UNDERCORNER – Rubrica per giovani lettori (“Fight Club” di Chuck Palahniuk)

fight

UNDERCORNER – Rubrica per giovani lettori (Fight Club – di Chuck Palahniuk)

fightclubcvr

Combattere contro qualcuno che non esiste eppure è sempre accanto a noi, non è davanti, non è dietro, ci circonda a trecentosessanta gradi, siamo incapaci di sfuggire al suo sguardo. Il senso di impotenza, figlio della totale assenza di spiragli, non farà che aumentare il potere di quell’ombra funesta che è il desiderio. Quel desiderio che alberga nel cuore di ognuno di noi e che prende forma ogni volta che, specchiandoci in un frammento di vetro, ci troviamo di fronte al migliore dei nostri riflessi: perfetto nella sua imponenza e magnificenza, dall’indiscutibile carisma e dalla dirompente personalità. Il nostro avversario più abile e al contempo il nostro premio, la somma ambizione, l’utopico possesso. L’origine di una fine è una miope frustrazione, la consapevolezza di non essere capaci di automigliorarsi e quindi la ricerca di un rimedio al mal di vivere e l’approdo all’autodistruzione. Questo è Fight Club: la storia di un’autodistruzione.
I personaggi sono delineati da grezzi contorni oscuri, qua e là bruciati da baci chimici o da fiamme di sigarette non ancora consumate, dietro questi grotteschi tratti scuri si può chiaramente distinguere ogni granello di umana angoscia. Come in un vortice senza fine sembra protrarsi la sofferenza, non esiste stabilità, ma solo dittatoriale anarchia. Le claustrofobiche brevi sentenze, i dialoghi velati di nero sarcasmo, le rivoluzionarie affermazioni capaci di trasformare ogni individuo in una scimmia spaziale, succube del fascino di un utopico e crudele sogno individuale, ci trasportano in un limbo solitario e al contempo sovraffollato. Non ci sono donne in questo mondo. O quasi. C’è Marla. Marla, la cui filosofia è “di poter morire in ogni momento” e la cui sofferenza viene dal fatto che ciò non accada; la causa concreta dell’inizio di tutto, madre del turbamento che per la prima volta farà apparire Tyler Durden, Marla che non ha un grammo di grasso in corpo e che non ama Tyler, ma qualcosa del genere. È l’unica donna ad avere un ruolo rilevante in Fight Club, ma non per questo assume la forma di uno stereotipo; è una persona “storta”, particolare, unica nel suo dolore e nella sua pazzia. Tutto è frenetico in Fight Club, confuso, interrogativo e spietato. E noi non capiamo più se ci troviamo tra le grinfie di una rivoluzione o nel bel mezzo di un dispotico universo. Ognuno di noi conosce Tyler Durden, che di colpo si fa più reale, più ostinato. Ognuno di noi vorrebbe essere Tyler Durden. Ognuno di noi, per questo motivo, lo colpisce. Non dimenticherò facilmente questo romanzo, che neanche nella sua morte trova una conclusione. È geniale. È semplicemente geniale. Un più realistico, moderno e violentissimo Dr Jeckyll e Mr Hyde. Noi siamo Tyler Durden, siamo Marla Singer, siamo una scimmia spaziale, siamo Big Bob, siamo Chloe. Tutto nell’arco di un attimo, senza neanche accorgercene. Perdiamo la nostra identità immergendoci completamente tra le pagine. Smettiamo di cercare dei limiti o delle mura, qualunque cosa vi sia dalle due parti. Scopriamo che stiamo combattendo. Li sentiamo, i colpi che Palahniuk ci sferra parlando dell’Ikea e delle nostre vite da consumatori. Desideriamo uscirne. Ci sottomettiamo alla sua idea rivoluzionaria. Ci sentiamo illuminati. Ma magari Fight Club lo stiamo leggendo proprio da sotto un piumone, con la TV accesa a fare da sottofondo e un divano Ikea sotto al sedere. E di colpo ci chiediamo quando anche noi avremo il coraggio di incontrare Tyler Durden. O forse ricordiamo il tragico epilogo del libro, decidiamo di passare oltre le pagine e di etichettare il narratore come uno psicopatico: scatti violenti, manie suicide… le stesse idee che pure una volta ci erano sembrate brillanti…come altro potremmo chiamarlo?
Improvvisamente ci rendiamo conto di quanto sia comodo il nostro divano Ikea e di quanto sia caldo il nostro piumino. Non è vero che non ci serve, altrimenti come riusciremmo a superare il freddo invernale? Forse abbiamo paura che i nostri comodi cuscini diventino verdi e umidi. Il dramma del narratore si poteva evitare? Il problema non sono i cuscini. Possiamo anche non riconoscerci nelle parole di Tyler Durden, ma prima di essere consumatori, siamo umani. E se per delle comodità siamo capaci di rinunciare a declamarci così in primis allora potremo dire di aver venduto i nostri principi etici per un tavolino facile da montare.

