
Italo Testa
LE IMPLICAZIONI DELLA NUDITÀ: La divisione della gioia di Italo Testa, Transeuropa, Massa 2010
«Eppure, secondo la legge che vuole che nella storia non si danno ritorni a condizioni perdute, dobbiamo prepararci senza rimpianti né speranze a cercare, al di là tanto dell’identità personale che dell’identità senza persona, quella nuova figura dell’umano – o, forse, semplicemente del vivente -, quel volto al di là tanto della maschera che della facies biometrica che non riusciamo ancora a vedere, ma il cui presentimento a volte ci fa trasalire improvviso nei nostri smarrimenti come nei nostri sogni, nelle nostre incoscienze come nella nostra lucidità».
Giorgio Agamben
Continua il tentativo di lettura del reale, la visione poematica come approccio a un pensiero che si confronta con i dati modificati di un mondo post-umano per svelarne le nuove coordinate. La divisione della gioia redime, attraverso formazioni stilistiche miste, e ricompone la narrazione poetica, affermando, in questo modo, la possibilità di un discorso che si riattualizza dopo una lunga frantumazione. Le modalità utilizzate emergono dall’architettura del testo: tre sezioni intersecate, tre momenti di un unico poema che è l’esistenza.
L’atmosfera primeva, aurorale della prima sezione, Cantieri, alba meccanica e umana, segno di una nuova vita che si illumina dei gesti consueti, senza altro senso se non l’essere (forse potremmo azzardare l’Essere) nudo con i suoi movimenti e accadimenti cui il soggetto presenzia come osservatore implicato e, nonostante l’apparente distacco, partecipe.
Essere in ogni situazione e sentire l’irreparabilità degli eventi è il tema chiave che introduce l’intera raccolta caratterizzandola: in romea, mattina, il componimento d’apertura, l’anafora martellante, il «qui» ripetuto sette volte non lascia scampo, le coordinate uniche possibili sono nell’immanenza dell’esserci.
La sezione centrale, che dà il titolo al libro, è un poema di relazione che si ricostituisce sommando frammenti lirici e narrativi in un clima denso di umori e tentativi di agnizione che derivano dal loro stesso accadere, quasi simultaneo: «o se appoggiata a uno schienale,/ nuda, alle undici di mattina/ ti toccherai furtiva, e senza/ più ben sapere chi siamo stati,/ quando la lampada ci cadeva/ a lato, e il letto si spostava/ dal muro, e l’acqua non bastava» (I. un luogo qualunque, p. 21, vv. 57-63); il ricordo scatena l’immaginazione trasportando con sé la possibilità degli eventi, ma è sempre nell’ hic et nunc e per mezzo della presenza del soggetto che ha luogo ogni azione, ecco perché possiamo affermare che le intenzioni dei quattro poemetti della sezione sono quelle di ri-creare il mito dell’esistere.
La ricerca sbadata, l’illuminazione che permette al senso di sostenersi senza impalcature o intellettualismi, è ciò che La divisione della gioia ci offre, il dono di «quel seno concavo da cui risonare le voci degli altri uomini» (G. Pascoli, Il fanciullino, nottetempo, Roma 2012, p. 38), la voglia “regressiva”, se è lecito, di spogliarsi e sentire il mondo in tutte le ramificazioni e venature che vivificano l’essente, trovando la dimora in assoluto «o un istante da abitare/ fermi sulla sponda di un balcone,/ di sbieco su una sedia, dormendo,/ pensando, facendo ogni cosa» (II. ogni cosa, p. 28, vv. 79-82) che è lo stesso assoluto.
Questa nascita del mondo, eterna e dimenticabile, eterna perché dimenticabile, che la poesia porta a riconoscere nella fine di ogni parola pronunciata, è «fare esperienza della lettera come esperienza della morte della propria lingua e della propria voce» (G. Agamben, Pascoli e il pensiero della voce, in Il fanciullino, op. cit., p. 26), è l’origine (e l’originalità) del nostro essere, in particolare del nostro essere postumi finché «anche noi saremo nudi e inermi/ con la pelle a contatto del suolo,/ i capezzoli duri e rigonfi,/ le gambe in aria spalancate,/ saremo corpi in attesa, tronchi/ riversi, distesi tra le cose» (III. questi giorni, p. 32, vv. 97-102).
