Discorso al Premio Fortini – dialogo aperto con Tommaso Di Dio

Premio Internazionale Franco Fortini 2019 (Foto dell’autore)

Discorso al Premio Fortini – dialogo aperto con Tommaso Di Dio (01/12/2019)

L’ultima lettera di Tommaso Di Dio (Lettera a Gianluca D’Andrea di Tommaso Di Dio, Nuova Ciminiera, 26/11/2019, qui) si chiudeva sul “canto della macchina” e mi ha fatto pensare a un’affermazione di Jean-Luc Nancy del 2018, “anomala” per me che seguo da molti anni questo autore così lontano da “meccanicismi” di sorta. Dice Nancy: “La vita è una macchina di sviluppo, di mantenimento e di riproduzione delle sue capacità e caratteristiche” (Cosa resta della gratuità, 2018), il che può ricondursi a una delle preoccupazioni di Fortini (soprattutto tra gli anni ’60 e ’70 del secolo scorso) per cui il rischio della “reificazione” del mondo si svolge in contesti (intesi dal nostro come “ambienti e insiemi di determinazioni socio-culturali”) “di classe” che ci parlano di un mutamento storico ancora in atto. Sì, perché la “questione” storica va riattivata e l’eterno presente della nostra attualità è già in trasformazione, in cammino verso una nuova tensione tra passato e futuro, con uno sbilanciamento verso il secondo termine che può e deve essere re-immaginato partendo dalle capacità di immagazzinamento e archivio della memoria. La macchina potrebbe “non cantare” senza una riattivazione e una spinta “verso” da compiere attraverso un nuovo engagement.
Il nostro presente, dicevamo, è già reificato, è già “l’oggetto che ci pensa” (parafrasando un titolo di Baudrillard degli anni ’90 in cui si parla di immagine e fotografia), eppure da questa “oggettività” raggiunta, emergono nuove forme, non ancora identificate. Così, tra “formalismi e tendenze espressivistiche”, secondo una classificazione “in negativo” di William Carlos Williams (ben presente al nostro Fortini), sembrano ancora dividersi le pratiche di scrittura poetica. Tra “testualità” e “contesto” occorre si verifichi un incontro in direzione di una metatestualità che includa il mondo, da intendere, per quel che comporta la sua reificazione, come testo ulteriore, cioè come sua stessa allusione o evocazione. In questo modo il “canto della macchina” non è solo plausibile ma diventa necessario.
Fortini, a mio avviso, ha insistito su questo punto, tanto da diventare il suo lascito più attuale: la richiesta di mantenere le due istanze, la formalista e l’espressivistica, cioè FORMA e VITA in un unico ipertesto. L’abbrivo restando la reificazione e, quindi, la potenziale estraneità o inaccettabilità del mondo, solo sentendone l’effettività la poesia potrà avvertirne la necessità di trasformazione, in due direzioni: azione o rifiuto (che può interpretarsi come speranza). In buona sostanza è produttivo ancora sentire la necessità del NO. Dice infatti Fortini, seguendo Brecht: “l’utopia, l’oltranza, l’estremismo sono ineliminabili” (L’ospite ingrato, 1966). È solo ripartendo da questo NO che, però, è consapevole di una fine – quella del mondo “progressivo” – e di un inizio post-ideologico che può riattivarsi la storia. Quella di un “passato” (la forma, ciò che è formato), allora, che si “propone/oppone a un futuro” (in formazione. Fortini lo dice ne I confini della poesia, 1981) è la sfida lasciata in sospeso dal nostro. Recupero della tradizione e slancio trasformativo che possono far ripartire il mondo:

“Allora comincerò con un altro disegno 
un’altra carta, ancora una leggenda”.

(F. Fortini, Il custode, 1989)

PER UN DISCORSO PIÙ AMPIO SULLA POESIA. LETTERA DI GIANLUCA D’ANDREA A TOMMASO DI DIO

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Su Poesia del nostro tempo, una mia lettera-riflessione:

Caro Tommaso,
leggendo il tuo Piccolo discorso sulla poesia (NdR, Le parole e le cose, 4 ottobre 2019), non ho potuto fare a meno di appuntare alcune considerazioni ulteriori che tenteranno di integrare e preferibilmente rimettere in discussione quanto da te espresso.
Inizierei, pertanto, dal tuo “imbarazzo darwiniano” che, è abbastanza evidente, si appunta contro il concetto di “essenza” fissato da Aristotele e, quindi, fondante la tradizione occidentale. In particolare, Darwin, nelle sue considerazioni sul concetto di “specie” (da quanto riportato nella prima nota del tuo articolo), mette in discussione proprio i confini di “essenza” e chiama in causa le «combinazioni artificiali create per convenienza». In questo modo, sembra emergere un punto, a mio avviso decisivo, in cui la tua riflessione sembra confliggere, nonostante o perché, lo vedremo nel prosieguo, parli di trasformazioni induttive che partono dai particolari e, solo dopo ipostatizzano genealogie. La contraddizione che intravedo è proprio tra l’urgenza di innovazione metodologica (ma il “pragmatismo” darwiniano non è certo una novità, anzi, è alla base delle ideologie avanguardiste primonovecentesche) nell’inquadramento della poesia attuale e la necessità “evocativa” (quasi monstrumlovecraftiano risuscitato dalle nebbie della Storia) delle stesse genealogie. Insomma non capisco, e sarà un mio limite, la direzione che per te dovrebbe prendere lo studium della poesia oggi. Evochi, appunto, una nuova “meraviglia” e poi riporti il tutto a una necessità classificatoria. Parli di storia e pragmatismo (la testa mozzata della tradizione che converti montalianamente e che reagisce obtorto collo alla lingua aulica della tradizione) e concludi l’intero discorso sulle potenzialità immaginifiche cui l’uso dell’arte del linguaggio dovrebbe ricondurre: «Oggi dovremmo provare a ripensare la capacità della poesia di far combaciare la dimensione artistica della parola, ovvero la capacità di immaginare mondi possibili, di affidare agli uomini il sogno o il mito di un mondo che ancora non c’è, con la dimensione rituale della parola: la parola che fa realtà, psicagogica, che promette, giura che questo mondo è vero».