Charlotte Westenra

UNDERCORNER – Rubrica per giovani lettori (“Trainspotting” di Irvine Welsh)

trainspotting_poster_by_parpa-d4qnkpw-e1443384775480

Trainspotting Poster by Parpa © (Fonte: DeviantArt)

UNDERCORNER – Rubrica per giovani lettori (Trainspotting – di Irvine Welsh)

trainspottingTrainspotting è uno di quei libri che lasciano un segno indelebile nella nostra anima, uno di quei libri che è difficile dimenticare e che, in modo peculiare, diventano parte integrante del nostro essere.
La trama è semplice, quanto cruda, quasi impossibile da riassumere rendendo giustizia alle pagine scritte.
Non credo che Trainspotting sia un romanzo nel senso più tradizionale del termine, piuttosto una sequenza di pensieri e di riflessioni, di ricordi mischiati ad allucinazioni.
Non ci ritroviamo davanti ad una trama lineare né a capitoli numerati, bensì ad episodi scollegati, brevi racconti, legati da intermezzi denominati “Dilemmi del drogato” (numerati, almeno quelli, ma comunque in maniera discontinua, come se fossero parte di un libro che viene sfogliato svogliatamente).
Perfino nella struttura ritroviamo quella confusione, quell’apparente assenza di costanza che va in realtà a marcare i confini della monotonia, la stessa da cui i nostri protagonisti cercano di scappare trovando un rifugio nella droga e negli eccessi.
I nostri “amici” fanno parte di una delle tante combriccole di Edimburgo, nello specifico nel quartiere di Leith.
Chi ha più voce all’interno del romanzo è Mark, anche detto Rent Boy, ragazzo in affitto. E’ l’unico di cui conosciamo la famiglia e una fetta di passato e che ci fa indovinare la ragione del suo essere “trainspotter”. Per Welsh non è importante cosa abbia spinto i ragazzi a cominciare a bucarsi ma quanto essi provino, invano, a smettere. E’ proprio Rent il più determinato ad uscire dall’amata casa gestita dalla Madre Superiora per entrare nel circolo borghese fatto di tv e poltrone comode e lussuose, il cui squallore è la causa scatenante della sua dipendenza e di cui riesce a cogliere la misera monotonia e al contempo l’irrangiungibile tranquillità.
Spud, invece, a sua volta eroinomane, è il più debole del gruppo. Anche se, probabilmente, “debole” non è il termine più calzante.
Debole è colui che soccombe, colui che non ce la fa. Ogni personaggio di Trainspotting è debole. Perfino Begbie, che non si droga e che recita la parte del duro è debole, forse proprio il più debole, ma quello che sa nascondere meglio la sua debolezza, dietro un muro rosso sangue che puzza di alcool. Ma si può dire che Spud sia il meno meschino, il più ingenuo.
Sick Boy è, invece, il donnaiolo che non può mai fallire e che imprigiona con il suo sguardo da cerbiatto ogni donna che desidera. È uno stronzo, Sick Boy. Ma forse meno di quanto ci lascino pensare i suoi racconti.
È pur sempre umano e gli riesce impossibile, davanti alla morte in culla di quella che sapeva essere sua figlia, ricordare di essere l’alter-ego di Sean Connery.
Poi c’è Tommy, lo sportivo biondo che ha tutto ciò che si possa desiderare ma che, preferendo un concerto di Iggy Pop a Lizzy, la sua fidanzata, vedrà il suo mondo frantumarsi in mille pezzi e si lascerà cadere a sua volta nel temibile limbo dei drogati.
Irvine Welsh entra nella mente di ognuno dei suoi personaggi e dà voce a quello che vi trova, senza modificare un singolo verbo.
È anche questo che rende Trainspotting uno dei romanzi più crudi che io abbia mai letto: l’assenza totale di filtri.
Pur essendo il primo libro (e il più fortunato, grazie anche al film di Danny Boyle) dello scrittore, non vi è ombra di quel pudore e quella timidezza che è facile trovare in chi è agli esordi.