L’istanza fenomenologica non interrompe il dialogo che il soggetto compie col mondo e, anche soffermandosi sulla “cosalità” che lo caratterizza, non traspare alcuna metafisica degli oggetti, semmai una meta-fisica dell’abbandono.
All’esistente, al desiderio di compartecipazione panica occorre «abbandonarsi, lasciarsi andare/ tra le erbe matte sul terreno/ esser così, per sempre accolti,/ confusi in quel brillio indistinto» (ibid., p. 33, vv. 113-116).
Maurice Merleau-Ponty così si espresse nel 1945 sulla fenomenologia introducendo il concetto di “campo trascendentale”:
«Se vogliamo che la riflessione conservi all’oggetto sul quale si dirige i suoi caratteri descrittivi e lo comprenda veramente, non dobbiamo considerarla come il semplice ritorno a una ragione universale, realizzarla anticipatamente nell’irriflesso, ma dobbiamo considerarla come una operazione creativa che partecipa anch’essa alla fatticità dell’irriflesso. Ecco perché, unica fra tutte le filosofie, la fenomenologia parla di un campo trascendentale. Questo termine significa che la riflessione non ha mai sotto il suo sguardo il mondo intero e la pluralità delle monadi dispiegate e oggettivate, che essa non dispone mai se non di una veduta parziale e di un potere limitato» (M. , Fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano 2009, pp. 105-106).
Il “campo trascendentale”, allora, una volta chiarito il suo significato, sembra sottendere l’intera operazione di La divisione della gioia. Si tratta, infatti, del campo a cui ogni soggetto ha accesso dalla sua particolare prospettiva e che preannuncia una potenzialità assoluta di percezione: la disposizione che ogni individuo (monade) ottiene nell’apertura o abbandono al reale che gli pertiene, che gli è vicino in ogni spostamento, per questo «[…] la nostra dimora è in un campo» (IV. in una strana luce, p. 35, v. 10), per questo è ribadito il limite (l’utilizzo deciso delle minuscole in ogni momento dell’opera agisce a tale scopo) di aderenza del soggetto alla sua visione, alla sua forma momentanea, metamorfica.
Tutto il libro è metamorfosi, in primo luogo formale: il verso libero, le stanze del poema, le forme chiuse, le ricerche sonore ne esprimono la varietà stilistica; tematica: il paesaggio post-industriale nella prima sezione, il paesaggio mentale e relazionale delle ultime due e soprattutto le tre strade aperte dal Delta dell’ultima sezione che rimpasta il tema relazionale fino a chiudere le tre ramificazioni – le tre micro sezioni – nell’abbandono alla dis-trazione finale, nell’ultimo componimento che rimette in circolo possibilità ulteriori.
Passando dal «mattino di vita/ che il mondo ci offriva» (lo stacco, p. 71, vv. 18-19) e dalla velocità ritmica di giostra (pp. 69-70) che, come in un vortice, ci costringe ad entrare in «questa vita, non un’altra» (giostra, p. 69, v. 1) arriviamo all’ultimo capitolo dell’opera che sembra chiudere il cerchio aperto dal mattino della prima poesia:
SBADATAMENTE
una bottiglia di plastica, tagliata
a metà, sul ripiano del lavabo
mi hai lasciato, quando te ne sei andata,
per innaffiare il nostro amore:
ma io mi dimentico, ed evado
le tue consegne, di giorno in giorno
la luce si ritira, io me ne vado
lasciando i nostri fiori in abbandono,
e così, sbadatamente, continuo
a camminare per le strade, solo,
a fuggire, allarmato, dal tuo bene,
per rincasare, affranto, a sera
scoprendo la felicità inattesa
delle tue piante ancora vive, e nuove.
(p. 75).
È in scena una catarsi, che nella distrazione esegue la melodia che accompagna ogni esistenza, o la comprensione definitiva, poiché manifesta, di «come la sbadataggine non è che un anticipo della redenzione» (G. Agamben, Gli aiutanti, in Il giorno del giudizio, nottetempo, Roma 2004, p. 27), della nuova sacralità che il mondo impone con la sola presenza. Questa constatazione, è vero, ci priva della nostra “speciale individualità”, ma ci consente di vigilare, finalmente senza alcuna possibilità di fuga, sulla nostra vera appartenenza.
Gianluca D’Andrea
(Giugno-Luglio 2012)
Mi piace:
Mi piace Caricamento...