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Carteggio XXXVII: Dalla pura superficie alle sfumature dell’ombra – In dialogo con Guido Mazzoni per una nuova percezione di presenza

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Attesa (Foto di Gianluca D’Andrea)

Carteggio XXXVII: Dalla pura superficie alle sfumature dell’ombra – In dialogo con Guido Mazzoni per una nuova percezione di presenza
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Penso che ne La pura superficie ci sia più cattiveria esposta, l’atmosfera è condotta a temperature bassissime proprio quando si racconta tanto; il testo diventa davvero il contraltare del reale, della possibilità che quest’ultimo emerga nel suo calore.
Come ultima speranza, in tutta la potenziale scomparsa della presenza, c’è Stevens, ovvero la plausibilità oscillatoria che tutto possa ancora accadere, un pensiero che giganteggia dove il resto è clima: più o meno freddo, più o meno caldo.
La suprema finzione è la poesia cui spetta il solito, estremo – perché sempre ultimo – compito di ricomporre una nuova mitologia. «Negate tutte le grandi realtà, viviamo oggi in un groviglio di mitologie nuove e particolari […], proclamate con un’incoerenza sempre più diffusa», è proprio Stevens a chiarire nelle riflessioni contenute ne L’Angelo necessario, ed è per questo che Mazzoni sceglie questo poeta immane nella sua “coerenza” oscillatoria, per sviluppare una cornice di possibilità nel quadro desolante della nostra contemporaneità, nel suo raddoppiamento spettrale, in cui ancora può fare “eccezione” «chi dice io», cioè «il soggetto». Un soggetto che può, miracolosamente, accompagnarsi a un essere «felici di esserci ancora» e proprio nel momento più buio dell’assenza (che Mazzoni sembra voler ritardare o di cui non riesce ancora a leggere la trasformazione), quando «le parole non contano» e riappaiono in lontananza i fatti, i racconti di una nuova presenza, una resa.
Gianluca D’Andrea
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CADUTA E SCOMPARSA NELLA LEGGE

La poesia, madame, è la finzione suprema.
Prenda la legge morale e ne faccia una navata
E da questa costruisca un cielo di fantasmi.

(Wallace Stevens, Una vecchia cristiana arcigna, da Armonium, 1922)

Perché forse i princìpi sono i fantasmi delle vere responsabilità. Cioè il sogno che non può fissarsi perché è solo la soglia di una dimensione troppo intima per poter dire alcunché di generale. La cateratta dell’assoluto è il sogno di una responsabilità senza principio. Non parte e non arriva nulla quando si attraversano soglie, si è solo indirizzati a un altro piano, dislocati in altre dimensioni, più semplicemente traslocati. Un “cielo di fantasmi” sovrasta l’opera e a noi non dovrebbe restare che prendere atto della falsificazione continua cui sottoponiamo il mondo con la nostra presenza. Soltanto che il mondo non sarebbe senza questa stessa presenza. Ecco perché non è procrastinabile ri-presentarsi al mondo e dare scacco alla sua presunta verità (e un po’ alla nostra impresentabilità).
«Come un’isola avvistata in fondo a un sogno» (P. Jaccottet, Libretto, 1995, p. 29) la legge, l’accumulo immane e angosciante di tutte le norme che hanno tentato di regolare la vita sociale, puntando alla definizione della civiltà. Ma come definire, rifinire, qualcosa che si vorrebbe perfetto, lo status – l’habitus – di una convivenza irraggiungibile. Già, perché la legge rappresenta, come ingrandita, la nostra caduta nella “definizione”. Come definire la “relazione” in relazione ad azioni estemporanee, impulsive, native? Come, se non bloccando ogni transito in favore di una stasi normativa? Ecco, la legge è il fissarsi del monito, di un’attenzione, di un ricordo, dell’avvertimento che c’è qualcosa di nocivo nelle azioni, che occorre il controllo del fluire attraverso la fermezza della norma statuaria, del modello.
La più grande idea dell’uomo – che risiede ancora “in fondo a un sogno” -, almeno dell’uomo occidentale, è che di condivisibile c’è la nostra separazione all’interno di una cornice collettiva, riscritta sulla paura causata dal ricordo lontano di un primo dolore.

Caduta e scomparsa.

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UN GROVIGLIO DI MITI (estratto)

«Negate tutte le grandi realtà, viviamo oggi in un groviglio di mitologie nuove e particolari […], proclamate con un’incoerenza sempre più diffusa».

(Wallace Stevens)

Che poi è un mistero che attrae e inghiotte la scrittura. Cos’è la fine di “tutte le grandi realtà” se non la scomparsa di vecchie infrastrutture al cui posto s’innalzano i contrafforti di una possibile prospettiva sul mondo? E se sono terminate per sempre – nel senso che è continua la negazione di qualsiasi “grandeur”, si chiami anche ideologia – le grandi visioni, allora è necessario spiare lo scarto, la figura che emerge indistinta dalle macerie di una negazione.
Dal “groviglio di mitologie” emergono le figure che si fanno strada in un nuovo quadro, dipende, però, dall’immaginazione che scorge queste immagini. Si tratta di setacciare forme, interpretare concetti, tessere parole per provare a esprimere ciò che si presenta indefinito. La poesia è in cerca di una definizione irraggiungibile, per questo manifesta tracce, sagome di un reale inappropriabile.
La poesia giunge quando si arrende alla visione, per quanto molteplice, “aggrovigliata”, e prova a sondarne la coerenza. Il poeta cade dentro la visione e allora la poesia si trasforma in un mondo, il che comporta la scomparsa del soggetto, a prescindere dalla presenza o meno della prima persona, con buona pace di Aristotele.
«The dreadful sundry of this world» e non un altro (ancora Stevens), da cui non resta che cogliere “figure” per una nuova mitologia.

Nessun uomo è impossibile quando si ha a che fare con figure e parole, conta però non perdere il contatto con il reale. Non sono figure fantastiche a prodursi da uno sforzo d’immaginazione ma forme che, nel tentativo di cogliere l’attuale, transitano nella trasformazione. La scrittura poetica compone e scompone le fattezze, tenta di riattivare il senso decretandone la scomparsa.
È una specie di caduta nell’ineffabile proprio quando più forte si fa la necessità di un contatto. Una disperazione che continua a sperare nonostante l’assenza di un fine.

