo
dell’occhio, in leziosa eternità –
l’invidia.


Uno studio sulla visione: si parte dal rispecchiamento che non concorre al riconoscimento, anzi, permuta le prospettive personali – intese come deformanti, in negativo – con le indecisioni e gli accanimenti sul sé (tutta la prima strofa è implicazione del soggetto che tenta di autodefinirsi nelle sensazioni e luoghi del momento, infatti, il «silenzio concorre in eruzioni/ cutanee ad infierire», vv. 2-3, così come «lo specchio infedele che […] filtra/ spettrale attraverso le lenti dell’occhiale», vv. 4-6, ci dice la trasformazione, quasi colpevole, delle visuali mobili, mai fisse). Probabilmente l’accanimento visivo – ripresentato nel movimento ecfrastico della seconda strofa, con cui si descrivono alcuni dettagli dei quadri richiamati dal titolo del componimento – tenta un orientamento, una nuova definizione prospettica. I riferimenti alle nature morte fiamminghe, alla vanitas, riflettono la tensione alla ridefinizione di un senso in risposta alla nullificazione dello stesso, leggiamo che gli oggetti descritti nei quadri (che la poesia ri-descrive): «compongono un paesaggio lunare/ di simboli precisi e commestibili/ cose che altrimenti vivremmo/ come votate alla carneficina» (vv. 14-17). Questa ricreazione del paesaggio (che infierisce sugli ozi personali dei primi versi) è il risarcimento, il recupero possibile di una volontà che sposta la sua attenzione al quadro esterno, distogliendo lo sguardo dai riflessi continui (deformanti nella prima strofa). La visionarietà dell’inizio tradiva l’accanimento narcisistico del soggetto, la visuale modificata della parte centrale apre a un esterno che, però, è il dipinto, cioè il quadro sempre circoscritto, che neutralizza l’esistere (inteso come vanitas) in un gioco di velamento, per cui la percezione minuziosa dei dettagli è stemperata da una visione monocorde (o monocromatica).
Il dettato tradisce la riflessività ossessiva, una fuoriuscita dal sé è un accenno, certo positivo, riscontrabile nel distanziamento dalla scientificità mortuaria della visione: i simboli non sono solo «precisi» ma anche «commestibili», la materia può essere sentita nel «semplice miracolo» della sua presenza, e questa vista, non asfissiata dall’oggetto osservato, cioè dalla realtà riflettente esclusivamente il sé, può ribaltare definitivamente lo sguardo impreciso, l’ottica bieca dell’«invidia», cioè di quel sentimento di chiusura solipsistica che distoglie il soggetto dall’alterità.

(Aprile 2014)


 Marco Malvestio è nato a Padova nel 1991, dove ha conseguito la maturità classica e sta laureandosi in lettere moderne.
Ha pubblicato la raccolta Depurazione delle acque (La vita felice, 2013).

Spazio Inediti (9): Davide Castiglione – di Gianluca D’Andrea

davide castiglione

Davide Castiglione

di Gianluca D’Andrea

Spazio Inediti (9): Davide Castiglione

Corsa senza andata

Chi non si defila dai microfoni
e macella a tono; chi da dietro
perpetua lo scheletro. A proposito, c’è il guardrail
come fossile di serpente ma nessuna tentazione
di superarlo o di
interromperlo – è indiscutibile dal pullman che si limita
a spostarsi mentre tu sai viaggiare. Una svolta,
eppure si ripropone
al pari delle centrali
e delle fabbriche un po’ museo per non parlare
dei campi – che oggi a guardarli misurano
la nostra lontananza
dalle nostre mani. È che molto non se ne va,
molto è nuovo sempre: questa ora attraversata di anni
ne vale trenta – i tuoi, quelli di un paese
in cui le fermate sono una sola
che è sconfinata e ripaga l’attesa
con il culto dell’attesa. Piuttosto
si comincia con chi scende alla lettera
da qualche vigalfo italia villanterio
o cambia provincia con il più in là
del finestrino sugli occhi: sui tuoi ho saputo
di una bimba che dà un sorriso e se stessa
correndo porta via.