È difficile restare estranei durante la lettura del libro, astenersi dall’integrare alcune espressioni ricorrenti nel proprio linguaggio, è una condizione che dobbiamo accettare se vogliamo godere a pieno di ciò che la storia ha da comunicarci.
Diventiamo anche noi degli eroinomani, sentiamo ogni granello di angoscia posarsi sulla nostra schiena, ogni richiesta di aiuto sembra giungere alle nostre orecchie, chiara come se fosse vicina.
Ci ritroviamo catapultati in una realtà che vorremmo quasi non esistesse, accorgendoci di quanto sia vicina, di quanto sia facile varcare il confine.
Non riusciamo a condannare i protagonisti per le loro scelte, proviamo empatia nei loro confronti, eppure siamo consapevoli che tendere loro una mano sarebbe inutile.
Ma quello che rende veramente unico Trainspotting è la presenza, per nulla velata, dell’elogio delle doti dell’eroina agli occhi dei tossicodipendenti. Non abbiamo infatti la visione di un disagio provocato solo dal dolore, quello che più spaventa è l’ossessione.
La maniacale ricerca di un piacere assoluto e onnipotente, un attimo di vita, la ricerca di un’estasi, di una elevazione rispetto agli altri. Eppure, questo mondo di dannati riesce ad esercitare un fascino malato, viscerale, al quale non è difficile soccombere.
Non è il momento della “botta” che ci viene presentato come un inferno, bensì quello posteriore, quello dell’astinenza.
Sudore, dolore, allucinazioni, urla, cantilene che sembrano non avere fine, sensi di colpa, fantasmi… e l’unico modo per uscirne è andarsene, per sempre, senza fare più ritorno.
E’ questo che farà Rent, sceglierà la vita lasciando indietro tutto e tutti, un atto di egoismo assoluto e tradimento, per assicurarsi un futuro, un posto fisso in quel mondo borghese e agiato che tanto credeva di odiare ma al quale, in realtà, aveva sempre ambito.
Ma sarà quella vita di lunga monotonia che Mark sogna, abbastanza da eguagliare quell’estasi provocata dall’eroina e tanto elogiata nonostante le sue conseguenze?
Trainspotting merita un posto d’onore nella lista dei miei libri preferiti. Era da tanto tempo che volevo leggerlo e avevo molte aspettative, che non sono rimaste insoddisfatte.
Molti vorrebbero che la realtà contenuta in questo romanzo non esistesse, altri si rallegrano di non farne parte, altri ancora sputerebbero addosso ad ogni singolo personaggio se solo ne avessero l’occasione. L’unica cosa che io posso dire di aver provato, durante la lettura del libro è stata una grande empatia. Non so per altri, ma per me è il sentimento più umano di fronte a situazioni del genere. Perché, per quanti sbagli si siano fatti nella vita, nessuno merita di rimanere prigioniero in un inferno o di trovare un cadavere nella culla al posto della propria figlia, nonostante ritrovarsi ad affrontare i risultati del degrado, una volta usciti dal mondo di fantasia che la droga aiuta a costruire, sia un ovvio effetto di una totale mancanza di attenzione per tutto ciò che non sia la dose giornaliera di eroina. Consiglio anche il film di Danny Boyle, dalla meravigliosa colonna sonora, che mantenendosi abbastanza fedele al libro riesce a tradurre la percezione che si ha del film attraverso una fotografia e delle scelte stilistiche molto particolari.
Quella di Trainspotting, seppure scritta più di venti anni fa, è una storia che si può ancora dire attuale. Come previsto, le droghe sono cambiate e la sessualità ha abbattuto ancora tanti tabù.
Eppure, per quanto ci possiamo ripetere il contrario, è cambiato ben poco.
E non potremo, ancora una volta, trovare nessuno a cui dare la colpa.