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INDIZI DI PRESENZE (estratto)

L’ombra (o la luce abbagliante, che non ha funzione troppo diversa) in cui sfuma il soggetto, ne definisce l’identità. Così la poesia sembra restare un intrico di tracce che prova a rispondere a quella che Wallace Stevens definì come «immane accozzaglia di questo mondo». Non si tratta semplicemente di dare un ordine al caos – azione sfasata e reazionaria rispetto ai tempi e non solo – quanto piuttosto di restituire la complessità del mondo attraverso indizi di presenza. Se il mondo è delle immagini è perché la tensione a una semplificazione del linguaggio sottende una necessità di comunicazione complessa – “relazionale” – che l’ultimo trentennio almeno (anche se il percorso ha origini sicuramente più antiche e s’intreccia al concetto di omologazione) ha, invece, appiattito sulla mera informazione. Così la comunicazione per immagini sembra essere il segnale di un tentativo di riapertura, un nuovo codice di rappresentazione, con i rischi incombenti di una pseudo-presenza, o meglio, di una presenza auto-manipolata. Lo spettro di Narciso si aggira tra stanze sempre più solitarie e rimbalza tra gli schermi contagiando e, allo stesso tempo, provocando la necessità di una fuoriuscita.

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RESA AL MONDO

«mentre la luce acceca, l’ombra rigenera».

«Il suggerimento finale, la dichiarazione finale non deve essere un’affermazione, ma piuttosto una resa».

(Jasper Johns)

La lunga riflessione sull’etica della parola nei decenni della mia formazione non interrompe il dialogo ancora dialettico tra un soggetto, talvolta ben disposto, talaltra oppositivo, e l’oggetto che cade nel suo campo d’azione. La questione dell’immersione o meno in un paesaggio che non è più tale – non è più per definizione porzione territoriale e prospettica – di un soggetto dentro un contesto (che non sia più campo d’azione), ci conduce a considerare quel «lavoro di depsicologizzazione – e anche di desoggettivazione» di cui parla François Jullien (F. Jullien, Vivere di paesaggio o l’impensato della ragione, Mimesis, Milano-Udine, 2017, p. 60).
Un’umbratile risonanza d’interiorità parrebbe scaturire dall’immersione nel contesto, dalla resa al mondo per come arriva. Un po’ come nella poesia (e forse nella creazione artistica tout court): si crea l’attesa che maturerà un prodotto una volta dimenticata tale attesa (una volta dimenticato il soggetto di percezione), quando l’io è stato inghiottito dal contesto e dalle azioni di risposta allo stesso, ecco arrivare il frutto del sentire. Non siamo esseri d’emozione, per cui è necessario accontentare ogni impulso, siamo più che altro esseri nell’emozione, immersi in una «co-originarietà» (ancora Jullien) col mondo che ci annienta in esso, e la cui ombra, l’angolo-attimo di percezione, ha l’unica valenza di rigenerare il desiderio del contatto. Una vibrazione familiare:

«La fanghiglia delle strade, con i suoi umidi barbagli nell’oscurità nebbiosa e con il contrappunto che prometteva […] formava un’armonia che egli in un certo senso conosceva a memoria. I limpidi rintocchi degli orologi delle torri, che ora incombevano sulla città, ora si sovrapponevano echeggiando in lontananza, si mescolavano alle grida acute dei giornalai in un modo strano, profondamente familiare».

(Vladimir Nabokov, La vera vita di Sebastian Knight, Adelphi, Milano, 1992, p. 51)

Carteggio XXXVI e LETTURE di Gianluca D’Andrea (21): LA NON-CASA – una risposta a Vito Bonito e alla sua lettura di “Transito all’ombra”

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S-House / Yuusuke Karasawa (particolare)

Carteggio XXXVI e LETTURA (21): LA NON-CASA – una risposta a Vito Bonito e alla sua lettura di Transito all’ombra

Il 3 gennaio 2017 Vito Bonito mi ha inviato tre foto in cui sono “registrate” le sue parole scritte “a penna” su Transito all’ombra. Quale miglior auspicio per “ricomporre” un carteggio – l’ultimo risale a luglio 2016 [qui] e parla ancora di ritorni, case, dimore e può collegarsi a quello che Cecilia Bello Minciacchi dice a proposito del “dimorare” che interessa tanto a Vito e che emerge nella sua ultima raccolta, Soffiati via, Il Ponte del Sale, Rovigo, 2015: “«nessuna dimora nessuna» (p. 66), verso ancora più asfittico, chiuso com’è nella negazione reiterata che toglie ogni speranza di rinvio o di proroga: questo significa, «con Derrida, la parola enigmatica dimora, che riconduce al latino demorari (de e morari) e a quel senso di attesa e di ritardo che si porta dentro»” (C. Bello Minciacchi, Campioni # 11. Vito M. Bonito, in Doppiozero, 07 settembre 2015).
A me non resta, allora, che continuare a riflettere sulla “NON-CASA”, riflessione che forse lega i miei pensieri a quelli di Vito, come mi è già capitato di fare in Carteggio XIX: Heimat – Stimmung (10 settembre 2014): Un “transito” che è anche un “soffio”, insomma, che può condurci alla fine di una presenza e, chissà, a un nuovo riconoscimento.
Una LETTURA, la mia, che parla di una ripetizione, ma prima ecco le foto-parole di Vito Bonito:

bonito 1

bonito 2

bonito 3

LETTURA (21): LA NON-CASA di Gianluca D’Andrea

«colui che ‘immagina’ ora diventa propriamente colui che ‘registra’, poiché, per rimanere all’altezza di se stesso, cerca di tenere il passo di ciò che ha fatto e dell’incalcolabile potere che egli ha acquisito attraverso il suo fare, potere che però lo sovrasta».

