Una nota su “Solo l’uomo” di Andrea Italiano, Ladolfi Editore, 2016

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George Bellows, Stag at Sharkey’s, 1909 (Fonte: Il Post)

Solo l’uomo (nota di Gianluca D’Andrea)

solo l'uomoIl segno della precarietà, quasi un’evidenza testamentaria, è la cifra dei diciassette testi che Andrea Italiano (Barcellona Pozzo di Gotto, 1980) ha raccolto per la sua ultima pubblicazione: Solo l’uomo, Ladolfi Editore (NO), 2016.
Precarietà che si manifesta in uno stile inquieto, che alterna, anche all’interno degli stessi componimenti, ritmi spezzati e respiri lunghi quasi a ricreare una perpetua apprensione, un disagio nei confronti di una storia, quella presente, percepita nella sua assenza di prospettive: «sono nel mezzo della vita / metà ormai dietro le spalle / metà forse non ci sarà» (p. 15).
Precarietà, si diceva, non solo sociale ma più tragicamente esistenziale, l’identità non è semplicemente scissa bensì boccheggiante: «io sono già morto / non più decadente» (p. 19).
Una poesia postuma, allora, che non vibra, ha, com’è giusto, rinunciato per necessità ad ogni afflato lirico, indirizzandosi all’evidenza della fine. Se il senso – e il segno – è qualcosa di deperibile, non per questo è possibile rinunciare alla traccia, a un’azione che ripete per “dovere” l’urgenza di essere, per quanto effimera, in quanto ombra: «Lo scherzo alla maestra / aveva preso i contorni di allegoria / lei scriveva noi cancellavamo / lei scriveva noi cancellavamo / lei scriveva noi cancellavamo / com’è vana la vita» (p. 20).
Cancellazione e sfasatura, nessun appiglio se non nella stessa insicurezza che ci costituisce. Se, infatti, «nel tuo stesso nome ti ritrovi straniero» (p. 22), è la condizione umana a evidenziare la propria alienazione, e il titolo della raccolta, neanche troppo ironicamente, ne è segnale esplicito.
Ribadendo uno sfondo di sfiducia nei confronti del mondo e, soprattutto, nei confronti dell’uomo escluso da ogni azione nel mondo, emerge infine una volontà accusatoria, diretta, come si legge nell’ultimo testo, alle recenti generazioni. Eppure trasudante, in modo del tutto originale, speranza per il futuro. “Spes contra spem”, ma solo escludendo gli attori del presente, padri e figli, incapsulati irrimediabilmente nel circolo vizioso della ripetitività che oscilla tra inutilità e convenienza.


Testi da Solo l’uomo

Fiorin lavora con me
è rumeno più piccolo di me
ha due figli Alessio e Sonia
sua moglie Adriana la incontro ogni mattina
mentre va al lavoro
cammina con passo leggero e veloce
come chi ha troppi pensieri nella testa
ogni tanto gli parlo di matrimonio
gli dico che mi spaventano le bollette le scadenze
i conti da saldare e poi i figli
se vengono malati? se crescono storti?
lui non mi capisce
mi dice di guardare alla sua vita
povero come me cane come me
eppure tira avanti
il futuro lo spaventa ma lo aspetta
mi sembra di vedere i miei nonni
qualche anno dopo la guerra
nessun sogno in testa
tanta forza nelle braccia
Florin non lo sa
che i suoi nipoti parleranno come me
lui è giovane
io sono già morto
non più decadente.

*

Lo scherzo alla maestra
aveva preso i contorni di allegoria
lei scriveva noi cancellavamo
lei scriveva noi cancellavamo
lei scriveva noi cancellavamo
com’è vana la vita
avrà pensato alla centesima volta
anche il solco più profondo
il vento la pioggia lo cancella
eppure continuò a scrivere
e dopo noi per altri
è un dovere sforzare la mano al segno buono
trattenere è l’unico dovere che ci compete
ohimè.

*

Anche togliere una virgola
uno starnuto dal discorso
da quelle origini che non conosci
una via anziché un’altra
questione di centimetri
e la catena salta la vita prende altre direzioni
da biondo a bruno
da ricco a povero
da vivo a morto e non sei più tu
nel tuo stesso nome ti ritrovi straniero.

*

Laura è un puglile
sta sul ring come una farfalla
sembra che i colpi non le arrivino
non le facciano male
ma non è così
e giorni ci sono che passa al martello
ti stringe alle corde
ti lascia di stucco
“cappello” ti fa dire
Laura ci sa fare
arrossisce lieve per uno sguardo
per una carezza sulla mano
ma credimi quando ti dico
che la felicità non è sempre facile
che spesso la vita è un prestito a usura
e per questo il tuo treno destro
usalo spesso più spesso
schiantaci
ma Laura lei non è un fiore
lei è un augurio.

*

Dolcemente ucciditi
padre
fallo con gran spargimento di sangue
e ucciditi
facci questo ultimo dono
perché noi non sappiamo farlo
fallo come è giusto che sia
ci hai messo al mondo ora facci spazio
e sulla tua carcassa benedetta
cresceremo i nostri figli
così che possano ucciderci
almeno loro con le loro mani
perché è giusto così
oh beata generazione quella dei nostri figli
si riprenderanno il loro posto nell’universo
sapranno essere uomini e costruttori di futuro
nel loro nome si riconosceranno
assassini e giusti
faranno più cose di noi
e padri sgozzati
cambieranno qualcosa di quello che a noi sembra una scena immutabile
faranno il mondo nel modo in cui il mondo si fa
moriranno contenti
voi no (perché questi figli impotenti li avete cresciuti voi)
noi nemmeno (perché questi padri onnipresenti ci hanno fatto comodo.

Una nota su “Sciami” di Mario De Santis, Ladolfi Editore, 2015

 

Sciami (nota di Gianluca D’Andrea)

sciamiC’è qualcosa di stonato in Sciami. Il titolo dovrebbe indicare una fuoriuscita, ma da cosa? dalla moltitudine confusionale data per implicita dall’immersione nella vita collettiva? l’impatto del versamento verrebbe inibito dall’attrito soggetto/contesto e in favore di che?
«The dreadful sundry of this world», la spaventosa accozzaglia di questo mondo, di stevensiana memoria, sembra moralmente inaccettabile o semplicemente illeggibile: «Abito l’inabile paesaggio, fatto e divorato, / nei vincoli la furia estiva, gli insetti stanno nel cavo / di sonno a milioni come noi» (p. 7). In un linguaggio oscillante tra astratto e concreto, il soggetto vuole guadagnare spazio  e ristabilire una connessione con un’assertività che sfiora il trascendentale: «Qui la vita che si fa più grande / di ogni suo creatore, che l’ha voluta qui, / si fa senz’ombre, pure, e senza direzione» (p. 9), cioè in un tempo che si dissolve senza direzione, il linguaggio non fa presa, non raggiunge quella sospensione ricreante che deriva dall’accertamento del versante negativo del senso. Sembra di stare dentro i soliti margini dialettici, tranne quando, e qui i migliori risultati del libretto, i quadri quotidiani circoscrivono i punti di fuga: «…Crolli minimi che sento / intorno come fioritura, / avverto del palazzo, del pericolo e lontano / un altro posto da occupare. Così fermo la fuga / aprendo una porta all’improvviso, salutando» (p. 11).
Quando il soggetto resta ai margini e fa parlare il mondo (come nel testo citato o nel primo della serie Sarajevo, secolo e, ancora in alcuni di Milano, secolo – vedi per sprazzi Quasi a quest’ora tutti i giorni, p. 28) la parola di De Santis comunica al lettore un senso di appartenenza e crea vicinanza. Il dispositivo si apre e ingloba l’osservatore, allora ogni fuoriuscita dal collettivo riesce ad arginarsi, a non incorrere in pretese o in dubbi esclusivamente personali. Solo se l’altro è accolto, infatti, si può «col sangue […] trattenere i nomi».