Charlotte Westenra

UNDERCORNER – Rubrica per giovani lettori ("Gli sdraiati" di Michele Serra)

gli-sdraiati

UNDERCORNER – Rubrica per giovani lettori (Gli sdraiati – di Michele Serra)

Siamo davvero tanto maturi da avere il coraggio di scoprire come appariamo agli occhi di chi ha vissuto più a lungo di noi?
Rimaniamo immobili a scrutarli, interloquiamo, a volte tentiamo di immaginarli nel fiore della loro giovinezza. Ma davvero ci curiamo di quello che pensano di noi?
Loro sono “I parenti”, coloro che hanno l’obbligo di amarci, nonostante il pessimo trattamento che riserviamo loro. Quelli che, secondo la nostra concezione, non possono né mai potranno ripudiarci.
Eppure, nonostante il menefreghismo e l’ostilità che riusciamo a riservargli, vogliamo loro bene.
Come il figlio di Michele Serra vuole bene a lui, nonostante preferisca chiudersi in una buia stanza ascoltando musica chiassosa piuttosto che ammirare la decadenza testimoniata dal mare in tempesta in compagnia del padre.
Ne Gli sdraiati, l’autore esordisce con la descrizione della vita di un adolescente, come solo un padre può fare.
Mi riconosco nei tanto odiati comportamenti descritti?
Sì. Siamo pigri, schiavi della tecnologia e apparentemente asettici di fronte a qualsiasi elemento che non emetta una luce artificiale.
Almeno quando gli occhi dei nostri genitori sono vigili.
Perché? Per cercare di dissociarci dalla catena familiare, di trovare la nostra identità senza farci influenzare da quella dei nostri avi, pronti a contaminare l’unicità che cerchiamo. Per dimostrare che non siamo la copia di chi ci ha preceduto.
Ciò che i genitori sono lungi dal capire e che nel processo di crescita dei figli vi è un punto oltre il quale il loro intervento risulta eccessivo.
Non hanno più il potere di interferire con la vita della loro progenie e devono considerare che ogni divieto da loro pronunciato verrà preso come qualcosa da fare almeno una volta se si vuole vivere a pieno il proprio tempo.
Eppure Michele Serra non parla degli adolescenti, ma dei padri: le loro insicurezze, i loro complessi di inferiorità, l’amara ironia con cui cercano di dimostrare di non essere i classici genitori “rompicoglioni”.
Ma come far comprendere al proprio figlio che lo si vuole educare non per dispetto o narcisismo, ma per amore?
Si cerca di rendere ironici i rimproveri, magari provando a sembrare giovani, nonostante le rughe che segnano il volto dicano il contrario. E’ forse meglio diventare aguzzi pezzi di ghiaccio pronti a procurare profonde ferite alla loro vittima ogni volta che questa commette anche il più piccolo errore?
Preferisco il primo esempio. Perché, anche se può sembrare assurdo, noi figli comprendiamo gli sforzi dei nostri genitori, la loro voglia di insegnarci, la buffa e romantica ostinazione del voler andare in gita in montagna insieme.
Lo stile di Serra può non piacere a tutti, è diretto e personale, la lettura può anche risultare difficile, soprattutto per chi preferisce dedicarsi ai libri di narrativa.
Nonostante ciò, sono riuscita a comprendere il pensiero dell’autore, dandogli il volto di mio padre e notando più di un’affinità con quello descritto da Serra.
Questa critica, velata dai frammenti di un’ipotetica battaglia tra generazioni, il cui esito non fa altro che confermare la simpatia di Serra nei confronti della fazione nemica, i figli, è spietata quanto dolce.
E il messaggio che rivolge al figlio e non solo a lui, non è altro che questo: vivi.
“A modo tuo, ma vivi. Lascia che io invecchi”.