(Günther Anders)

Il potere di essere liberi di fare ci rende schiavi di questo stesso potere. Il pensiero di Anders è ripreso nel 2014 da Byung-Chul Han per il quale il potere, il poter fare, non ha limiti e paradossalmente ci costringe a fare, trasformandoci in “figuranti”, soggetti sottomessi alle dinamiche di un “potere” più strutturale di altri poteri, perché intimo, scelto (vedi Byung-Chul Han, Psicopolitica, 2016).
«Passano le figure, inseguono gli eventi» (Acquario, in Transito all’ombra, p. 47) e non trovano requie, non trovano una dimora; nel “vuoto”, eppure, risiede qualcosa, un’angoscia. Un po’ come in Heidegger, più che “fuori-da-casa”, però, l’essere è immerso in una “non-casa” che individua la nostra distanza dal contesto proprio nella nostra presenza in continuo transito, qualcosa che ci soffoca proprio quando più ampie ci sembrano le prospettive. La libertà che ci costringe a re-inventare lo spazio svuotato da responsabilità, se non le nostre: questo è un terror panico provocato, però, dalla libertà manipolatoria dell’homo technologicus che sente il peso del potere (dovere di tracciare un percorso senza fondamenti, senza una mappatura già acquisita che possa indirizzarlo. Ecco, il nostro essere senza indirizzo ci limita a una continua trasformazione («di trasporto, di trasposizione o di trasmutazione», dice Nancy in L’equivalenza delle catastrofi (dopo Fukushima), Mimesis, 2016, p. 45) con cui dobbiamo fare i conti senza possibilità di ristabilire una tregua col mondo, perché immersi, anzi compartecipi e sempre più spesso protagonisti, della sua metamorfosi.
Forse uno degli sforzi più plausibili, in questi tempi trapassati (come sempre d’altronde, è caduto anche il confine tra finito e infinito) è quello del ricordo, perché possa riverificarsi una nuova narrazione, ma anche la memoria è a rischio perché è implicita una volontà, una scelta, nel selezionare i ricordi. Forse è il momento di correre questo rischio:

«senza memoria d’immagine,
noi lontani da sempre
pronti ad abbandonare la non-casa
la certezza di affacciarsi
in altre distanze, non nostalgia
di un luogo che è lo stesso,
sempre un altro».

(Transito all’ombra, p. 29)

Carteggio XXXV: Ferita, ritorno, straniamento

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Antéchrist assis sur le Léviathan. Liber Floridus (Ghent University) 1120

di Gianluca D’Andrea

Carteggio XXXV: Ferita, ritorno, straniamento

Il suo luogo è esterno non solo rispetto alle mura della città, ma anche rispetto al suo territorio, in una terra di nessuno o nel mare».

G. Agamben

Ennesimo ritorno al non-so-mai-dove, più che una casa, abitare è un rifugio, meno di una casa, il luogo che occorre alla bestia per nascondersi nella sua ferita. Infine, amici, ci raggiungono parole troppe volte sentite, la gioia piuttosto indecisa di essere negli stessi luoghi della nascita, che un giorno rifuggiamo, un altro cerchiamo come un’avventura, una missione per salvare nel ricordo i giorni di un altro. Poi riaccade il presente, cioè l’attesa dell’incontro e della fuga, la scomparsa e l’emersione di un evento che sembrava ritardato dalla ferita, dal dolore che blocca le vicende e le raccoglie nell’intimità, negli appigli umani che ognuno crea per regalare agli altri una scarica della propria inefficienza. Che l’amore non sia altro che questa paura di una solitudine cui non si sa rispondere se non lanciando argani, àncore, macchinazioni, parole che trasportino e leghino l’altro a sé. Da qui la necessità di costruire il mostruoso e bellissimo alibi della responsabilità, costruire sul trauma fragile della partenza il viaggio della casa, il ritorno che non sarà mai, se non un’urgenza minima che poi cresce, si fa ossessione. Infine dovere, giustificazione, racconto che nei suoi particolari rende eroica la ferita e spera che nel ricordo sia più accettabile la nostra scomparsa.

(Luglio 2016)

 

Carteggio XXXIV: La noia

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In copertina: Hieronymus Bosch, Il Giardino delle delizie, particolare, 1480-1490

di Gianluca D’Andrea

Carteggio XXXIV: La noia

La noia è un caldo panno grigio, rivestito all’interno di una fodera di seta dai più smaglianti colori. In questo panno ci avvolgiamo quando sogniamo. Allora siamo di casa negli arabeschi della fodera. Ma sotto quel panno il dormiente sembra grigio e annoiato. E quando poi al risveglio vuol narrare quel che ha sognato, non comunica in genere che questa noia. E chi mai potrebbe infatti con un gesto rivoltare la fodera del tempo? Eppure ricordare dei sogni non significa altro che questo.

W. Benjamin

CERVELLO GLOBALE

Una notte immaginai
la vita. Nello schermo
vidi la mia realtà digitale
sfumare in un paradiso di pensieri.
Senza attriti, non usavo le dita
ma il desiderio, i desideri come
onde d’olio. Io era più quadri
sovrapposti e in uno si dormiva.
Nessuno ascoltava i messaggi
ma era necessario continuare
a produrli, senza sforzo.
Infine mi accorsi che anche gli altri
io dormivano allo stesso modo.
Ogni individuo era il centro – campo
o serra – di una concatenazione,
come in un immenso cervello (?).
Senza dita ero sereno
come un primate che raccoglie
da solo la sua prima banana.


E più che sereno, annoiato, cioè marchiato dall’esubero, dalla calma accomodante, ingombrante della raggiungibilità. Tocco lo schermo, la mia immagine riflessa, mi accarezzo nella distanza da me stesso. Certo, il moderno faceva i conti con l’irreversibilità, o meglio, l’impossibilità del gesto del desiderio. Il nostro tempo, invece, è già “ribaltato” nella sua posteriorità, ha esaurito la capacità del desiderio perché è in grado di “toccare” (digitare) l’immagine, il vero desiderio appunto, cioè la nostra passiva, noiosissima inconsistenza. Questo l’esubero, il tempo ha esondato dagli argini della propria fertilità, trascinando nel suo fluire una ormai inaccettabile percezione dello spazio. Non rimpiango, né ho nostalgia, per la nostra precedente individuabilità, anzi ho in odio proprio ogni presunzione individuante. Non è l’obiettivo, l’uscita al termine del labirinto, a riconoscerci in quanto liberati dalla paura del disorientamento, ma il riconoscimento all’interno dello stesso disorientamento a liberarmi da me. Eppure c’è come un risentimento che agisce su questa coscienza abbattuta, la sensazione che lasciandoci andare totalmente al flusso non si riconosca più il rischio «che noi gonfiamo e divegnamo superbi, e non ricapiendo in noi, e non essendo a’ nostri termini contenti, essondiamo» (Boccaccio), cioè ricadiamo nella nostra scomparsa. Ora, può sembrare piacevole aver “rivoltato la fodera del tempo”, ma dietro ormai non c’è un semplice arabesco ma la riproposizione del “colore” esondante il colore, un “grigio” riproposto nelle tonalità del desiderio, un’immagine che nel suo esubero, nella sua spettacolarizzazione, nella sua illusione “prensile” – digitale – ci rigetta addosso tutta l’impotenza di agire oltre il nostro riflesso, ci vomita addosso la nostra zona d’ombra, la nostra sagoma spettrale.