Testi da Sciami

(il giorno, fuori)

Arrivo con il tram dove Milano non esiste ancora
per ogni passeggero la strada si dirama, è un delta
di piazze e di cantieri abbandonati e ha svolte, all’improvviso.
Noi le passiamo e tutto corre in noi, ritardo senza peso
le mattine delle città sono già fiumi scontrosi e senza vuoti.
Eppure le coincidenze fanno ogni persona
o il suo corpo che va da lievità a posa informe,
un’esistenza – e c’è chi sciama via per un batterio,
per l’invisibile che si nasconde all’aria.
Il rifugiato che abita il riposo
illecito in corpo ha cielo ed ha prigione;
la libertà di fatto cerca facili indirizzi.
Ben venga allora morire per la prima volta
nel tuo respiro e poi restare avvolto da correnti,
nell’impazienza ascolto la moltitudine di avvisi
e nomi in codici. Crolli minimi che sento
intorno come fioritura,
avverto del palazzo, del pericolo e lontano
un altro posto da occupare. Così fermo la fuga
aprendo un porta all’improvviso, salutando.

*

(la notte, dentro)

È nel muro di calce viva la telecamera che sgrana
volti e luci in cui rifletto e vivo, in cui sconfino:
è un panorama bianco di feste all’improvviso, di bar, di frenesia
con la città d’estate che si circonda di incendi periferici.
Le conseguenze mai capite di una vita che si allontana,
come una fuga senza inseguitori, sta nella pace dei ritratti
conservati negli archivi di controllo: i visi sconosciuti,
malcerti nello sguardo, pallidi e senza febbre,
lì durano per essere scordati, lì solo siamo noi.
Ed è su questo muro illuminato che mi fermo,
stretto dal suo calore postumo, la sera.
Divento anch’io di fumo e d’ombra moltiplicata,
un taglio di fotogrammi. Tutte queste vene scollegate,
come un museo di elenchi telefonici, la folla unita
in una mappa casuale che non trattiene un solo nome:
i sogni pure sono lasciati al vago ormai
e se ascolto il mio, so che è l’assurdo mormorìo
che viene dal fondo della via, dalla porta appena schiusa
dell’uscita d’emergenza.

*

Sarajevo, secolo

1.

per Adriano Sofri, Erri De Luca, occhi del secolo
12 ottobre 1992-2012

Per oggi aloni di ammazzati, rimasti ognuno
con la distanza scritta dentro gli occhi
disegnano misero l’oriente delle foreste nude
e i solchi ovunque in aria, a terra tra le fosse, terra
ormai superflua vista in cielo, solo sfondo tra le mani
dei colonnelli d’aeronautica; oggi soltanto piove fuoco
e l’urto di pressione provocherà maltempo,
mentre la terra si ritrae nel grigio
costretta nel mirino. Di là c’è la fontana
ma il pericolo sarà la grandine di piombo, il fumo delle case.
C’è un uomo con la tanica e solo la sua corsa.
Il bollettino è incerto, povero Bernacca,
ecco le tue correnti dei Balcani, nel gelo che si nega
sull’Europa, mio caro colonnello.
Domani che sarà? La febbre che si scioglie via dal corpo,
scossa di piuma soffiata, sciame di gocce immobili, domani
che sarà domani, occhio di belva, che sarà,
questa mia vita che sarà? Nella provvista d’acqua
si annuncia solo un passo, mille formiche pazze
e solo una promessa di bersaglio, che sarà.

*

Quasi a quest’ora tutti i giorni
il sogno di Milano si fa rosa di smalto
atroce ed isolato. Qui l’acqua era la forma
del futuro annunciato e irripetibile;
e ancora, tuttavia, c’è un salto più assoluto
nei vuoti che si formano tra file di piccioni
inermi e neri: tra loro gli spettri, gli assenti, i sepolti
ad armare quadrilateri, fortezze in polvere
dissoluzioni ostili. E la piazza così muore perfetta
piena ed invisibile, col sangue a trattenere i nomi.

Tra lo squilibrio del coma e il grembo nasce l’adorazione
per chi non sarà mai. Resta quest’ora presente,
di caduti, scomparsi, mai arrivati, mai nati
una sentenza che somma le pozze della pioggia
a gemme d’ansia. Qui prende forma la patria
che ha solo presente e non sarà
che questo vago orientamento di passanti.
Da qui, nessuno dopo noi, da qui
la nostra corsa salta l’ombra,
si chiude ogni immediata lievità.
La storia diventa in un istante dubbio
e qui si vedono di noi
quei volti di vertigine, aperti all’aria opaca
che non avranno somiglianze.

Una nota su “La città che c’entra” di Roberto Minardi, Zona, 2015

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La città che c’entra (nota di Gianluca D’Andrea)

la cittàÈ un’atmosfera apparentemente ingenua, il tono sincopato di chi si aggrappa a una lingua semiperduta, a imbastire La città che c’entra di Roberto Minardi. Il poeta ragusano ordisce e organizza, con risultati non sempre convincenti in questa prima fase (si vedano anche gli inediti che preparano la presente raccolta, qui), una poetica che chiamerei della “dissonanza”, traducendo il proprio desiderio di accoglienza dal basso degli eventi. I toni “umorali” – ma anche umoristici – oscillano tra un polo solare – che si spinge nei recessi del caricaturale («il sole si ritira/ come un contrasto che/ la dice lunga o forse/ non dice niente e si offre alla vista/ di chi dal finestrino/ in questa ora di punta/ forse neppure osserva,/ mentre in silenzio giudico/ le smorfie, i gesti…», La città che c’entra, p. 13), per cercare epifanie di senso – e il polo dell’ubertà prosciugata in un’ironia che stempera il giudizio sul mondo: «Lasciate ogni baldanza e cantate/ lasciate che si stacchi ogni umore/ gli occhi volgete verso i buchini/ l’acqua massaggerà le palpebre/ se esce, se ne sarà restata/ fuori vi è il mondo e non ci crediamo» (La doccia e oltre, p. 65). Si crea un registro dissociato, spaesante, la cui presunta debolezza emerge nell’impossibile dissolvenza dei due modi, o mancata pacificazione. La forma esuberante nasconde la chiarezza, la forma prosciugata scivola nel macchiettismo: «… lasciamo stare/ e per ora si affida a un turbine/ la spirale dell’ugola/ com’è bello scrutare l’interno/ le interiora ci fanno un po’ schifo/ asciugare col fono la cute/ è un piacere segreto…» (Tornando al discorso, p. 68).
Eppure, è nel discrimine tra i due poli che si riesce a rintracciare il messaggio di una mutazione avvenuta, proprio quando Minardi riesce a incastrare ed equilibrare al meglio le due tensioni, allora l’aderenza totale alla “surrealtà” del vivente invischia la parola e la trasporta all’accettazione dello stesso esistere: «… il potere di cogliere in flagrante/ il gioco di chi tira i fili/ la fede appartiene a chi la fabbrica/ la femmina della giraffa urina in bocca al maschio/ che dal gusto del liquido/ capirà se lei è in calore/ è parso anche a voi di sentire un richiamo/ la voglia lacerante/ di vivere fino a morire?» (Prima di diventare padre, p. 70).


Testi da La città che c’entra

La città che c’entra

Le pulegge, le carrucole, le gru,
impalcature e pettorine – la
capacità di esibire un lavoro
senza nessun pudore –
a fianco sfilano binari senza
un fine, arrugginiti, insomma una
tensione non da poco,
quando con discrezione
il sole si ritira
come un contrasto che
la dice lunga o forse
non dice niente e si offre alla vista
di chi dal finestrino
in questa ora di punta
forse neppure osserva,
mentre in silenzio giudico
le smorfie, i gesti, i giornali gratuiti
e le riviste che vengono lette,
o le conversazioni di chi siede
accanto al posto mio, perché chi giudica
si crede un’isola più pittoresca
e quanto più lo fa più si dimentica
di cosa soffrono le tempie oppure
qualsiasi punto che appartiene al corpo
e che vorrebbe mettersi a gridare
come un bambino petulante,
alquanto insopportabile,
esageratamente insoddisfatto.