Charlotte Westenra


michele-serra

Michele Serra

Michele Serra (Roma, 10 luglio 1954) è un giornalista, scrittore, autore televisivo, e umorista italiano. Trasferitosi da Roma a Milano nel 1959, consegue la maturità classica al liceo Manzoni e, interrompendo gli studi al terzo anno di Lettere Moderne, inizia nel 1975 a lavorare per l’Unità (il giornale all’epoca organo del Partito Comunista Italiano) come semplice dimafonista (tecnico del giornale addetto alla trascrizione del pezzo che i collaboratori esterni hanno registrato al centralino) prima, e poi come redattore ed inviato sportivo. Solo più in avanti si occuperà anche di spettacoli. Michele Serra è ateo.
Al giornale raccoglie l’eredità del celebre corsivista Mario Melloni, alias Fortebraccio, e sciorina commenti corrosivi e cronache tra le più disparate: il suo repertorio spazia dalle recensioni discografiche (ad esempio Nada), alle rubriche sportive (La telefonata del martedì), agli appunti di viaggio, come nel libro Tutti al mare, un celebre giro dell’Italia costiera sulla Panda.
Si iscrive al PCI nel 1974, nel 1991 aderisce al PDS, ma ne esce deluso quasi subito, pur rimanendo fortemente legato alle ragioni della sinistra incarnate un tempo dal PCI.
Nel 1986 comincia a dedicarsi alla satira, collaborando con l’inserto satirico de l’Unità Tango, diretto da Sergio Staino. Per questa sua attività vincerà quello stesso anno il Premio Satira Politica Forte dei Marmi per la sezione “Giornalismo”.
Nel 1987 inizia a collaborare anche col settimanale della Arnoldo Mondadori Editore Epoca, ma rassegna per protesta le dimissioni quando, nel 1990, la proprietà passa a Silvio Berlusconi dopo la “Guerra di Segrate”.
Nel 1988 Tango chiude e il direttore de l’Unità Massimo D’Alema incarica Serra di dirigere un nuovo inserto satirico. Nasce così nel gennaio 1989 Cuore, che dal 1991 diventerà settimanale a sé stante. Negli stessi anni scrive i testi delle apparizioni TV e degli spettacoli di Beppe Grillo.
Viene candidato dal PCI alle elezioni europee del 1989, ma non viene eletto. Sempre nel 1989 esce il suo primo libro di racconti, Il nuovo che avanza.
Il 26 luglio del 1990 si iscrive al Partito Radicale, agli Antiproibizionisti e ai Verdi Arcobaleno, in violazione dello statuto del PCI che non permette ai propri iscritti di aderire ad altri partiti. Ma Serra lo fa come provocazione davanti a Piero Fassino per chiedere che la sinistra possa diventare “unita e antagonista”.
Nel 1990 scrive con Beppe Grillo il recital Buone notizie, debutto teatrale del comico genovese, che sarà diretto da Giorgio Gaber.
Il 7 maggio 1992 viene nominato direttore de l’Unità Walter Veltroni. Serra è contrario e annuncia battaglia, ma il 13 maggio è già pace tra i due grazie alla proposta di Veltroni di dare uno spazio quotidiano a Serra in prima pagina per i suoi corsivi. Un mese dopo (il 7 giugno) infatti nasce la rubrica Che tempo fa, condivisa con le vignette di ellekappa.