Poesia d’evocazione, in una concatenazione correlativa – di stampo certo montaliano – per cui gli oggetti di scrittura fungono da propulsioni estensive di un’emozione contenuta, che limita il suo sbocciare: «… chi da dietro/ perpetua lo scheletro. A proposito, c’è il guardrail/ come fossile di serpente ma nessuna tentazione/ di superarlo o di/ interromperlo…» (vv. 2-6). Il continuo gioco d’inarcature tradisce una confidenza eccessiva con le strategie compositive del Sereni degli Strumenti umani, soprattutto, che contribuiscono a creare la sensazione, appena evidenziata, di un limite che resta invalicabile per la nominazione: la riattivazione dell’azione (vedere, a tal proposito, la sintassi lineare, l’assenza di slanci metaforici, l’impostazione nominale della stessa sintassi: «…questa ora attraversata di anni/ ne vale trenta – i tuoi, quelli di un paese/ in cui le fermate sono una sola/ che è sconfinata e ripaga l’attesa/ con il culto dell’attesa…», vv. 14-18). Il tema dell’attesa può trovare soluzione alla stasi solo nelle potenzialità di un viaggio che vale per se stesso e che, non solo non ha meta ma neanche partenza, il che ci riavvicina alla possibilità di un’azione che, perduto ogni scopo, si definisce per il semplice fatto di esistere. Forse, allora, i collegamenti stretti a Montale e a Sereni, sul piano compositivo, possono indicarci le direzioni di una poetica che dai suoi maestri tenta di emanciparsi. Almeno da un punto di vista contenutistico questo è abbastanza evidente: «…È che molto non se ne va,/ molto è nuovo sempre», vv. 13-14. Le scelte formali, però, subiscono i vincoli dell’apprendistato e non consentono di cogliere novità o propositi di una nuova lettura del reale, svincolata dall’assillo dell’aderenza al grigiume di un contesto mutato, di cui non sembra ancora evitabile l’accertamento, non mai l’immersione. L’alterità è ancora un rimpianto irraggiungibile, una tensione moralistica che ritarda l’azione o la rifugge (il che è lo stesso): «… cambia provincia con il più in là/ del finestrino sugli occhi: sui tuoi ho saputo/ di una bimba che dà un sorriso e se stessa/ correndo porta via» (vv. 21-24).
Il nominalismo evidenziato, la teoria delle cose che circonda il soggetto ma non sembra coinvolgerlo in un che minimo slancio, risentono di un “novecentismo” senza sbocchi, per cui il movimento si ritrae centripetamente verso l’osservazione (che non si apre alla visione: come in Rèbora ad esempio, almeno nel contenuto) o centrifugamente scivola verso l’immateriale, entrambe tendenze che manifestano un blocco “metafisico”. L’aderenza al divenire è inceppata dal desiderio di un punto fisso, ritrovato, forse, nella volenterosa attenzione di un osservatore ancora marginale, non aderente a quel se stesso che è l’alterità. L’alterità, che non si risolve per forza nell’interlocuzione, fuggevole, è la stessa assenza del soggetto non ancora pronto ad accogliere le metamorfosi del reale, la visione del vero, limitandosi all’osservazione distanziante del quadro (la “corsa senza andata” già presente nel titolo).

(Marzo 2014)


 Davide Castiglione (Alessandria, 1985). Nel 2010 si è laureato all’Università di Pavia (tesi: Sereni traduttore di Williams). Attualmente vive a Nottingham (UK), dove conduce un dottorato di ricerca in poesia contemporanea e stilistica.  Suoi saggi accademici sono usciti su «Strumenti critici» e sul «Journal of Literary Semantics». Cura il sito personale www.castiglionedav.altervista.org, ha co-fondato il progetto collettivo di critica poetica www.inrealtalapoesia.com e recensisce regolarmente per vari siti. Per la poesia, ha vinto ai concorsi «I poeti laureandi» e «Subway» (2008) e pubblicato Per ogni frazione (Campanotto, 2010), segnalata al Premio Lorenzo Montano (2011).