*

Accadrà e farà caldo

La poesia più bella arriverà e sarà
come bruciare tutto mentre il corpo gravita,
sotto luci che scrutano la postura di un uomo
che si scioglie ed aspira mentre vivo, in balcone,
se ne sta a torso nudo, appoggiato, e trasogna…
Basterà un niente e gli occhi arrossiranno,
come quando ti immagino – nella foto hai tre anni
e la tua canottiera è di un rosso sbiadito –
a rincorrere un cane tra le palme e il fogliame,
tra galline che saltano e sbattono le ali,
con la grazia terrena dei tuoi piccoli piedi,
con l’innocenza che hanno i sandali di gomma,
mentre nell’aria oscilla il piccolo rametto
che tieni in una mano, come per comandare.

*

A capo

La grinta si consuma
con l’esercizio delle elezioni,
col gesto inesistente di versare
i contributi per la pensione,
con la preoccupazione
di chiudere la porta a più mandate
e anche coi paletti.
Ridursi a un colpo di tosse dietro l’altro
non per amor dell’arte
ma perché non si può
fare a meno che stridere…
Ed ogni punto che sospende insieme agli altri
ricorderà la cicatrice che vive
su questa parte di pelle, proprio qui
dove accarezzo e rifiuto
di venire toccato,
di essere chiamato
per nome o per titolo
giacché non sono altro
che un verso in più
nella politica infinita dei monologhi…
La caffettiera brontola, è vero,
e il desiderio aumenta,
quello di essere un genio
o un canarino,
anche solo l’artefice
di un motivo che riesca a redimere
i fumi scaricati
i venti opposti, diametralmente,
e le intenzioni derise dal tempo,
quelle nel tempo annegate
con la solita scusa del tempo.

*

A fuoco lento

saranno i nostri debiti
a renderci immortali

Quaggiù si scardina di tutto
e tanti hanno gli occhi asciutti
la paura del buio allumato
nelle ore, le zone regresse
appartiene alle classi appropriate
la luce arancio
delle giornate che si allungano
non la si può inquadrare
e addolcisce e irrita
e fa venire la malinconia
e la spavalderia attorno
ci appartiene a momenti
alla fermata della corriera
batteva la pioggia sulla tettoia
e non era la domanda da porsi
ma in mezzo a stillicidi e scarchi
saremo in grado di eseguire i passi
con onestà, muniti, come siamo
di dita che picchiettano sui legni
quando ci rintaniamo? nell’attesa
ecco che l’acqua condensa, emoziona
quando risale dalla casseruola
l’olio scoppietta e l’aglio dora
fatta da parte l’estasi olfattiva
a dirla con politica passione
l’unica regina che serva è un’ape
abbiate dunque presente la strage
dei corpi neri, pelosi, dorati
e frequentate un corso
per impollinatori.

*

Prima di diventare padre

Voglio stendere un velo mediamente pietoso
sui nervi che testimoniano
in un pianeta fuori dalla portata
viaggiano le radici
vanno a cercare nutrimento
l’intera storia nei cerchi
voglio morire il più tardi possibile
per essere in grado di vivere
prima o poi
si chiederanno che vorrò dire e lo faranno
se non avranno intuito
perfino quello che non c’era da comprendere
è ficcante il potere di cogliere in flagrante
il gioco di chi tira i fili
la fede appartiene a chi la fabbrica
la femmina della giraffa urina in bocca al maschio
che dal gusto del liquido
capirà se lei è in calore
è parso anche a voi di sentire un richiamo
la voglia lacerante
di vivere fino a morire?
to be looking like nothing
to be looking nothing like

l’assenza di volti gentili è spossante
signore con tintura all’henné indossa
giubbotto in finta pelle
il calcagno delle scarpe è liso
sorride mentre scende dall’autobus
ma non si sa perché né a chi
e molti altri curvi individui
solo lavoro è la vita
disse il poeta con piglio banale
dopo abbondanti sorsi di vino
il sonno è disturbato
la pancia già ingrassa
sono tutti bravi così, ci vuole poco
pensa qualcuno ma non mette in atto
come progetto su due piedi
eviterei le fiumane di gente
le dita che al vento si distraggono
il discorso non piega
è sicuro
sicure sono le stesse mani
l’unico modo di andare avanti è deciso
fuori di me però non solo
la storia viene impastata
da chi è conciato meno bene
con varie espulsioni, emulsioni
la musica non sappiamo da dove arriva
sui pensieri la nebbia si affaccia
le industrie belliche falliranno
avercela col male non è facile
stupenda creatura a me ignota
il male non tange il più delle volte
credo nel verde e nel marrone
della campagna
nell’oleosa proprietà del mare
vi voglio bene e non vi voglio
penso alla schiuma
al pianoforte che non so suonare
chiunque tu sia
sono dalla tua parte
ma fino a un certo punto
nella stupenda sorpresa olfattiva
di quando torno a essere umano
un movimento d’aria sbalordito
ti dico che amo ed è così
difficile accettare dei miracoli.

Cesare Viviani – 6 poesie da “Osare dire” (Einaudi 2016)

vedenti

Composizione fotografica di Ruggero Pellegrin e Marta Gambazza: Vedenti © (Fonte: Notizie comuni italiani)

osare_direTra lo gnomico e il didascalico, Osare dire, di Cesare Viviani, impone un senso di inaderenza che toglie fiato. Già a partire da Silenzio dell’universo, il tentativo “esistenziale” dell’autore toscano imprime, e proprio nella direzione mistico-contemplativa agognata, un eccessivo distacco dalle “lordure” materiche. Così la lingua, proprio per via del distacco, si semplifica fino all’appiattimento, non sorprende “criticamente” il mondo lasciandolo vibrare nella totale indistinzione. La poetica, stucchevole ormai, del distacco identitario non si rinnova e non aggredisce linguisticamente la sponda negativa del reale, ma si lascia trascorrere nello stesso flusso indistinto, rilevando – senza strumenti di setaccio convincenti – soltanto la stessa indistinzione. Ma oggi, in tempi postumi e non semplicemente post-identitari, è veramente necessario lasciarsi andare alle cosiddette “cose ultime” o mantenere quel “riserbo” spacciato per valore, il cui unico azzardo, però, è l’allontanamento dai fatti?
In questo smorto paesaggio, che abbonda in autoreferenza, salviamo dei testi che, almeno sul piano concettuale, mantengono in piedi la spoglia del vero.

Gianluca D’Andrea


Cesare Viviani – Osare dire (6 testi)

Quando il cielo si tinge di nero,
a buio,
gli affaticati che ottengono
un giusto riposo a casa
non siamo noi,
affannati a smontare
e a rimontare il vero.

*

Cresceva il non essere.
E chi l’avrebbe fermata l’onda celeste
che scendeva dal cielo a portare il vuoto
e lo diffondeva nell’aria,
e allora c’era chi reagiva
con il sollevamento pesi o con gli addominali,
chi scaraventandosi dal primo cliente
a insistere
per concludere un contratto,
chi si indebitava per comprare una macchina suv,
chi correva in chiesa a supplicare Dio
d rimediare a tutto.

*

Chi non si impegna
resta nella fossa, tale e quale
l’hanno calato.
Chi invece vuole acquisire
uno stato migliore, si dà da fare,
cerca il pertugio per arrivare
al buio più profondo,
all’assoluta quiete,
all’eterno immutabile.

*

Immagine resisti, resisti,
non mi privare della speranza
che un giorno tu possa essere vera,
scoperta dal puro sentire.
Un peso secolare grava
sull’organo del cuore.
E ora non c’è più presenza,
ma tante assenze
che si richiamano
all’insaputa di tutti.

*

E se fossimo noi luce del giorno,
e non il sole?
Acquietarci nel nostro essere vero,
finalmente trovato, essere noi
anche portatori di tenebre,
col tremolio del riposo e del sogno.
E se il tempo fosse solo pensiero?
Ma dall’universo provengono
le alterazioni del corpo
e la febbre.