Qualche mese dopo, Serra è ospite applaudito del tradizionale meeting di Comunione e Liberazione, applausi che Serra ricambierà l’anno dopo sottoscrivendo un abbonamento al settimanale ciellino Il Sabato.
Nel 1993 partecipa al cast del programma TV Cielito lindo, varietà della seconda serata di Raitre, curato, tra gli altri, da Sergio Staino. Nel programma Serra ha una rubrica da casa dove se la prende con la pubblicità.
Nel giugno 1994 lascia la direzione di Cuore (pur restandone “garante”) a Claudio Sabelli Fioretti perché vuole dedicarsi di più alla scrittura, ma al contempo non lascia il suo spazio fisso su l’Unità.
Dal 13 novembre 1996 inizia a collaborare con la Repubblica, dove oggi, oltre a essere commentatore ed editorialista, cura una rubrica fissa, L’amaca, dove descrive con garbata ironia vizi e costumi della politica e della società italiana. Per lo stesso gruppo editoriale, collabora anche a L’espresso, sul quale cura la rubrica Satira preventiva.
Nel settembre 1997 esce, dopo tre anni di lavoro, il suo primo romanzo, Il ragazzo mucca, e due mesi dopo debutta a teatro lo spettacolo Giù al Nord, scritto per Antonio Albanese, con lo stesso ed Enzo Santin. Nel 1998 aderisce all’associazione Liberamente, presieduta da Gloria Buffo e vicina ai DS, e con questa si schiera per l’abrogazione dell’ergastolo.
Nel 1999 è autore con altri del programma TV C’era un ragazzo, condotto da Gianni Morandi in prima serata su Rai 1. Nello stesso anno scrive un adattamento de Il suicida di Nikolaj Erdman per Luca De Filippo.
Il 28 luglio 2000 chiude l’Unità e Serra reagisce infuriato dalle colonne de la Repubblica, scrivendo:
« […] la morte dell’Unità rischierebbe di passare agli archivi come il classico delitto perfetto. Non fosse che un assassino c’è, ed è la sinistra nel suo complesso, dal primo dirigente all’ultimo elettore, che ha progressivamente rinunciato, negli anni, a credere in un giornale che fu intensamente suo. E ha smesso di comprarlo»
(“Il delitto perfetto”, La Repubblica, 28 luglio 2000, pag. 1).
Il 1º novembre 2000 a Parma si tiene il concerto a più voci La tavola di Babele per sostenere la campagna FAO Cibo per tutti, e Serra figura fra gli autori.
Nel 2001 è autore con altri del programma TV 125 milioni di caz..te, condotto da Adriano Celentano su Rai 1. Il 24 novembre del 2001 si tiene la prima di Peter Uncino, rilettura del mito di Peter Pan scritta a quattro mani con Marco Tutino per Milva e David Riondino.
Nel 2002 vince il Premio Procida-Isola di Arturo-Elsa Morante per il libro Cerimonie e il Premio Gradara Ludens.[5] Dal 2003 è autore con altri del programma di Raitre Che tempo che fa, condotto da Fabio Fazio.[6] È autore di numerosi libri, la gran parte dei quali raccoglie una selezione dei suoi contributi su quotidiani e periodici.
Nel 2012 è uno degli autori del programma di Fabio Fazio e Roberto Saviano dal titolo Quello che (non) ho, in onda su La7.
Nel 2013 esce il libro “Gli sdraiati”.