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Pieter Claesz, Vanitas (1630)

(Aprile 2016)

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Carteggio XXXIII: La mano di Dio – La storia dei ricordi (3ª parte)

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Richard Swarbrick, Fantasista animation – Maradona vs England (un fotogramma, 2012)

di Gianluca D’Andrea

Carteggio XXXIII: La mano di Dio – La storia dei ricordi (3ª parte)

22 giugno 1986. Campionati mondiali di calcio in Messico, la prima nazione ad ospitare la manifestazione per la seconda volta nella storia (sarebbe toccato alla Colombia, ma politica – Pastrana, M-19 –, droga e diritti televisivi, furono cause non del tutto irrilevanti dello spostamento di sede). Quarti di finale: Argentina – Inghilterra allo storico stadio “Azteca” di Città del Messico, già scenario della Partita del secolo.
Certo, allora non pensavo alle implicazioni civili di una sfida cui non ero neanche troppo interessato, ma la mia fissazione tassonomica mi portava a seguire tutte le partite del mondiale, perché creavo statistiche e mi informavo sui nomi dei giocatori per riprodurre le formazioni nelle mie sfide al Subbuteo contro gli altri bambini del condominio in cui vivevo a quei tempi. Non avevo ancora 10 anni, mi lasciavo entusiasmare dalle prodezze dei campioni e non potevo lasciarmi sfuggire le “prestazioni” calcistiche di Maradona. Come tutti sanno adesso, e con incredibile giubilo per gli spettatori che ebbero la ventura di assistere in diretta all’incontro, il “pibe de oro” non deluse le attese. Ricordo le immagini dei contrasti fra tifosi che (gli anni ottanta: il fenomeno “Hooligan” era all’ordine del giorno, anche a causa della tragica notte dell’Heysel dell’anno precedente, nonostante il termine fosse stato introdotto già negli anni sessanta per indicare la violenza dei tifosi), si diceva, non fossero dovuti a ragioni sportive, ma erano legati a un conflitto militare passato alla storia come “La guerra delle Falkland” (solo dopo scoprì l’altro nome delle isole “maluine” perché i primi a colonizzarle, con ogni probabilità, furono dei francesi di Saint-Malo nel 1763), di cui non m’importava molto, perché tutta la mia concentrazione era indirizzata alla partita, anche per smaltire la delusione di 5 giorni prima per l’eliminazione dell’Italia da parte della Francia dell’amato Platini. Non ho memoria dello svolgimento dell’incontro tranne che per i due eventi “eccezionali” che si verificarono ai minuti 51 e 54.

Min. 51: Un rimpallo al limite dell’area inglese si trasforma in un assist, sulla palla si avventa Maradona che riesce ad anticipare il portiere Shilton, insaccando. La moviola rese evidente il tocco di mano beffardo del fuoriclasse argentino ed io ero esterrefatto per l’approvazione di quella che ritenevo un’ingiustizia. Non avrei mai potuto comprendere il sentimento e l’ambizione buttati in campo per raggiungere un risultato. Io che vivevo nella semioscura condizione infantile, nella nebbia delle regole educative somministrate con pazienza e perizia dalla mia borghese famiglia (e buona-buonista) e, d’altronde, gli unici personaggi politici che conoscevo erano Reagan, la Thatcher e il Pertini dei mondiali precedenti, non il partigiano, anche perché la Tv di Stato ce li somministrava a profusione. Che ne sapevo di comunismo e liberismo e capitalismo, che ne sapevo di economia e rapina, per questo, forse, la “rapina” di Maradona si è insinuata nella mia coscienza a un livello ben più profondo di quanto potessi immaginare, finché, ai tempi del liceo, cominciai a capire anche l’avidità che a volte muove l’ambizione, il versante fosco della realizzazione personale, la sfumatura impossibile da comprendere tra bene e male. Sono siciliano e ho vissuto gli anni della mia formazione in un crogiolo di contrasti, una sorta di “barocco” esistenziale che non collimava con la mia educazione televisivo-borghese (i pomeriggi della prima infanzia davanti a Bim Bum Bam), in poche parole non capivo il lato oscuro dell’Isola, non del tutto infecondo, se lo guardo in retrospettiva e confrontandolo con la voglia di emergere, con l’ambizione di cui prima. Maradona di Villa Fiorito, simbolo del Napoli Calcio, dell’Argentina e delle contraddizioni che, almeno a quei tempi – e chi dice non anche adesso -, stigmatizzavano il sud del mondo.

Min. 54: una serie di passaggi argentini all’altezza della linea di metà campo, la palla giunge a Maradona che incomincia a roteare su se stesso (la “veronica”, parola che proviene dal gergo della corrida di cui non sapevo e che, in quel momento non riuscì a percepire nella sua bellezza; solo con Zidane incominciai a capirne il valore e l’efficacia) e parte verso la metà campo avversaria. I giocatori inglesi sembrano dissolversi, l’occhio può seguire a stento la corsa del fuoriclasse argentino per giungere al vuoto della conclusione e all’entusiasmo per aver assistito a qualcosa di esasperante nella sua irripetibilità. Il gesto nello sport termina in un’ulteriore attesa, questo aspetto narcotico della successione che vibra nel breve istante in cui si realizza un obiettivo. Nell’azione di Maradona non contava il risultato, a impressionarmi, ma lo riconobbi solo tanti anni dopo, era stato il ritmo della progressione. Ho immaginato il respiro di Maradona, la spinta quasi inesistente, un’apnea che ritaglia il tempo fino all’esultanza.