*

È passata la vita,
e non ce ne siamo accorti.

Una nota su “Il cane di Tokyo” di Marco Bini, Giulio Perrone Editore, 2015

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Marco Bini

Il cane di Tokyo (nota di Gianluca D’Andrea)

cane_tokyoForse il limite di questo recente lavoro di Marco Bini (Vignola – MO, 1984) è proprio in quella «rinuncia […] a ricomporre in unità narrativa e “posticcia” (tale ricomposizione sarebbe possibile solo per via memoriale o sentimentale) i motivi dominanti delle quattro parti in cui […] libro è suddiviso» che Alberto Bertoni segnala nella sua Introduzione a Il cane di Tokyo.
Sì, perché molti dei testi del libro, presi singolarmente, sono veramente notevoli (soprattutto alcuni delle ultime due sezioni, ad esempio l’incipit del poemetto che dà il titolo alla raccolta, oppure YPRES: CENTENARIO e Dal nocciolo elettrico del temporale c’è chi, della sezione Resilienze, davvero la più riuscita dell’intera operazione, come annunciato sempre da Bertoni nella succitata Introduzione), perché ci presentano un senso di precarietà spaesante e angosciosa, che prova a farsi strada tra i meandri di una storia individuale per lanciarsi in incursioni nel collettivo.
Certo, pur avendo chiaro che siamo «Precipitati da qualche parte nel tempo» (YPRES: CENTENARIO, cit., p. 47) e “accomunati” solo da «un’origine convenzionale» (ibid., p. 47), la Storia sembra adagiarsi troppo passivamente sulla sua scomparsa, su una memoria ridotta a «magnifica desolazione» (BUZZ ALDRIN, p. 49), su uno sforzo inane che, almeno nell’ottica di Bini, pone i suoi riflettori troppo esclusivamente sui “primi”. Anche per questo la vicenda “eroica” dei “secondi” (ad es. Aldrin fu il secondo uomo a calpestare il suolo lunare ed ebbe problemi d’alcolismo, così come in A DIGIONE NEL ’79, p. 56, Gilles Villeneuve è “solo” secondo dopo un eroico duello con Arnoux) assume i toni del “risarcimento” storiografico. Il Soggetto, in questi termini, si pone ai margini insieme a queste figure subalterne (i classici anti-eroi, seguendo schemi tradizionali secondo-novecenteschi) e, solo così, può accogliere la propria identità al ribasso, della quale è necessario ricostruire l’immagine necessariamente partendo dai bassifondi della storia.
Mi sembra allora inesatto affermare, come fa Bertoni, che «l’efficacia inventiva e combinatoria di Bini risiede […] nella rinuncia a qualsivoglia morale o bilancio storico-esistenziale», perché, per quanto in ribasso sia l’identità, l’autore ha compiuto la sua scelta etica e proprio cercando «un’attualizzazione nitidissima e coinvolgente di ciò che per sempre sopravvive» (Bertoni, Introduzione, p. 9).
Perché proprio ciò che “sempre sopravvive” ha bisogno di ricomporsi in un’unità complessa, in un racconto che, per quanto possa apparire frammentario, non può più accontentarsi di questa evidenza. Magari dai rivoli della “desolazione”, dalla desertificazione della Storia, è già in cammino un nuovo racconto che le «Ore trascorse a mordersi la coda» (Ore trascorse a mordersi la coda, p. 13) reclamano «nel brancolare vicino casa» (DAI VENTI AI TRENTA TRA GLI ZERO E I DIECI, p. 64) e, riavvolgendo gli eventi, sia realmente possibile fissare «a terra/ le unghie» (Ore trascorse a mordersi la coda, cit., p. 13) per farne «radici» (ibid., p. 13).


Testi da Il cane di Tokyo

 

Ore trascorse a mordersi la coda
contano, eccome: sono ore vita
comunque si declini la nozione
riguardo l’utile e il tempo perso
il da farsi, il già fatto e il faceto
movimento del tempo quando annoda
i fili incustoditi in un gomitolo
serrato che non si apre con le dita.

Il piede piega alla posa del cane.

Il richiamo è uno schiocco trancia-vento
altro che un angolo ampio in eccesso
non dispiega davanti alla paura
della bocca che mastica e va a vuoto.

Così le zampe si fissano a terra
le unghie – dure – si fanno radici.

*

Nient’altro che un rimpallo di materia
infinitesima e non sparizione
degli strati più zingari del mondo
si ottiene a insistere fino alla crosta
atomica dei piani; è il pianeta
che espulso per igiene fa ritorno
e generandosi ancora si addensa.
Dal panno al vento: armata di puntini,
un uragano in una bolla elettrica.

Spogliazione. A un profilo più prudente
il rasoio riduce delle guglie,
al formicaio ripiega le case.
Rattrappiscono i corpi e la memoria
si assembla per sfaldarsi. A galla, polvere,
dei flutti fino al fondale s’infiltra,
sott’acqua ricongiunge terre emerse.

Millenni di travaso e l’equilibrio
di un’unica palude dilagante:
in un sottomarino articolarsi
nostalgico dell’alba non c’è scoria
rimasta intatta al nostro dilavarci,
solo avanzi sommersi senza storia.

*

Il cane di Tokyo

I

L’attesa è il tempo che stringe le tempie
morsa di gomma e vento tra le orecchie,
osso spolpato più volte al midollo.
C’è uno spartito di questo tuo stare?
Sì, ma si spezza in contrappunti e fughe
svelte per paura dell’identico
proporsi dei minuti privi di ali.

Che ci fai, occhi attenti e zampe salde,
piccola parte del creato tu
nel pieno cuore di un filo sospeso
tra due finestre alternate di gioia
pulita biancheria stesa, lucente?

*

YPRES: CENTENARIO

due i petti tra gola e basso ventre
uno traspira mobile bersaglio
l’altro di fango è una replica esatta
dei campi abrasi attorno che a secchiate
il sangue inglese tedesco francese
sterili ha reso ai germogli piovendo
a terra dopo l’arco di granata
disegnato su fondo grigio-belga…

Precipitati da qualche parte nel tempo,
foglio bianco senza bordi, una matita
sta al guinzaglio di un’origine convenzionale.

Caduta e botto non si sovrapposero.
Strati di terra lo fecero invece
cicatrizzando ripiene di schegge
le ferite; affidabile il metallo
per annientare assemblato o durare.

Storia, un filamento unico e malvagio,
amica malfidata che nello zaino sorprese
infila e conseguenze. Srotolarsi continuo,
ma se due nodi uguali si ripetono nel filo?

A testa bassa nessuno li nota.
Dicono che a non chiedere e non dire
a malapena parlando la lingua
col crescere dei muri si riemerga
per ricompensa alla luce fiamminga.
Sparire silenziosi dentro il caos.
Mulinando il badile sulle zolle
brillare di sudore. Due gli ignari
quattro le braccia – BUM – da rimpiazzare.

*

Dal nocciolo elettrico del temporale c’è chi
ci ha scattato un’istantanea; si è tirato
il nero delle nubi sulla testa e ha fatto clic.
Di sorpresa ci ha colti nel bagliore
riassumendoci nei contorni e nel nero
di concavità e nodi sottraendoci spessore:
adesivi apposti su natura viva.
Sulla ghiaia erbacce portate dal vento sbalordisce
quanto siamo casuali e smontati a compromessi
confinati dalle spalle e sotto il peso dei capelli.

Vale allora un lampo a fare luce anche dentro
noi e l’aria compresi nello squarcio
ad attrarci gli occhi gli uni dentro gli altri
a rivelare quanto inerme è la pelle, e la pietra.

È una sera di quelle che l’indomani non sapremo
raccontare, l’attimo prima della bomba:
uno spavento al confronto è fosforo allo stato puro.