Debito degli Ecosistemi (11/04/14)

Gianfri, Gianluca

Gianfri, Gianluca, Lorenzo

Gianfri, Gianluca, Lorenzo

Paolo, Gianluca, Lorenzo

Paolo, Gianluca, Lorenzo

Forlimpopoli

Forlimpopoli

Carteggio VIII: Purismi mortuari e forma comune dell’ibridazione. Poesia come esistente

jankelevitch

Vladimir Jankélévic

di Gianluca D’Andrea

Carteggio VIII: Purismi mortuari e forma comune dell’ibridazione. Poesia come esistente

Qualche giorno fa, al telefono con un’amica, ho avuto la possibilità di riflettere sulla potenzialità di diffusione del messaggio poetico attraverso i canali offerti dalla rete. I siti-contenitore di poesia si moltiplicano confermando la tendenza al decentramento e alla pluralità. I link, il rimando costante, la connettività stretta consentita dai social-network, contribuiscono a modificare la percezione del fenomeno poesia che sembra dilatarsi e, dalle stanze chiuse dell’editoria e dell’informazione stampata, raggiunge un livello di consuetudine svincolato dalla monodirezionalità dei canali tradizionali. In termini negativi, la connettività perpetua provocherebbe un’espressività arbitraria, proprio perché disancorata dai filtri del precedente scambio relazionale, fatto quasi esclusivamente in praesentia. Il dato concreto, però, evidenzia uno scarto evolutivo della stessa relazionalità, che si ricontestualizza nella rapidità dell’accesso al dialogo e nella possibilità singola di maturare la propria libertà, partendo dal nuovo accesso al contatto. Al fondo di queste dinamiche agiscono gli stessi valori relazionali di sempre, ma aumenta la consapevolezza dell’ibridazione, di cui la virtualizzazione dell’essente, aspetto integrante della nuova società, è ampia manifestazione.
Lasciando da parte la superficie liquida e fluente del fenomeno, è molto più produttiva un’immersione nelle potenzialità ri-creative che l’essere relazionale realizza all’interno del mondo della mutazione, anticipando la fine della dicotomia che tagliava in due l’esistenza stessa, il movimento oscillatorio, in una visione manichea e purista che distingueva nettamente tra un Bene idealizzato e un Male, il divenire, contaminatore. Proprio il divenire, caduta definitivamente ogni possibilità “semplificante” dell’esistente – nei termini appena esposti della ricostituzione di un’innocenza primigenia, fatta di naturalità creaturale – si manifesta come passaggio infinito dall’egoità all’alterità (Jankélévitch). Gli attimi di contatto con l’alterità sono l’amore, la ricreazione – nell’oltre sé – ovvero la poesia (ποίησις), l’impulso generativo che, nei momenti di estraniazione dal sé (ricreazione del sé e avvento dell’altro) permette l’azione, l’unica spontaneità del movimento, sempre rifluente. Per questo la poesia (l’esistente) è la più comune delle ibridazioni – e non può che essere presente, essendo un movimento, nell’epoca della perdita della distinzione limitante tra reale e virtuale – perché permette di ri-attivare continuamente, non solo per mezzo della scrittura (la poesia è tutti i linguaggi), lo slancio iniziale, cioè la caduta nell’alterità. Questa attivazione è l’azione, in questo caso semplice perché effettiva, che consente la riproduzione del vero movimento, costituito di soglie d’attraversamento, per cui il soggetto, essendo immerso nell’alterità, sceglierà costantemente le proprie intenzioni – che siano di chiusura o apertura alla stessa alterità – effettuando un cammino che non ha altra certezza se non il suo stesso tragitto, il quale si compie ma non può fermarsi.
L’esperienza dell’alterità – dell’oltre che non è uno spazio separato, una virtualità astratta, bensì una virtualità in cammino, senza requie – è la vera possibilità che l’esistenza si riattivi fuori da nichilismi e monadismi di sorta, così come la poesia – l’azione fattrice – che con l’esistenza in sostanza coincide.

(Aprile 2014)

Cinque poesie di Gianluca D’Andrea per l’Estroverso

Sull’Estroverso, cinque miei testi inediti

http://www.lestroverso.it/?p=6361

Stelvio Di Spigno – Testo e commento

stelvio-di-spigno

Stelvio Di Spigno

di Gianluca D’Andrea

Il premio del deserto

Non troviamo scritto che egli abbia mai
mormorato contro Dio, ma sopportava la fatica
rendendo grazie, per questo Dio lo prese con sé.