Ancora dopo pensavo alle macchie che emersero dall’esplosione di quella luce e che la mano del minuto 51 aveva preannunciato. La droga, i complotti, il doping, i figli illegittimi e quant’altro.
Il 1986 si era aperto con l’esplosione dello Space Shuttle, passando per Cernobyl si era giunti a Reykjavík e alla “mucca pazza”. Si chiudeva un altro anno terribile, archiviato nella memoria ma riattivabile grazie alla furbizia folle di un calciatore, o meglio, alle conseguenze di gesti comuni come il salto e la corsa mossi, però, da una non del tutto identificabile emergenza.

(Ottobre-Novembre 2015)

Carteggio XXXI – Nuovi giorni (riflessioni poetiche)

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Incisioni rupestri sul Lago di Garda

di Gianluca D’Andrea

Nuovi giorni (riflessioni poetiche)

Una necessità di scambio questa mi spinge a concludere l’anno con uno scambio epistolare che è anche, e soprattutto, una discussione sulla poesia. Ringrazio Yari Bernasconi che ha trasformato una mia recensione, non proprio positiva, al suo Nuovi giorni di polvere (vedi qui) in una veramente “nuova” possibilità di scambio.  Il post si apre con un componimento in forma di lettera, una risposta che Yari ha sentito di inviarmi per chiarire alcune sue perplessità sulla mia lettura del suo libro. Riconosco, grazie ai suoi interventi – qui riportati, oltre alla poesia, preferisco inserire anche il testo della mail che l’accompagna – la mia, a volte necessaria, altre esagerata, esaltazione critica. Comprendo che non ci siano certezze assolute, ma è anche vero che una direzione il critico deve rischiarla, altrimenti la lettura di un libro – e il libro stesso, nonché quello che può rappresentare – scompare nel turbine senza attrito dei così necessari oggigiorno, ma non fondanti, “mi piace”/”non mi piace”. La mia lettura cercava di focalizzare alcuni aspetti della tradizione poetica del recente passato, il tipo di reazione che scatena lo studio approfondito di quella, e lo slancio linguistico che ne può derivare. Passato-presente-futuro si coagulano in un tempo diverso che necessita di un suo linguaggio. Siamo qui e proviamo a sentirlo il tempo, a intuire una direzione che non sia solo legata al momento ma costruisca una prospettiva. Yari mi ha suggerito la sua considerazione del passato, la funzione “progressiva” che ne emerge non può che trovarmi concorde, dico infatti questo nella mia recensione: «Ciò che è avvenuto è causa diretta di ciò che avviene, in una progressione abbastanza lineare degli eventi e delle esperienze compiute in cui risulti più facile un orientamento nel presente».
Si ragionava, inoltre, sui luoghi in cui nasce la scrittura poetica. Nella mia lettura ho detto di una Svizzera “chiusa”, ma riflettevo partendo da un luogo comune per arrivare a una considerazione sul carattere di una conformazione geografica e di conseguenza storico-politica, in questi termini, a mio avviso, una risultante linguistica: «Non è mia intenzione scadere in generalizzazioni “nazionalistiche”, è pur vero, però, che dentro la neutralizzazione degli eventi può nascondersi una voragine di colpa e proprio nella modalità del distanziamento dello sguardo che diventa habitus, cambiando la prospettiva del soggetto. Così l’allontanamento imposto dalla storia, una specie di oltre-confine (non saprei come altro definirlo), sembra condurre nel cuore dell’agone, ed è cruccio per Bernasconi, che è l’attraversamento». E infatti cercavo di dire l’attraversamento linguistico in atto, per Yari, come per uno dei suoi riferimenti più stretti, Fabio Pusterla (del quale inserisco la recensione, molto più positiva della mia, dedicata al libro di Bernasconi), questo attraversamento è in corso, per me è avvenuto e vive nella deformazione: del concetto di poesia, ma su questo c’è accordo, infatti gli strumenti e le fonti delle cose poetiche sono svariati ma anche sempre più concentrati sulle nuove strumentazioni tecnologiche (molti testi nascono da ricerche internettiane o dai nuovi metodi di socializzazione informatica); dell’etica, che richiede pudore ma anche una forza che queste parole di Yari sembrano trascurare: «Ogni volta mi interrogo su come posso “dire” meglio la realtà. Credo insomma in una riflessione continua e non in un programma o un approccio programmatico. E sono quindi contro “il dovere di sperimentare un nuovo cammino”: primo perché, come dicevo, ogni volta che si prende la responsabilità di scrivere bisogna ricominciare a interrogarsi sul “come”; secondo perché il linguaggio, come la letteratura, non deve, ma può. Il momento in cui la letteratura deve comunicare o fare qualcosa perde ai miei occhi quasi tutto il suo valore». Dicevo di una “forza” in cui il dovere di rischiare una posizione si lega alla necessità di orientamento che il nostro tempo ci chiede (non per niente uno dei crucci dei primi anni del nuovo millennio, un lamento costante, è la “scomparsa” della critica, una volta militante, oggi quantomeno resistente). Ecco perché le intenzioni linguistiche di Yari, rispettabilissime nel tentativo di resistenza, non sono sufficienti, ed è proprio il “come” si può scrivere a richiedere il dovere di riscrivere il proprio tempo. Per quanto non creda neppure io alle valenze metafisiche del senso – questo l’opposto dell’aderenza al reale reclamato da Bernasconi – né alla vecchissima tradizioni lirica che ne è conseguenza, ribadisco che il soggetto non può sopravvivere nella rinuncia a dire di più per non perdere aderenza con la sua riduzione a cosa tra le cose, perché la scrittura non sia solo accettazione e pudore, ma anche risposta e forzatura del dato, non solo gentilezza ma agonismo, attrito.

Gianluca D’Andrea


Di seguito, in ordine: la lettera/poesia e la risposta via mail di Yari Bernasconi; la recensione di Fabio Pusterla a Nuovi giorni di polvere.

***

Breve lettera a Gianluca

Gianluca, queste pietre sono anche nostre,
sono adesso e qui intorno. Segnano strade
che forse ignoreremo, ma ci sono.
Il foglio non è mai soltanto bianco.

(I ragni e gli insetti si muovono sulle pareti,
con invisibili fili e battaglie.)

Neppure c’è un ritorno che valga una partenza:
c’è l’andare incostante e poco altro.
Cosa vuol dire Svizzera? Le frontiere
sono un luogo ogni giorno più comune,
meglio ascoltare cosa pulsa davvero.
Cercare di volta in volta le parole meno sbagliate
senza doveri o fedeltà.

