
Incisioni rupestri sul Lago di Garda
di Gianluca D’Andrea
Nuovi giorni (riflessioni poetiche)
Una necessità di scambio questa mi spinge a concludere l’anno con uno scambio epistolare che è anche, e soprattutto, una discussione sulla poesia. Ringrazio Yari Bernasconi che ha trasformato una mia recensione, non proprio positiva, al suo Nuovi giorni di polvere (vedi qui) in una veramente “nuova” possibilità di scambio. Il post si apre con un componimento in forma di lettera, una risposta che Yari ha sentito di inviarmi per chiarire alcune sue perplessità sulla mia lettura del suo libro. Riconosco, grazie ai suoi interventi – qui riportati, oltre alla poesia, preferisco inserire anche il testo della mail che l’accompagna – la mia, a volte necessaria, altre esagerata, esaltazione critica. Comprendo che non ci siano certezze assolute, ma è anche vero che una direzione il critico deve rischiarla, altrimenti la lettura di un libro – e il libro stesso, nonché quello che può rappresentare – scompare nel turbine senza attrito dei così necessari oggigiorno, ma non fondanti, “mi piace”/”non mi piace”. La mia lettura cercava di focalizzare alcuni aspetti della tradizione poetica del recente passato, il tipo di reazione che scatena lo studio approfondito di quella, e lo slancio linguistico che ne può derivare. Passato-presente-futuro si coagulano in un tempo diverso che necessita di un suo linguaggio. Siamo qui e proviamo a sentirlo il tempo, a intuire una direzione che non sia solo legata al momento ma costruisca una prospettiva. Yari mi ha suggerito la sua considerazione del passato, la funzione “progressiva” che ne emerge non può che trovarmi concorde, dico infatti questo nella mia recensione: «Ciò che è avvenuto è causa diretta di ciò che avviene, in una progressione abbastanza lineare degli eventi e delle esperienze compiute in cui risulti più facile un orientamento nel presente».
Si ragionava, inoltre, sui luoghi in cui nasce la scrittura poetica. Nella mia lettura ho detto di una Svizzera “chiusa”, ma riflettevo partendo da un luogo comune per arrivare a una considerazione sul carattere di una conformazione geografica e di conseguenza storico-politica, in questi termini, a mio avviso, una risultante linguistica: «Non è mia intenzione scadere in generalizzazioni “nazionalistiche”, è pur vero, però, che dentro la neutralizzazione degli eventi può nascondersi una voragine di colpa e proprio nella modalità del distanziamento dello sguardo che diventa habitus, cambiando la prospettiva del soggetto. Così l’allontanamento imposto dalla storia, una specie di oltre-confine (non saprei come altro definirlo), sembra condurre nel cuore dell’agone, ed è cruccio per Bernasconi, che è l’attraversamento». E infatti cercavo di dire l’attraversamento linguistico in atto, per Yari, come per uno dei suoi riferimenti più stretti, Fabio Pusterla (del quale inserisco la recensione, molto più positiva della mia, dedicata al libro di Bernasconi), questo attraversamento è in corso, per me è avvenuto e vive nella deformazione: del concetto di poesia, ma su questo c’è accordo, infatti gli strumenti e le fonti delle cose poetiche sono svariati ma anche sempre più concentrati sulle nuove strumentazioni tecnologiche (molti testi nascono da ricerche internettiane o dai nuovi metodi di socializzazione informatica); dell’etica, che richiede pudore ma anche una forza che queste parole di Yari sembrano trascurare: «Ogni volta mi interrogo su come posso “dire” meglio la realtà. Credo insomma in una riflessione continua e non in un programma o un approccio programmatico. E sono quindi contro “il dovere di sperimentare un nuovo cammino”: primo perché, come dicevo, ogni volta che si prende la responsabilità di scrivere bisogna ricominciare a interrogarsi sul “come”; secondo perché il linguaggio, come la letteratura, non deve, ma può. Il momento in cui la letteratura deve comunicare o fare qualcosa perde ai miei occhi quasi tutto il suo valore». Dicevo di una “forza” in cui il dovere di rischiare una posizione si lega alla necessità di orientamento che il nostro tempo ci chiede (non per niente uno dei crucci dei primi anni del nuovo millennio, un lamento costante, è la “scomparsa” della critica, una volta militante, oggi quantomeno resistente). Ecco perché le intenzioni linguistiche di Yari, rispettabilissime nel tentativo di resistenza, non sono sufficienti, ed è proprio il “come” si può scrivere a richiedere il dovere di riscrivere il proprio tempo. Per quanto non creda neppure io alle valenze metafisiche del senso – questo l’opposto dell’aderenza al reale reclamato da Bernasconi – né alla vecchissima tradizioni lirica che ne è conseguenza, ribadisco che il soggetto non può sopravvivere nella rinuncia a dire di più per non perdere aderenza con la sua riduzione a cosa tra le cose, perché la scrittura non sia solo accettazione e pudore, ma anche risposta e forzatura del dato, non solo gentilezza ma agonismo, attrito.