 

(Fonte: Wikipedia).

UNDERCORNER – Rubrica per giovani lettori (“La Bastarda di Istanbul” di Elif Şhafak)

elif_safak

Elif Şhafak

UNDERCORNER – Rubrica per giovani lettori (La bastarda di Istanbul – di Elif Şhafak)

ShafakBASTARDA02.indd“Libertà di espressione!” è l’urlo che si innalza ormai ovunque i nostri occhi si posino.
Come si può parlare di libertà di espressione, quando ci si accanisce in massa contro chi esprime un parere differente dal proprio?
Per aver scritto questo libro ed aver violato l’articolo 301 del codice penale turco, che prevede la reclusione per chiunque osi offendere la Turchia o il suo presidente, nel 2006 Elif Şhafak ha subito un processo.
La sua colpa? Aver trattato del genocidio armeno del 1915 per mano dei turchi, non ancora riconosciuto da questi ultimi.
Al tempo della proclamazione della repubblica in Turchia vivevano infatti anche Armeni e Curdi, ai quali non veniva riconosciuta alcuna autonomia. Allo scoppio della prima guerra mondiale la comunità armena fu accusata di tradimento in favore dei nemici russi, data la religione cristiana ortodossa che condividevano. Furono organizzate dalle autorità statali dei massacri e delle deportazioni di massa.
Pulizia etnica: il primo sterminio di un popolo intero organizzato da uno stato, il primo genocidio del Novecento.
E’ questo l’episodio mai concluso della storia che accompagna La Bastarda di Instanbul, libro nel quale, secondo l’accusa, sono contenute parole che denigrano l’identità nazionale turca e sarebbero potute costare all’autrice tre anni di carcere.
La versione del genocidio trattata dalla Şhafak è sicuramente molto romanzata ma ricca di dettagli dolorosi per ogni lettore: turco, armeno o italiano che sia.
La trama gira attorno a due diciannovenni appartenenti alle due etnie e collegate da una storia a entrambe estranea.
La “bastarda” che dà il nome al romanzo è Asya, una particolare ragazza di Instanbul, amante di Johnny Cash e cliente abituale del Cafè Kundera, punto d’incontro per personaggi bizzarri dai curiosi soprannomi, come il “Fumettaro Dipsomane”, con il quale ha un’occasionale relazione amorosa, il “Poeta Eccezionalmente Privo di Talento” o lo “Sceneggiatore Non-nazionalista di Film Ultranazionalisti”. Ciò che caratterizza questo strano locale, sono i quadri appesi alle pareti, raffiguranti diverse strade del mondo, nelle quali ci si può perdere, immaginando il proprio tragitto e la meta verso la quale si sta viaggiando.
Proprio ad Instanbul, il teatro della vicenda, Asya incontrerà l’americana Armanoush, figlioccia dell’unico uomo rimasto della sua famiglia, scappato dalla Turchia per non rimanere vittima della maledizione di famiglia, che condanna ogni individuo di sesso maschile ad una morte improvvisa e prematura.
Il padre naturale di Armanoush è armeno e la ragazza, incuriosita dalle storie raccontatele dalla nonna, superstite del genocidio, decide di recarsi di nascosto nella capitale, per indagare sulle proprie radici. Armanoush è caratterialmente molto diversa da Asya: amante dei libri e del silenzio, il suo rifugio è la chat room “Cafè Costantinopolis” che in comune con il Cafè Kundera ha solo gli strani nickname dei suoi frequentatori.
L’incontro di queste due ragazze e dei mondi ai quali appartengono, così divergenti e astiosi tra loro, dà vita a questo travolgente romanzo che io, come molti altri, ho divorato in pochissimo.
Le descrizioni molto accurate della città di Instanbul e gli inusuali tratti che caratterizzano una varietà di personaggi che è raro trovare in libri che trattano argomenti storici, arricchiscono il fascino di questo lavoro. Ci basta guardare le strane zie di Asya, come la zia Banu, la maggiore delle sorelle, devota musulmana, ma anche chiaroveggente, aiutata da due entità soprannaturali che ricordano ironicamente il diavolo e l’angelo che vediamo spesso apparire sulle spalle del protagonista di qualche film comico, unica a conoscere l’identità del padre della nipote.
Questo personaggio, che potrebbe sembrare accessorio in un primo momento, è in realtà fondamentale per lo svolgimento della storia.
Si potrebbe dire che il romanzo si svolge su due piani: il passato ed il futuro, che si intrecciano fra loro fino a fondersi in un unico elemento.
La lettura inciampa unicamente negli estranei termini turchi, ma nel complesso lo stile è scorrevole e privo di elementi inutili. Le descrizioni sono molto accurate e conservano una grazia ed un’eleganza che riesce a catapultare il lettore nell’atmosfera desiderata.
Leggendo, ho potuto constatare un fatto significativo: il processo di identificazione con le due protagoniste è stato tanto forte quanto incompleto. Mi sono riconosciuta nei gusti musicali di Asya e nell’amore per i libri di Armanoush ma non mi sono mai fusa con nessuna delle due anime.
Forse noi ragazzi siamo stati educati, anche grazie all’abbattimento delle barriere spaziali creato dalla comunicazione via web, ad una visione internazionale del mondo.
Non sentiamo l’oppressiva importanza dei confini, e il nazionalismo, nella forma spiegata sui libri di storia, ci è estraneo.
Tendiamo quindi ad evitare di schierarci e a concordare su alcuni punti con una parte e su altri con la parte opposta.
Ho potuto averne la prova notando le reazioni all’attentato al Charlie Hebdo: la paura e il disprezzo verso i terroristi aumentava smisuratamente, ma vi era anche rabbia verso gli occidentali che accusavano tutti i musulmani di essere dei pazzi.
Nessun figlio del 2000 può essere solo Asya o solo Armanoush.
Ci ritroviamo ad essere dei vortici creati dall’unirsi e dal mischiarsi di quelle due anime, siamo diversi tra di noi ma mai assoluti.
Consiglio questo libro, anche a poca distanza dal giorno che ricorda la più nota pulizia etnica, tristemente conosciuta come Shoah.
Che ci si schieri dalla parte dei turchi, che pensano che il passato sia passato e che la Turchia dei giorni nostri sia totalmente distaccata dall’antico impero ottomano, o da quella degli Armeni, che considerano la memoria dei loro antenati come uno dei loro beni più preziosi o ci si ritrovi in quel confuso turbinio che unisce le due opinioni, è impossibile ignorare questo libro.