***

Caro Gianluca,
eccomi qui con la breve lettera in versi. Per me è importante che tu l’abbia.
Nel dettaglio, sono tre i punti che mi sembra di non condividere, o che forse sono solo al centro di un malinteso. Il primo riguarda la memoria, lo “storicismo” e la “cura e salvaguardia” dei reperti; in realtà, sono cose che mi interessano soltanto nella considerazione seguente: non esiste la tabula rasa. Il nostro presente e il nostro futuro prendono forma su tracce esistenti, indipendentemente dalla strada che si sceglie di percorrere. Il passato in sé, quindi, non mi interessa proprio; sottolineo però appena posso che le decisioni prese per il presente e il futuro non devono ignorare (o peggio, far finta di ignorare) il passato e i suoi residui. In poche parole, l’esposizione museale mi lascia del tutto indifferente se è fine a sé stessa, se non ha un collegamento diretto con il presente, con la vita. Non so se mi spiego.
Il secondo punto riguarda la Svizzera. Ma qui è una semplice questione biografica: sono nato in Svizzera ma ho il doppio passaporto (italiano e svizzero, appunto). Mia madre, ligure, fa parte di quella generazione di migranti che è arrivata in Svizzera all’inizio degli anni ’60 (ti tralascio storie tristi che forse già conosci sull’accoglienza ricevuta). Questo per dire che la mia condizione ha certo dei privilegi, ma non credo siano quelli che indichi tu (penso per esempio all’atteggiamento “borghese”). Forse anche per questo sono sì cresciuto in Ticino, ma poi già a 19 anni sono partito per la Svizzera francese e ora vivo nella Svizzera tedesca. Come cerco di spiegare nel libro, non credo molto nell’appartenenza a un luogo (che infatti non saprei indicare); se mai, a più luoghi, a una “geografia mobile” (e comunque la Svizzera è molto più mobile e diversificata di quanto si pensi, malgrado i tanti clichés o luoghi comuni). E quando mi permetto di parlare di emarginazione, migrazione, incomprensioni sociali, lo faccio perché (direttamente o indirettamente) mi riguardano da vicino.
Il terzo e ultimo punto riguarda il linguaggio. Non so come procedi tu, quando scrivi, ma per quanto mi riguarda la scelta della forma, come la scelta delle parole, è ogni volta una storia nuova. Ogni volta mi interrogo su come posso “dire” meglio la realtà. Credo insomma in una riflessione continua e non in un programma o un approccio programmatico. E sono quindi contro “il dovere di sperimentare un nuovo cammino”: primo perché, come dicevo, ogni volta che si prende la responsabilità di scrivere bisogna ricominciare a interrogarsi sul “come”; secondo perché il linguaggio, come la letteratura, non deve, ma può. Il momento in cui la letteratura deve comunicare o fare qualcosa perde ai miei occhi quasi tutto il suo valore.
Scusa per il pippone. In realtà, non è detto che le nostre posizioni siano così lontane. Ma ci tenevo a risponderti, così come desidero che tu abbia la poesia che ti allego. Del resto, il tuo è un bel testo, ricco di spunti e anche di parole gentili: se ti scrivo è anche per questo.
Ti abbraccio, ringraziandoti ancora.

Yari

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Fabio Pusterla

Recensione a Yari Bernasconi, Nuovi giorni di polvere, Casagrande, Bellinzona, 2015 (apparsa su viceversa letteratura, 16/11/2015)