Gianluca D’Andrea
Di seguito, in ordine: la lettera/poesia e la risposta via mail di Yari Bernasconi; la recensione di Fabio Pusterla a Nuovi giorni di polvere.
***
Breve lettera a Gianluca
Gianluca, queste pietre sono anche nostre,
sono adesso e qui intorno. Segnano strade
che forse ignoreremo, ma ci sono.
Il foglio non è mai soltanto bianco.
(I ragni e gli insetti si muovono sulle pareti,
con invisibili fili e battaglie.)
Neppure c’è un ritorno che valga una partenza:
c’è l’andare incostante e poco altro.
Cosa vuol dire Svizzera? Le frontiere
sono un luogo ogni giorno più comune,
meglio ascoltare cosa pulsa davvero.
Cercare di volta in volta le parole meno sbagliate
senza doveri o fedeltà.
***
Caro Gianluca,
eccomi qui con la breve lettera in versi. Per me è importante che tu l’abbia.
Nel dettaglio, sono tre i punti che mi sembra di non condividere, o che forse sono solo al centro di un malinteso. Il primo riguarda la memoria, lo “storicismo” e la “cura e salvaguardia” dei reperti; in realtà, sono cose che mi interessano soltanto nella considerazione seguente: non esiste la tabula rasa. Il nostro presente e il nostro futuro prendono forma su tracce esistenti, indipendentemente dalla strada che si sceglie di percorrere. Il passato in sé, quindi, non mi interessa proprio; sottolineo però appena posso che le decisioni prese per il presente e il futuro non devono ignorare (o peggio, far finta di ignorare) il passato e i suoi residui. In poche parole, l’esposizione museale mi lascia del tutto indifferente se è fine a sé stessa, se non ha un collegamento diretto con il presente, con la vita. Non so se mi spiego.
Il secondo punto riguarda la Svizzera. Ma qui è una semplice questione biografica: sono nato in Svizzera ma ho il doppio passaporto (italiano e svizzero, appunto). Mia madre, ligure, fa parte di quella generazione di migranti che è arrivata in Svizzera all’inizio degli anni ’60 (ti tralascio storie tristi che forse già conosci sull’accoglienza ricevuta). Questo per dire che la mia condizione ha certo dei privilegi, ma non credo siano quelli che indichi tu (penso per esempio all’atteggiamento “borghese”). Forse anche per questo sono sì cresciuto in Ticino, ma poi già a 19 anni sono partito per la Svizzera francese e ora vivo nella Svizzera tedesca. Come cerco di spiegare nel libro, non credo molto nell’appartenenza a un luogo (che infatti non saprei indicare); se mai, a più luoghi, a una “geografia mobile” (e comunque la Svizzera è molto più mobile e diversificata di quanto si pensi, malgrado i tanti clichés o luoghi comuni). E quando mi permetto di parlare di emarginazione, migrazione, incomprensioni sociali, lo faccio perché (direttamente o indirettamente) mi riguardano da vicino.
Il terzo e ultimo punto riguarda il linguaggio. Non so come procedi tu, quando scrivi, ma per quanto mi riguarda la scelta della forma, come la scelta delle parole, è ogni volta una storia nuova. Ogni volta mi interrogo su come posso “dire” meglio la realtà. Credo insomma in una riflessione continua e non in un programma o un approccio programmatico. E sono quindi contro “il dovere di sperimentare un nuovo cammino”: primo perché, come dicevo, ogni volta che si prende la responsabilità di scrivere bisogna ricominciare a interrogarsi sul “come”; secondo perché il linguaggio, come la letteratura, non deve, ma può. Il momento in cui la letteratura deve comunicare o fare qualcosa perde ai miei occhi quasi tutto il suo valore.