*

DAI VENTI AI TRENTA TRA GLI ZERO E I DIECI

Esorbitanti ne capitavano, incontenuti dai recinti
e altri che in un buco alla difesa il perimetro
eccedeva: gli anni si inanellano e non tornano
nel conto in diretta piuttosto collimando
al ricordo cui disporsi. Sereno, trattabile,
nei venti tra gli Zero e i Dieci ad urti
proceduti e scatti come evolvendosi una specie,
accerchiato dall’eccentrico mio espandermi.

Di frequente nella fronte si rovesciava il sangue
dal rischio manifesto spinto forte
che allo scrutarmi crollasse il sipario delle ciglia.
Ore per calmare il cuore e nello sbattere
il tappeto volante posteggiato sotto casa.

Sarà la vampa che si ossigena ammattita
a temprare o il bluastro sottotono delle braci
undicimila giorni dopo con la forza avermi offerto
l’aria il destino cui mi accingo o che già incarno?

Non sopito un indizio almeno nella cenere
lucciola preziosa la notte riorienti
un soffio attizzi e non sparpagli come stelle
ciò che ancora in qualche mia parte brucia:
mi faccia luce nel brancolare vicino casa.

Una nota su “Storia d’amore” di Daniele Mencarelli, Lietocolle, 2015

daniele_mencarelli

Daniele Mencarelli

Storia d’amore (nota di Gianluca D’Andrea)

Il dispositivo ha sempre una funzione strategica concreta e si iscrive sempre in una relazione di potere.

Giorgio Agamben, Che cos’è un dispositivo? (nottetempo, 2006)

mencarelli_storia_damoreA non funzionare nell’ultimo libro di Mencarelli è la cornice del racconto. La sensazione di finzione che scaturisce dall’apparato didascalico smorza il “sentimento” della realtà, la carica emotiva che aveva segnato le operazioni precedenti di Bambino Gesù e Figlio.
Probabilmente, la volontà unificante del racconto – la scansione per date ricorrenti che si sviluppano nel corso di due anni, con un’appendice più vicina al nostro presente – imprime una complessità “letteraria” che la poesia di Mencarelli non riesce a gestire fino in fondo. L’idea di “storia semplice” (su cui si basa la riflessione in quarta di copertina firmata da Gian Mario Villata) tradisce invece la “non ingenuità” del lavoro di Storia d’amore.
È una “storia” in cui l’elaborazione della storia collettiva non emerge, non si scava nell’archivio del passato e non si raggiunge l’attuale – per dirla in termini foucauldiani. È come se la microstoria del racconto chiedesse un privilegio che invece la storia collettiva non può concedere, visto il rischio che ogni operazione corre adagiandosi sul concetto di privilegio. “Il bordo di tempo che circonda il nostro presente” (Deleuze) chiede alterità non riconoscimento. Emerge una dimensione gerarchica – e qui la formazione “religiosa” di Mencarelli mostra il suo versante rischioso, al limite della chiusura nell’acquisito -, una volontà di giustezza che inibisce il lettore: «qui a forza si è romantici, / il bosco alle spalle senza fine / racconta l’altra parte della storia/ quella di corpi sciolti dai vestiti / pezzo dopo pezzo come una vittoria/ prima che tutto senza freno avvenga» (p. 24). Ecco, concetti come “nudità” e “libertà” emergono dal loro sfondo “romantico” e non dicono nulla su un presente che vede nella “nuda vita” il sintomo della scomparsa del “vecchio uomo”, così come nel ribaltamento della libertà individuale in arbitrarietà delle scelte di consumo, una prospettiva di “reale” mutamento.
Una corrente nostalgica percorre il libro, una reazione al passato perduto che si trasforma in perdizione del presente, cioè stasi: «io invece vengo bene al naturale / nella posa di drogato più che pazzo / che ama zero il suo sorriso,/ l’ultimo scatto lo vuoi serio / io e te guancia contro guancia / per portarci domani qualcosa del presente» (p.31).
Purtroppo anche sul piano stilistico si avverte una caduta. L’andamento a scatti, il nervosismo “dolorosissimo” di Figlio lascia spazio a un percorso piano, a un racconto monotono e senza accensioni. Il ritmo è livellato e modellato sulla ballata, è vero, ma a rischio litanico, come una supplica del ricordo in forma di racconto -, così la traccia fornita dalla ballata romantica si aggancia alla tematica nostalgica e perde slancio: «Primavera è luce che si allunga / colore resuscitato al mondo / sulle pene inflitte dall’inverno», oppure «Anna non temere solo la luce ci guarda, / ora dammi il fiore della tua timidezza» (p. 40). Si arriva anche a gravi cadute d’intensità nella volontà di rendere il più possibile “popolare” la parola. Incipit come «Tutto porta inciso il tuo nome» per quanto possano essere giustificati nel tentativo di smorzare qualunque “aulicità”, rischiano di accomodarsi su stilemi da canzonetta (“Ti vedo scritta su tutti muri”, cit).
A soffrire, dunque, è tutto il dispositivo di scrittura, la rete di relazioni che si instaura tra soggetto e mondo, in favore di un possesso che è limite all’alterità: «Io rimango con quelle due parole/ giocosa dichiarazione di possesso/ ognuno dell’altro proprietario/ come della casa o di una moto» (p. 47). Che questa speranza non sia vera, Mencarelli lo sa, eppure la nostalgia per “l’adolescenza” del mondo ha spinto al limite l’illeggibilità del mutamento.


Testi da Storia d’amore

Nostro parco giochi è questa piazza
un letto comodo la villa comunale
siamo proprietari di un paese
che conosce i nostri nomi uno a uno,
tu zingaro tu sbandato
io figlio di puttana,
è la qualità dei giochi a farci noti
ferocia compressa dentro scherzi
finiti nel pianto e nella storia.
Dai paesi vicini come pellegrini
arrivano ragazzi solo per sapere
di quel motorino aliante mancato
scaraventato giù da un sesto piano
o delle nostre comete impazzite
pagnotte intrise d’ogni liquame
in volo fino allo schianto calcolato
sui vecchi in tondo a briscolare.
Ogni bocca delle nostre
aggiunge al racconto il suo dettaglio
mentre ammirazione mista a risa
cresce negli occhi di chi ascolta,
poi solo ridere, che dannato ridere.

*

Il copione oltre al giro dei paesi
su un fulmine andato in marmitta
cone te stretta neanche divertita
ha il suo finale fisso sul sentiero
dove i laghi sembrano due occhi
e la capitale distesa giù nel centro
una bocca famelica di luci,
qui a forza si è romantici,
il bosco alle spalle senza fine
racconta l’altra parte della storia
quella di corpi sciolti dai vestiti
pezzo dopo pezzo come una vittoria
prima che tutto senza freno avvenga.
Con te per chissà quale ragione
di vanitosa o forse d’impaurita
andrà rivista la scrittura,
tanto la mia bocca s’avvicina
tanto la tua serra le sue labbra,
la voce ti ricompare a sole spento
solo perché l’ora è quella del ritorno.
Non so quanto amaro esca dal sorriso
ma da stasera mi è chiara una cosa,
a questo gioco arriverò per primo.

*

Il vento parla una lingua fredda
l’improvvisata dell’inverno
ci ha sorpreso a maniche sbracciate
sulle rive di un cratere fatto lago
preso in ostaggio dalle rane
dai resti sparsi di un’estate
andata all’altro mondo,
anche la tua voce a raffiche
se ne scappa via lontana
e quel che stai dicendo
da soli pochi metri di distanza
chissà chi lo starà ascoltando,
provo a leggerti le labbra
ma invece di capirti
mi perdo nel loro movimento,
una raffica di vento
e mi ritrovo aggrappato alle tue ciglia,
tutto porterebbe al primo bacio
ma tu ancora ti rifiuti
corri via e io ti vengo dietro,
sia pure in mezzo al lago.

*

La cabina fototessera
sputa smorfie miste a visi
tu regina senza pari
storci e arricci al tuo comando
non c’è naso o bocca che si opponga
avresti un futuro certo nelle tele,
io invece vengo bene al naturale
nella posa di drogato più che pazzo
che ama zero il suo sorriso,
l’ultimo scatto lo vuoi serio
io e te guancia contro guancia
per portarci domani qualcosa del presente.
Ti guardo nella foto intanto che s’asciuga,
non eri tu la prima volta che ti ho vista,
eri un’altra cosa più bruttina,
il tuo viso non bucava come ora
la corteccia della pelle come niente.