Detti dei Padri del deserto, Collezione anonima, 376

Delle pigre montagne lanciate a mormorazione
delle nubi e dei falchi contro la spettrale solitudine,
quelle che vanno da Mercogliano a Fossanova
hanno più da dire, più da parlare intorno al mondo
che in questa similitudine fabbrica stipiti e porte ingannatrici,
grandi messaggi di pietra e di grotte sul dosso dell’aurora:
la più grande vittoria è di chi sa stare in piedi
restare utile nella grande selva di tutti gli io
passati, futuri e venienti,
la tavola appena raccolta sotto il delirio
floreale della casa al mare, anzi sottomarina,
il tutto sparito sotto una coltre di anni abnegati,
i vestiti chiari, il roseo passaggio di venti e barche
sotto il porto turistico e il molo riservato
ai pochi che ancora non sanno cos’è stato
l’urto solenne della vita col suo cono d’ombra,
la sua scomparsa per le mille feritoie del tempo.

(Tratta da Qualcosa di inabitato, di Stelvio di Spigno e Carla Saracino, EDB, Milano 2013).

Poesia di luoghi e tempi assoluti, una resistenza migrante, un pellegrinaggio estetico in movimenti oscillatori: si passa dalle «pigre montagne […] che vanno da Mercogliano a Fossanova» (itinerario spirituale, ricordiamo le presenze religiose significative del Santuario di Montevergine e dell’Abbazia di Fossanova) alla più prosaica, si fa per dire, «tavola appena raccolta sotto il delirio / floreale della casa al mare, anzi sottomarina». Sì, perché il movimento del testo ci illustra il mutamento continuo sotteso a una poetica della trasfigurazione. Una fuoriuscita dal solco (il delirio) delle apparenze, l’accensione che in un attimo ricrea il mondo per poi scomparire «per le mille feritoie del tempo», con uno slittamento metaforico che riconduce all’attesa, alla ripetizione solenne (che si ripete negli anni, diventando celebrazione) di un gesto, quello poetico, sempre rinascente dalla clausura fortificante del tempo. Proprio il tempo sembra assumere una valenza escatologica che, innescandosi nella memoria del soggetto, riapre alla resistenza di un senso che va oltre la «grande selva di tutti gli io / passati, futuri e venienti», funzionando come il dispositivo di un’attesa, di una speranza a venire, che riqualifichi l’utilità dell’esistenza. Il procedimento è complicato dalla fiducia sviante nei luoghi della memoria, moralmente implicati nel desiderio del soggetto che si ripercuote sul reale. Partendo proprio dal volo cognitivo della prima parte, raccogliendosi, nel finale, in referenze che rinviano alla ripetizione («l’urto solenne della vita col suo cono d’ombra», che agisce nel senso di una ritualità imprescindibile, per cui il nome sottaciuto e velato sotto la metafora comune è la morte, innominabile perché si vuole liberare dalla retorica della fine, assimilandola alla vita di cui è più semplice – ma quanto rigoroso! – velamento), alla scomparsa e alla chiusura («le mille feritoie del tempo» che possiedono comunque uno spiraglio difensivo – la minima luce di una difesa che è speranza nell’assedio del tempo), la composizione afferma il suo compito, ci avverte sull’ineluttabilità del limite, ci ricorda che «il premio del deserto» è la dissoluzione (leopardianamente?), ma ci informa, allo stesso tempo, della speranza che non tutto è nullificato se si ha fede nel resistere nonostante, in quel sacrificio che consente anche in un unico istante di far penetrare la luce nella fortezza assediata.


Stelvio Di Spigno vive a Napoli, dove è nato nel 1975. È laureato e addottorato in Letteratura Italiana presso l’Università “l’Orientale” di Napoli. Ha scritto articoli e saggi su Leopardi, Montale, Gadda, Pavese, Zanzotto, Claudia Ruggeri e sulla post-avanguardia poetica italiana, insieme alla monografia Le Memorie della mia vita di Giacomo Leopardi – Analisi psicologica cognitivo-comportamentale (L’Orientale Editrice, Napoli 2007). Ha collaborato all’annuario critico “I Limoni” con recensioni e note sotto la guida di Giuliano Manacorda. Per la poesia, ha pubblicato la silloge Il mattino della scelta in “Poesia contemporanea. Settimo quaderno italiano”, a cura di Franco Buffoni (Marcos y Marcos, Milano 2001), i volumi di versi Mattinale (Sometti, Mantova 2002, Premio Andes; 2a ed. accresciuta, Caramanica, Marina di Minturno 2006, Premio Calabria), Formazione del bianco, (Manni, Lecce 2007, finalista Premio Sandro Penna), La nudità (Pequod, Ancona 2010), Qualcosa di inabitato, con Carla Saracino (EDB, Milano 2013).