Scusa per il pippone. In realtà, non è detto che le nostre posizioni siano così lontane. Ma ci tenevo a risponderti, così come desidero che tu abbia la poesia che ti allego. Del resto, il tuo è un bel testo, ricco di spunti e anche di parole gentili: se ti scrivo è anche per questo.
Ti abbraccio, ringraziandoti ancora.
Yari
***
Fabio Pusterla
Recensione a Yari Bernasconi, Nuovi giorni di polvere, Casagrande, Bellinzona, 2015 (apparsa su viceversa letteratura, 16/11/2015)
La raccolta poetica di Yari Bernasconi si apre e si chiude in modo speculare, su un paesaggio di rovine e di abbandono. Il primo verso, che inaugura il libro ma schiude anche il recitativo della Lettera da Dejevo, suona infatti come un condensato di motivi destinati ad essere svolti lungo tutta l’opera: «Dice che abbandonando i caseggiati / avevano rotto tutto, i russi»; mentre la clausola del conclusivo Un commiato, che fa risuonare l’ultima nota di questi Nuovi giorni di polvere, mette in campo un’altra forma di abbandono, memoriale e esistenziale, con cui l’io si congeda: «Perdona se non tornerò in quello spazio /perenne».
E a ben guardare il dialogo a distanza tra incipit e explicit è dominato dalla duplice figura del tu, subito chiamato in causa all’inizio, e dell’io, cui spetta invece l’ultima parola e l’ultima scelta. Proprio in questa dinamica mi pare si possa cogliere un tratto significativo e notevole dell’opera: perché tanto il tu quanto l’io di questo libro raccolgono in sé l’eredità di una lunga tradizione poetica, eppure la modificano radicalmente. Intanto, la figura dominante, in buona parte del volume, è proprio quella del tu, rispetto alla quale l’io tende a ridursi a mero ricettore, orecchio che ascolta o occhio che guarda, ora sgomento ora come impossibilitato a condividere fino in fondo, a rivivere fino in fondo, l’orrida eppure vive realtà che il tu gli rivela (ed ecco un altro motivo ricorrente: l’inanità dell’io, la sua estraneità ai fatti). In questo senso, quel dici iniziale è gravido di conseguenze, se sposta la barra nel campo del tu, affidandogli la responsabilità dell’esplorazione: siamo agli antipodi rispetto alla dorsale della grande poesia novecentesca, che dal Taci dannunziano al Tu non ricordi la casa dei doganieri montaliano affidava all’io il compito di parlare, e di evocare un tu spesso assente o lontano. Qui, al contrario, l’io si ritrae, si rattrappisce, e si affida alle rivelazioni del tu, si lascia condurre dal tu lungo un viaggio quasi infernale attraverso gli orrori e i disastri che costellano la realtà, una realtà stratificata in cui la Storia ha lasciato le sue cicatrici immedicabili.
Dall’Estonia lacerata alla lunga striscia di morti sul lavoro del Gottardo, dalle emersioni di un avvenuto orrore quasi eugenetico in Svizzera alle falde infuocate del vulcano Merapi, alla peregrinazione infine sulle lande irlandesi o nei paesaggi italo-svizzeri: ovunque un tu cangiante e implacabile indica gli indizi della devastazione; ma una devastazione già data, già consumata e già vissuta, che l’io può certo registrare ma forse non fare propria fino in fondo; e anche in questa impossibilità e attonita estraneità risiede un’aggravante che motiva il titolo terribile della seconda sezione: Non è vero che saremo perdonati. Titolo fortiniano, come già osservava Uberto Motta nell’ottima introduzione all’Undicesimo quaderno italiano, rivelando la poesia di Bernasconi ai lettori italiani, che spazza via ogni troppo facile ipotesi consolatoria o salvifica. Non saremo perdonati, no: non solo per ciò che è stato fatto prima o al di fuori di noi, ma forse anche e soprattutto per la nostra disattenzione, per il nostro venire dopo, a cose fatte e a tortura avvenuta: «Se c’è qualcosa di vero è già sbiadito, già trascorso», dice il verso ultimo di Galway. E del resto, come è inevitabile, gli «elementi del disastro» giungono all’io di sbieco, mediati; proprio come la memoria di quei morti del San Gottardo già calcinati nel passato viene attivata dalla contemplazione delle sculture di Vincenzo Vela. Corre così, lungo tutto il libro, un senso di incredulità, e insieme la difficoltà di vivere pienamente l’oggi nella coscienza stranita di ciò che prima di oggi è esploso. La vraie vie est ailleurs: dichiarazione rischiosa di Rimbaud, di cui forse si coglie qui a tratti l’ultima trasformazione, un’ultima tentazione.