*

Primavera è luce che s’allunga
colore resuscitato al mondo
sulle pene inflitte dall’inverno,
ricordi il sentiero del primo incontro?
Ora sei tu a spingermi in alto
mi trascini sempre più dentro
solo per sorprendere il bosco
col suo vestito di gemme
e profumi le foglie neonate,
quando ti volti e mi prendi
qualcosa di purissima voglia
e più bambina paura tra i baci
mi dice a quale disegno
dal principio avevi pensato,
mentre tutto accade per gioco
il bomber steso per lenzuolo
la lentezza che mi comando
contro la fretta che ti spoglia
il tuo corpo come mai pronto.
Anna non temere solo la luce ci guarda,
ora dammi il fiore della tua timidezza.

*

Tutto porta inciso il tuo nome
ogni giorno nato e consumato
il paese tutte le sue strade
le formiche in solenne processione
tutto a voce alta lo ripete
suono più veloce della luce
Anna vero nome dell’amore
nome dal sapore di fiamma
Anna che significa ossessione.

*

Non è il mio inferno
quel regno di pena e fiamme
minaccia ai bambini sul più bello,
il mio demonio è una mattina
scolorata dal cielo alle persone
ti di chilometri lontana
in gita con la scuola per L’Italia,
io scarpa senza la gemella
buttato da una parte sconto il tempo.
Non è teatrale il mio demonio
non è mostruoso non ama il fuoco
lui gioca a svuotare le promesse
ad alitare il suo comandamento
tutto il suo verbo in un solo ritornello
tre parole piantate in mezzo agli occhi:
Non rimane niente, non rimane niente,
di questo tempo di tutti tempi
di tutte le madri le mani dei padri
del tuo viso inciso nei giorni
non rimarrà che il niente,
siamo un urlo nello spazio
per caso viventi per caso amanti
disordine è il padre da onorare.
Questa è la terra dell’inferno
questo niente da tramandare
niente da difendere niente da sperare,
ti prego fai presto, torna,
senza di te sono meno di un disperso,
io senza il tuo neo come mi oriento?

*

Un giorno saprò dire tutto questo
con una sola parola, miracolosa,
dirà tutto svelerà ogni cosa,
cadranno una volta pronunciata
tutti gli inganni sparsi sul percorso,
la via apparirà chiara senza intralci
salvarti sarà un gioco da bambini,
per te riuscirò nell’impensabile
il primo a schiavare l’universo.
Niente di tutto questo.
L’intero verso del futuro
si consumerà senza fuochi dal cielo,
ai tuoi piedi mai poggerò la preda
la prova che alla fine resisteremo,
ma tolta l’impazienza che mi smania
altro atto vuole la mia fede,
dare rinascita ogni giorno
al clamore che sei per i miei occhi,
poi con ogni fibra di esistenza
amare e ringraziare, questo mi basta.

Poesie da “Storie” di Damiano Sinfonico, L’arcolaio, 2015

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Matthew Cusick, Course of Empire (Mixmaster 2), 2006 (Fonte: mattcusick.com)

Storie (nota di Gianluca D’Andrea)

 

Nel momento in cui parlo, mi sembra di essere proiettato davanti a me, lasciando me stesso dietro. […] Il corpo non è tanto localizzato quanto distribuito nello spazio.

Steven Connor, La voce come medium – Storia culturale del ventriloquio (Sossella, 2007)

STORIEIl libro di esordio di Damiano Sinfonico (Genova, 1987), come ben espresso in prefazione da Massimo Gezzi, è contraddistinto da un’inquietudine di fondo. Nonostante nella stessa prefazione si lasci intendere l’inesplicabilità della sensazione sottesa ai testi di Storie, è comunque possibile tentare di individuarne i segnali.
Lasciando un po’ in disparte le scelte formali e strutturali della raccolta (per le quali si rimanda ancora alla prefazione – si veda soprattutto la riflessione sul verso-frase, la cui imposizione per tutto l’arco dell’operazione induce a un senso di asfissia o monotonia “ansiosa”; oppure la sistemazione “simmetrica” dei testi che si può giustificare nello sforzo di offrire un nuovo ordine all’opera/mondo), mi concentrerei su alcuni concetti che sembrano voler emergere dalla trama.
In primo luogo il mezzo, la raccolta è costellata da vicende di passaggio. Si apre con una telefonata: telefono, medium di una voce ctonia che parla della morte proprio quando il soggetto è impegnato a “riportare in vita” per mezzo della memoria Costanza d’Altavilla. Il ponte – almeno due testi sono incentrati su questa figura -, medium del cammino e, infatti, sembra banale sottolineare che “cammino” e “corrente” sono due dei termini chiave per provare a comprendere il “passaggio” o mutamento epocale cui siamo tutti sottoposti: «Il trasloco sta finendo», «Aspettare insieme il domani», «Questa casa si apre agli anni futuri./ Arriveranno uno a uno./ Li conteremo insieme, luminosi e meno./ In te c’è un altro secolo di vita», pensierini-verso, oso dire, che troviamo nell’ultimo testo della raccolta, post-it, promemoria che ci “ricordano” il continuum della nostra esistenza.
L’inquietudine “mortuaria”, assai personale – e la “fluidità” della storia s’incrociano – ancora il mezzo – nel tentativo di un orientamento, una nuova inquadratura o, meglio, la speranza affranta di poter incidere sulla “non scomparsa dalle mappe”. Già, una mappatura che tiene conto, però, della distanza relazionale, «siamo lontani come due bordi di un cucchiaio», ma che non vuole arrendersi ad essa, nonostante a volte l’inserzione sotterranea del mediumfaccia propendere, come fosse una tentazione, a interrompere la relazione col mondo: «A volte ho la tentazione di staccare la corrente».
L’operazione resta sospesa tra la “dissoluzione” anche fisica, dei corpi, e lo spunto, già evidente nel primo testo, di una vivificazione, attraverso il segno, dello stesso mondo, intravisto sull’orlo della sua scomparsa.


Poesie da Storie

Mi hai telefonato mentre pensavo a Costanza d’Altavilla.
Mi hai investito di parole che qualcuno era morto.
Nelle tue rare pause, facevo scivolare dei monosillabi nella corrente.
Capisci, non è stato per indifferenza o durezza di cuore.
Mi hai colto tra miniature medievali.
Invischiato in faccende che non mi riguardavano.

*

Ho inciso i nostri nomi su una carta geografica.
Quanta strada c’è fra me e te?
Le nostre città sono in viaggio l’una verso l’altra.
Seguo il loro movimento sulla mappa.
Non percorrono un tragitto lineare.
Lo contorcono, lo avvitano, lo intrecciano e lo allungano.
Ogni tanto si avvistano di lontano.
Intravedo nella nebbia dei segnali luminosi.
Poi il buio li offusca e li immerge in una quieta sonnolenza.
Non è un sogno.
C’è una mappa davanti ai miei occhi.
E ci siamo io e te che camminiamo dentro un continente.

*

Il ponte, oggi è riservato al traffico automobilistico.
Il limite è sessanta chilometri orari.
Chi viaggia lì, vede la città abbracciarlo da ogni lato.
Chi viaggia sotto, vede un filo lungo oscurarlo.
Una volta ci ho camminato sopra, con altra gente.
Manifestavamo contro i tagli all’università.
Era l’onda, si srotolava contro i tetti accesi nel sole.
Sembrava crescere, crescere sempre.
Poi ha smesso, è scesa sottoterra, forse ancora scava in profondità.
Non so dire la fine degli altri, ci si è persi di vista.
Immagino che a camminare lì fossimo tanti.
Che forse ancora qualcuno si ricorda di quella camminata.
Che il bello era camminare sopra il ponte.
Passano le macchine, anch’io di tanto in tanto.
Ma l’aria che si respirava sopra, nessuno se la immagina.