Charlotte Westenra

UNDERCORNER – Rubrica per giovani lettori ("1Q84" – di Haruki Murakami)

murakami_1q84

Abbiamo il piacere e, lo sappiamo, la grande responsabilità di presentare ai lettori una piccola rubrica ideata da una giovane e appassionata lettrice. Le nuove generazioni leggono e lo fanno con una voracità impressionante. La curatrice (nonché autrice) di “Undercorner” è nata nel 2001 e preferisce utilizzare uno pseudonimo per firmare i suoi articoli-recensione. La responsabilità di tutti i contenuti presenti ricade unicamente sul sottoscritto.

Gianluca D’Andrea


UNDERCORNER – Rubrica per giovani lettori (1Q84 – di Haruki Murakami)

1Q84, accolto in Giappone come il capolavoro di Murakami, può essere definito come un Alice nel Paese delle Meraviglie rivisitato in chiave moderna, con l’aggiunta di un pizzico di violenza, di politica e di amore. Che questo libro sia o no il migliore della produzione di Murakami è irrilevante ma 1Q84 dà sicuramente una visione complessiva del modo in cui l’autore vede la vita. La storia è divisa in tre libri (Libro 1, Libro 2 e Libro 3) ed è narrata da due punti di vista: quello di Aomane, una donna che vendica su commissione altre donne vittime di violenza, servendosi solo di un rompighiaccio, e quello di Tengo, un ghost writer che si trova a riscrivere il romanzo di una bellissima diciassettenne chiamata Fukaeri. I capitoli alternano le due storie come si trattasse di una danza nella quale le due ballerine, avvicinandosi, sfiorandosi, ma non entrando mai in contatto, non toccandosi mai, appaiono impaurite dalle conseguenze imprevedibili che quell’unione avrebbe potuto provocare. Trovo azzeccatissima questa costruzione che mette le due storie sullo stesso piano temporale, permettendoci di capire quanto le realtà vissute da due persone legate in modo inesorabile possano essere diverse ed estranee. Un esempio di questa netta distinzione può essere il primo capitolo di ciascuno dei due punti di vista: Aomane è bloccata nel traffico della tangenziale, a bordo di un taxi, ascoltando la Sinfonietta di Leóš Janáček, Tengo invece parla con il suo editor, Komatsu, all’interno di un caffè. Due azioni apparentemente normali e prive di similitudini, che svolgeranno però un ruolo di perno per la trama di tutti i libri e per la storia che legherà i due. Sono una grande ammiratrice di Murakami da quando, quest’estate, ho preso in mano Tokyo Blues (Norwegian Wood). Ho pensato, mentre leggevo, di essermi imbattuta nell’equivalente letterario di Hayao Miyazaki, il maestro d’animazione giapponese autore di celebri anime come La principessa Mononoke, La città incantata o Il castello errante di Howl.

Anche se i temi sono spesso differenti, l’atmosfera che viene a crearsi attraverso le immagini o le parole è molto simile.
Il punto di forza di questo romanzo, oltre all’avvincente e a tratti inquietante intreccio, sono le espressioni che emergono costantemente all’interno di due trame parallele. Molte di esse le sento vicine, questo perché la maggior parte delle frasi dei libri di Murakami rispecchia concetti ben noti ai ragazzi, persino abusati perché, spesso, quelle stesse frasi accompagnano le foto sui social network, e manifestano, ad esempio, la velata sofferenza di un amore privo di contatto fisico o il senso di vuoto provocato dalla solitudine. Quello che però Murakami fa per non cadere nella banalità è rielaborare in modo più articolato e raffinato questi concetti, adattandoli al suo mondo surreale e arricchendoli di fascino e mistero, fino a renderli irriconoscibili.
Dopo aver finito il Libro 2, mi appresto a leggere l’ultimo capitolo della serie, sicura che questa storia mi riservi ancora rivelazioni e sorprese, che non sono certo mancate nei primi due. Invito tutti a prendere in mano 1Q84 e a tuffarsi nello strano mondo con due lune, omini cantanti che escono dalla bocca di una capra morta, crisalidi tessute con fili d’aria e due innamorati che non si sono mai scambiati una parola e il cui unico contatto risale alle elementari.

Charlotte Westenra