Un giovane critico e poeta italiano, Gianluca D’Andrea, ha osservato recentemente, recensendo il volume, che in Yari Bernasconi giocherebbe anche un’altra modulazione della colpa, cioè il suo/nostro porsi, in quanto privilegiati abitanti di un paese rimasto ai margini degli orrori, come testimone non partecipe, apparentemente innocente e per questo forse tanto più colpevole. Non si può escludere che un simile elemento abbia qualche importanza del mondo che il poeta sta mettendo in scena per i suoi lettori; ma si ha l’impressione che la variante temporale sia più significativa di quella geopolitica, e che lo stato d’animo prevalente nei Nuovi giorni di polvere sia lo straniato sentimento di fuoriuscita da un Novecento terribile e pulsante, rispetto al quale i nuovi giorni ancora non sanno assumere o proporre una dignità e una verità, e ci condannino ad un percorso di smarrimento e d’incertezza; senza assurdi rimpianti, ma anche senza reali prospettive. «La condizione dell’inerme come postulato fondamentale» diceva Uberto Motta, con esattezza; e forse anche del disperso, si potrebbe aggiungere, se l’evidenza dell’estraneità si insinua anche nei luoghi più conosciuti, nelle situazioni più familiari: «Questo paese di campane e di lago, / così sofferente al silenzio di chi vive, / così schiacciato da questo monte flaccido / e lento: mi sembra di non averci mai vissuto, / ma di averlo attraversato distratto, poche volte, / come si fa con la nebbia o con la pioggia» (Trittico per un paesaggio).
Sul piano formale, tutto questo si traduce in una secca, nitida, tendenzialmente distaccata pronuncia delle cose: la parola esatta, la tessitura del verso e della strofa, tutto porta con sé, ancora una volta, la coscienza e la conoscenza della grande tradizione (e basterà fare il nome dall’autore più intensamente studiato e attraversato da Yari Bernasconi, ossia Giorgio Orelli, la cui perizia espressiva ha certo nutrito profondamente questa poesia, nell’attenzione minuziosa alla lettera e al necessario rapporto intimo tra suono e senso), ma piegandola impercettibilmente verso lo stridore, l’attrito; verso la polvere del titolo, che si insinua caparbia, oltre che nei giorni, anche nelle maglie della scrittura. Il lettore ne potrà agevolmente seguire, tanto nelle immagini quanto negli effetti ritmici, la presenza costante, che in Una poesia per la galleria ferroviaria del San Gottardo diventa addirittura condizione esistenziale: «Manca la luce e ne soffriamo. Non tanto sotto, / in questo esofago di terra, ma sopra, all’aria, / quando si esce dal buco e il grigiore del cielo / si accascia sul profilo delle montagne, il sole / si rabbuia nel ricordo ostentato di qualcosa di più, / qualcosa di diverso. Una speranza, sì: la speranza / rifiutata, respinta giorno dopo giorno». Insomma, in questo notevole libro d’esordio, che è subito stato notato e giustamente apprezzato dalla critica, si può forse anche scorgere il territorio, faticoso e non ancora esattamente definito, di una transizione, di un mutamento in atto; per il momento, tradizione e novità, modelli di riferimento e intuizione di altri modi di essere e di intendere la poesia, si parlano con cautela, guardinghi, incerti tra l’alleanza, che per ora prevale, e il combattimento, o per lo meno il distacco, che a tratti fa capolino; ma si sente già la presenza di una voce vera, originale, che in futuro dovrà e potrà ulteriormente affinarsi e svilupparsi per giungere alla sua pienezza espressiva.
(Dicembre 2015)
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