*

appisolandoti orienti i tuoi piedi
dormi ma ti allinei con i meridiani
come bussola ti riassesti nel tuo lungo viaggio
dove vai nella giusta posizione?
forse un’altra terra, entri nella sua orbita
tocchi con un piede il suolo del riposo
ti svegli, si interrompe il contatto

*

Mi telefona snei momenti sbagliati.
Sempre, chiunque.
Appare il numero sul display, e mi secca.
Lascio correre gli squilli, me ne infischio.
Richiamerà più tardi, nel pomeriggio, o alla sera.
Chiamerà quando ci sarà qualcuno in casa.
La casa diventa una conchiglia.
Squilla, squilla, come fosse disabitata.
Io mi avvolgo nelle sue pareti bianche, e resto in ascolto.
Mi fascia il drin drin continuo, mi circonda come un’aureola.
A volte ho la tentazione di staccare la corrente.

*

Si è scherzato un’ora intera.
Le risa si propagavano nel corridoio.
Una corrente magnetica.
Altre risa rispondevano dalle stanze intorno.
Si moltiplicavano lungo il reparto.
Poi è entrato l’infermiere, arcigno.
Ci ha rimproverati.
Come potevamo disturbare una tale quiete?
L’orario di visita stava scadendo.
Eravamo agli ultimi minuti.
Abbiamo riso ancora.
Qualcuno stava morendo.

*

Ho sognato un ponte tibetano.
Dalla tua finestra fino al viale.
Non traballava, leggero, al vento.
Non c’era quando mi sono svegliato.

*

a Francesco

Il trasloco sta finendo.
I quadri, le bottiglie, i portasciugamani.
Tutto ha trovato una collocazione.
Resta poco da fare.
Aspettare insieme il domani.
La luce filtrata dagli alberi.
Questa casa si apre agli anni futuri.
Arriveranno uno a uno.
Li conteremo insieme, luminosi e meno.
In te c’è un altro secolo di vita.


damiano sinfonico

Damiano Sinfonico

Damiano Sinfonico (Genova, 1987) è dottorando in letteratura italiana. È redattore di “Nuova Corrente”, collabora con “Poesia” e con il blog “La Balena Bianca”. Sue poesie sono state pubblicate sui siti “Le parole e le cose”, “Atelier Poesia”, “Nazione Indiana”, “Interno Poesia”.

Estratti da “La saggezza dei corpi” di Martina Campi, L’arcolaio, 2015

spencer

Spencer Tunick, Newcastle, 2005

La saggezza dei corpi (nota di Gianluca D’Andrea)

la saggezzaDopo Cotone (buonesiepi libri, 2014 – vedi qui), il ritorno di Martina Campi alla poesia si predispone alla forma del racconto. La prospettiva “poematica” prende il largo da un’evenienza “comune”, da una vera necessità. Il ricovero in ospedale per una settimana è input, come dice bene Sonia Caporossi in prefazione, per una «inversione di contesto». La poesia della Campi ci ha abituato alle modalità di scardinamento del senso (e continuano ad essere presenti in questo libro metafore ardite, simboli stranianti – «c’è una mano tra i palazzi e un muso/ tra i raggi del sole» -, anastrofi – «bianco il soffitto e nelle mani»), ma la dimensione “surreale” del contesto pare attenuarsi, anzi di più, pare concretarsi a favore della rilevanza dei dati di realtà. Il “bianco” e le “mani” fanno la referenza (il bianco del cotone della raccolta precedente) extralinguistica per costruire una diversa aderenza. Non nuova, i simboli non sono originalissimi, ma quasi di asettica purezza che cerca nel contatto una redenzione al precedente distacco.
La tensione a un approdo, così sentita in Cotone, trova in La saggezza dei corpi una risposta. Si passa dall’«instabilità dei nessi» a «incontri inaspettati» che possono nutrire la nostra fame di relazione. È questo il bel segnale che ci arriva dal poemetto della Campi, un promemoria per i «prossimi giorni, ignoti», per il futuro.


 

 

Estratti da La saggezza dei corpi

Giorno #1

– Il cuore è la prima cosa da liberare

1

[…]

… c’è una mano tra i palazzi e un muso
tra i raggi del sole che sbatte e sbatte ancora
da dove vieni? Dov’è trascorsa la notte?
E percorre i contorni, li stringe, li logora, li rovescia

arrivano le mattine così, sugli angoli
Spezzati e gli orologi, baldacchini per le mani
che scivolano sul volante, che la bocca, è
a metà

[…]

*

Giorno #2
– Il cuore non ha alcun dovere: batte

il cuore è bianco, il cervello
bianco, bianco il soffitto e nelle mani,
tra le gambe, sui piedi
bianco che dilaga bianco

la finestra non resta aperta
gli occhi, non li vedo
e la finestra cade
ancora, un’altra volta, giù

[…]

non si tocca abbastanza rumore
vento, fuori o dentro, vasto

quando arriva il fresco
dalle pareti e dalle fessure
le visite sono schiene
nel corridoio (a svanire, meste)

che si allontanano e perdono
forma, non è ancora buio,
né la fine del giorno dei vivi
che ci si addormenta, sonnecchiando

[…]

*

Giorno #3
– il cuore è un canale privo di ostruzioni, dove tutto passa –

I

[…]

perché fuori è una terra straniera
fuori è tutta un’altra storia
e anche loro che arrivano, con l’amore
nelle borse, e le migliori intenzioni

[…]

*

Giorno #4
– abbiamo tanto bisogno di tutto ciò che piangiamo –

I

[…]

verso la porta nel tempo
di arrivare
e svanire di nuovo, raggiunti
nel bianco

quando ci siamo rivisti
c’era molto caldo
e avevamo la raccolta
delle lacrime agli occhi

ci siamo seduti come attorno
a un tavolino da giardino
senza che ci fosse alcunché,
da appoggiare o stendere

e ci siamo detti del tempo
e delle zanzare e tutti gli altri insetti
volando mentre i vecchi guardavano
il telegiornale, poco più in là

[…]

*

Giorno #5
– finché non avremo perdonato i nostri genitori, non avremo perdonato noi stessi –

II

amici miei, dove siete?
(abbracciatemi)
qui è tutto bianco, e la notte non si rimargina
anzi si sbornia il buio che sta in basso e viene, su

il computer lo chiamavamo
bollettino dei morti
che è morto oggi?
chiedeva la Gina

io e Maria ridevamo e rideva anche lei
scampate al sospetto
della bruta follia
scampate di brutto alle glaciazioni

[…]

*

Giorno #6
– Col cuore puro viviamo in pieno paradiso –

III

e so che dovrete andare
e so che dovrò andare anch’io
per diverse stanze, corridoi
che non s’incontrano più

abitudini che attraversano il caldo
agguantano i bianchi del giorno irreversibili

[…]

*

Giorno #7
– Senza azione, la verità non serve a niente –

II

mentre parlavi
mi inondava un pianto verde
come se il cuore non fosse
più il mio

(io e tutte le mie paure)
ce ne torniamo a casa
con la commozione in sommossa
a fissare il panorama che scorre

tutti i piani per ricominciare
i passi di quadriglia
i dialoghi delle sceneggiature
i tappeti rovesciati all’in giù
l’orizzonte basso e lontanissimo
di tanti verdi
diversi che si toccano
e il vento caldo entra dai finestrini

[…]

III

gl’incontri inaspettati
ci nutrono
la fame
che consuma

riferiti deficit neurologici transitori
oscillazioni della vigilanza
trascinamento bilaterale
diplopia, vertigine soggettiva
amnesia di fissazione

e tutto ritorna com’è
e tutto intorno s’aggira fino
ai prossimi giorni, ignoti


 

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Martina Campi

Martina Campi è nata a Verona nel 1978. Vive a Bologna. Vincitrice del premio Giorgi 2012 con la silloge Estensioni del tempo (Le Voci della Luna). Finalista al Premio Montano 2014, con la raccolta inedita Manuale d’estinzione. Nello stesso anno pubblica Cotone (Buonesiepi Libri). Presente in alcune antologie poetiche, siti e riviste di scrittura. Co-fondatrice dei progetti di autodiffusione di cose belle: Foglio d’aria (con Giampaolo De Pietro). Autrice e performer, con il compositore musicista Mario Sboarina, del progetto di musica e poesia Memorie dal SottoSuono da cui è nato anche il cd autoprodotto Mani e qualcos’altro (2011).

 

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Esordi: Marco Furnari

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Il vulcano Erta Ale nel Triangolo di Afar (Etiopia)

Pubblichiamo alcuni testi dalla raccolta inedita Isola di Marco Furnari (Barcellona Pozzo di Gotto). Una voce spiazzante per una lingua in costruzione. Giocare con le parole per trovare un nuovo alfabeto, un proprio codice. Attimi surreali dall’Isola, nel magma che fuoriesce e s’impasta, s’incanala e impatta il mondo.

Gianluca D’Andrea


Testi (da Isola, inedito)

Le ceneri d’argento sulle zampe dei grilli
fuoco restio a scomparire del tutto in un fuuuffete
la voce che non esce lunare passinforme circosospetto
sarebbe inutile sgolarsi verso il calore luminoso della casa
lo dicevo che erano guai a farsi sognare dall’isola
da buon antenato sotteratinvolato rumoreggio dal culo spiritato
ammonisci spaventa guida le rincasanti scorribande dei curiosi
gatto ci cova merlo si arma topo si scava fronda ci fruscia erba si scosta
coniglio ci trotta
barbagianni piomba
un’ombra richiude la tenda del calore luminoso che all’altra stanza si
sposta
un pitito e scompaio davvero.

*

Isolarvamaca dondolandoci frasi perpetue in uno scirocco vai dicendo
che negli occhi di una metamorfosi non hai visto
non una farfalla non una mantide
non ho vissuto per questo pomeriggio che vedo passare
allora quale
metamorfosidentificandosi in una non premura
metamorfosidentico a prima di ora
iride scienza di guardiamoci veniamoci a dire
la qualunque cosa da una pigra figura su amaca dondolentamente
prendi una bottiglia di acqua fresca la scodella di fichi d’india.

*

mi dici sei una isola impervia che spini le dita degli arrampicatori
ti dico di una scorciatoia per entroterra di aria a refoli bisbigliante i
muri di geco
un braccio una mano oh issa che spunta
una rientranza di ombra sorpresa in nodi fiocchi di pergola
scruti la mappa ch’è un continente di carta fasulla rifiati
l’isola su cui proprio ora siedi con il portamento di tartaruga ti spinge
seco
tocchi la terra il guscio a cui bussi dicendo son fermo allora la prego si
fermi.

*

le ventilate emozioni di un cortile si riappendono a lungo ciò che
trovano
alla portata di una anguria spaccata volevo provare che non l’avevo mai
fatto
di infilarci il cazzetto duro teso
a vedermi davo forse l’impressione di una di quelle isole che sguazzano
nei propri corporali effetti vulcanici
da considerarne gli effetti dell’anguria che non potevo più mangiare
il moscio elefantino ortaggioroso si è nascosto in uno dei posti dove si
voleva dimenticare
ma una mezzorata di trascorsi venti scorrinienti (ma comunque
accatastatori spingenti le cose di là su una linea di un tempo che a
ripensarci sono un tuttuno che già si stacca in or ora domattini) me lo
facevano ricordare ridendone.

*

“Il pititIo sarebbe lo scorreggìo delle alcove che ci avverte che si sono
fatte le ore
un silenzio solvente da rumore che era ora spirito nuvola si infila fino
al cuore della narice
non ha più niente dell’ aroma di cosa è stato fagocitato?mette un po’ di
spavento come un ricordo malsano
un bambino in un campo può dire pititIo sei tu non son io
un bambino in giardino può dire pititIo vienmi comunque vicino
un adulto sovviene che bisogna prestargli un orecchio
un grandadulto già vede trafitto lo specchio
una cosa importante è fare assieme una risata grande quanto una
accogliente barricata”

*

una isola su due piedi che dicevi sono saldo scivolando di un secondo
lungo una passeggiata di sole ponente un piccolo alato coda di ruggine
in discesa da palo di legno
scivolando di un secondo alla volta anche alcuni code ballerine amano
le pozzanghere fra la spiaggia e la strada
se mantici soffiano dal vuoto i segni di vento nel vento verbalizzano i
cespugli la salita tappezzata
solamente il vento è
invisibile e nutriti di muscoli i soffiati minuscoli fiori come me solo
visibili
scivolando con il tempo caro amico del vento.

*

si divertono a migrare i pensieri viaggiatori con la scusa di portarti
ti abbandonano in un punto e raggiungono la meta a riparo dal tuo
corpo
fino a essere le cose nel lontano fuori e altro tempoluogo.

Esordi: Riccardo Frolloni

binari-e-strisce

Torino, Via Stelvio (fonte: La Repubblica di Torino)

languide-istPubblichiamo alcuni testi dal primo libro di Riccardo Frolloni (Macerata, 1993).
Languide istantanee polaroid (Affinità elettive, Ancona, 2015), il cui titolo ci aveva lasciati piuttosto perplessi, è un testo composto da brevi frammenti. Fragili, molli, al limite della capacità di dire, non so se per timidezza o per volontà di ridurre il testo all’essenza. Perché sembra svilupparsi proprio questa necessità di dire poco di una realtà in esubero, come se una volontà estranea, aerea, scivolasse nella nominazione, per volere del tutto solo quello che conta: Storia, si arrischia, al posto di storia – che sia un sintomo?

Gianluca D’Andrea


Testi

Io sono la città
sono le case
e i fornelli accesi
sono gli avi
nei secoli dei secoli
sono tutte le mani
di chi mi ha toccato
mia madre: mio padre
sono il sangue dei miei figli
e dei figli dei miei figli
che ancora non sono.

Tutto ciò
io sono
che sembra un destino
accettare la Storia
per intero.

*

È l’inizio ancora dall’inizio,
importa solo il primo
e l’ultimo battito

È la strada che ritorna
sempre uguale a sé stessa
e mai uguale

Che porta dove non si porta:
nel ritorno che vive d’assenza,
nell’assenza che vive senza di te.

*

Qualcosa sta morendo.
Qualcosa
che non trovo il nome,
che porta con sé tutto un silenzio
che senti il silenzio
che pulsa che batte
nelle orecchie
e nelle orecchie ancora.
Qualcosa
muore col suo rumore
ed assomiglia a qualcosa
ma non trovo il nome
non trovo
casa mia
la strada
la sera.

*

La zona pedonale uccide
se non stringi una mano.

Cammino veloce
per scaldare i piedi
per raggiungere posti
i più deserti binari
dove i treni son già partiti
coi bagagli di chi sta fermo.

*

Il tempo è una luce nella testa
che sfonda le finestre dei ricordi
e lascia geometrie
di figure in controluce
cui consuma anche la voce.

Ascolta queste bocche
cui avanza solo il movimento
in un continuo soffocarsi
di voler dure tutto
e tutto il bene
che vorresti sentire ancora,

ma non dice niente
e poi niente
ed è silenzio due volte.

*

Non aprire la porta
che entra il tempo.

Restiamo in fuga
stesi a letto
restiamo sotto
che è più caldo.

Non ha senso
cercare un senso
se a quest’ora
non esiste ora.


frollo

Riccardo Frolloni

Riccardo Frolloni è nato nel 1993 a Macerata. Nel 2010 vince il concorso di poesia “Voci Nostre – Città di Ancona”; nel 2012 compaiono alcune sue poesie nell’antologia Viaggi in Versi diretta da Elio Pecora per “Pagine”. Dal 2014 collabora con la rivista romana “Tafter” e con il Centro di Poesia Contemporanea di Bologna, dove studia attualmente Lettere Moderne.