La raccolta poetica di Yari Bernasconi si apre e si chiude in modo speculare, su un paesaggio di rovine e di abbandono. Il primo verso, che inaugura il libro ma schiude anche il recitativo della Lettera da Dejevo, suona infatti come un condensato di motivi destinati ad essere svolti lungo tutta l’opera: «Dice che abbandonando i caseggiati / avevano rotto tutto, i russi»; mentre la clausola del conclusivo Un commiato, che fa risuonare l’ultima nota di questi Nuovi giorni di polvere, mette in campo un’altra forma di abbandono, memoriale e esistenziale, con cui l’io si congeda: «Perdona se non tornerò in quello spazio /perenne».
E a ben guardare il dialogo a distanza tra incipit e explicit è dominato dalla duplice figura del tu, subito chiamato in causa all’inizio, e dell’io, cui spetta invece l’ultima parola e l’ultima scelta. Proprio in questa dinamica mi pare si possa cogliere un tratto significativo e notevole dell’opera: perché tanto il tu quanto l’io di questo libro raccolgono in sé l’eredità di una lunga tradizione poetica, eppure la modificano radicalmente. Intanto, la figura dominante, in buona parte del volume, è proprio quella del tu, rispetto alla quale l’io tende a ridursi a mero ricettore, orecchio che ascolta o occhio che guarda, ora sgomento ora come impossibilitato a condividere fino in fondo, a rivivere fino in fondo, l’orrida eppure vive realtà che il tu gli rivela (ed ecco un altro motivo ricorrente: l’inanità dell’io, la sua estraneità ai fatti). In questo senso, quel dici iniziale è gravido di conseguenze, se sposta la barra nel campo del tu, affidandogli la responsabilità dell’esplorazione: siamo agli antipodi rispetto alla dorsale della grande poesia novecentesca, che dal Taci dannunziano al Tu non ricordi la casa dei doganieri montaliano affidava all’io il compito di parlare, e di evocare un tu spesso assente o lontano. Qui, al contrario, l’io si ritrae, si rattrappisce, e si affida alle rivelazioni del tu, si lascia condurre dal tu lungo un viaggio quasi infernale attraverso gli orrori e i disastri che costellano la realtà, una realtà stratificata in cui la Storia ha lasciato le sue cicatrici immedicabili.
Dall’Estonia lacerata alla lunga striscia di morti sul lavoro del Gottardo, dalle emersioni di un avvenuto orrore quasi eugenetico in Svizzera alle falde infuocate del vulcano Merapi, alla peregrinazione infine sulle lande irlandesi o nei paesaggi italo-svizzeri: ovunque un tu cangiante e implacabile indica gli indizi della devastazione; ma una devastazione già data, già consumata e già vissuta, che l’io può certo registrare ma forse non fare propria fino in fondo; e anche in questa impossibilità e attonita estraneità risiede un’aggravante che motiva il titolo terribile della seconda sezione: Non è vero che saremo perdonati. Titolo fortiniano, come già osservava Uberto Motta nell’ottima introduzione all’Undicesimo quaderno italiano, rivelando la poesia di Bernasconi ai lettori italiani, che spazza via ogni troppo facile ipotesi consolatoria o salvifica. Non saremo perdonati, no: non solo per ciò che è stato fatto prima o al di fuori di noi, ma forse anche e soprattutto per la nostra disattenzione, per il nostro venire dopo, a cose fatte e a tortura avvenuta: «Se c’è qualcosa di vero è già sbiadito, già trascorso», dice il verso ultimo di Galway. E del resto, come è inevitabile, gli «elementi del disastro» giungono all’io di sbieco, mediati; proprio come la memoria di quei morti del San Gottardo già calcinati nel passato viene attivata dalla contemplazione delle sculture di Vincenzo Vela. Corre così, lungo tutto il libro, un senso di incredulità, e insieme la difficoltà di vivere pienamente l’oggi nella coscienza stranita di ciò che prima di oggi è esploso. La vraie vie est ailleurs: dichiarazione rischiosa di Rimbaud, di cui forse si coglie qui a tratti l’ultima trasformazione, un’ultima tentazione.
Un giovane critico e poeta italiano, Gianluca D’Andrea, ha osservato recentemente, recensendo il volume, che in Yari Bernasconi giocherebbe anche un’altra modulazione della colpa, cioè il suo/nostro porsi, in quanto privilegiati abitanti di un paese rimasto ai margini degli orrori, come testimone non partecipe, apparentemente innocente e per questo forse tanto più colpevole. Non si può escludere che un simile elemento abbia qualche importanza del mondo che il poeta sta mettendo in scena per i suoi lettori; ma si ha l’impressione che la variante temporale sia più significativa di quella geopolitica, e che lo stato d’animo prevalente nei Nuovi giorni di polvere sia lo straniato sentimento di fuoriuscita da un Novecento terribile e pulsante, rispetto al quale i nuovi giorni ancora non sanno assumere o proporre una dignità e una verità, e ci condannino ad un percorso di smarrimento e d’incertezza; senza assurdi rimpianti, ma anche senza reali prospettive. «La condizione dell’inerme come postulato fondamentale» diceva Uberto Motta, con esattezza; e forse anche del disperso, si potrebbe aggiungere, se l’evidenza dell’estraneità si insinua anche nei luoghi più conosciuti, nelle situazioni più familiari: «Questo paese di campane e di lago, / così sofferente al silenzio di chi vive, / così schiacciato da questo monte flaccido / e lento: mi sembra di non averci mai vissuto, / ma di averlo attraversato distratto, poche volte, / come si fa con la nebbia o con la pioggia» (Trittico per un paesaggio).
Sul piano formale, tutto questo si traduce in una secca, nitida, tendenzialmente distaccata pronuncia delle cose: la parola esatta, la tessitura del verso e della strofa, tutto porta con sé, ancora una volta, la coscienza e la conoscenza della grande tradizione (e basterà fare il nome dall’autore più intensamente studiato e attraversato da Yari Bernasconi, ossia Giorgio Orelli, la cui perizia espressiva ha certo nutrito profondamente questa poesia, nell’attenzione minuziosa alla lettera e al necessario rapporto intimo tra suono e senso), ma piegandola impercettibilmente verso lo stridore, l’attrito; verso la polvere del titolo, che si insinua caparbia, oltre che nei giorni, anche nelle maglie della scrittura. Il lettore ne potrà agevolmente seguire, tanto nelle immagini quanto negli effetti ritmici, la presenza costante, che in Una poesia per la galleria ferroviaria del San Gottardo diventa addirittura condizione esistenziale: «Manca la luce e ne soffriamo. Non tanto sotto, / in questo esofago di terra, ma sopra, all’aria, / quando si esce dal buco e il grigiore del cielo / si accascia sul profilo delle montagne, il sole / si rabbuia nel ricordo ostentato di qualcosa di più, / qualcosa di diverso. Una speranza, sì: la speranza / rifiutata, respinta giorno dopo giorno». Insomma, in questo notevole libro d’esordio, che è subito stato notato e giustamente apprezzato dalla critica, si può forse anche scorgere il territorio, faticoso e non ancora esattamente definito, di una transizione, di un mutamento in atto; per il momento, tradizione e novità, modelli di riferimento e intuizione di altri modi di essere e di intendere la poesia, si parlano con cautela, guardinghi, incerti tra l’alleanza, che per ora prevale, e il combattimento, o per lo meno il distacco, che a tratti fa capolino; ma si sente già la presenza di una voce vera, originale, che in futuro dovrà e potrà ulteriormente affinarsi e svilupparsi per giungere alla sua pienezza espressiva.

(Dicembre 2015)

 

Carteggio XXX – 12 e 13 settembre 2015, di passaggio a Mantova (Festivaletteratura)

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di Gianluca D’Andrea

12 e 13 settembre di passaggio a Mantova

Per Fabio e Claudia

festivaletteratura-2015

Strano come gli incontri con le parole possano espandere il contatto, spingendosi nella carne partendo dal racconto.
L’insegnamento di chi con il linguaggio ha costruito un rapporto che origina dall’umiltà, dalla necessità di conservare del nome l’indicazione in direzione d’altro: un luogo, un’esperienza, un momento che nel passaggio più che perdere la realtà, provano a conservarla, a darne memoria presentandosi apertamente all’altro, lettore o ascoltatore che sia.
Del Festivaletteratura di Mantova, tenutosi in questi giorni di settembre, sono i gesti che accompagnano le parole a restare.
Lo scambio di consigli tra genitori di generazioni diverse durante una cena gentile: mia figlia che cambia nome, da Sofia a Giuseppina, perché la confidenza e la serenità del contatto muta il “vero” in una nuova verità, di passaggio quanto basta a costruire la favola del momento, la parola del gioco. Io è niente proprio nella ricchezza che la trasformazione consente in questi passaggi rivelatori, di travaso tra gli individui, ed è per questo che ancora parliamo di miti e nuove forme di rappresentazione del mondo.
Dai momenti condivisi, poi, ognuno torna a sé riformulando ipotesi d’immagini, deformazioni dell’esperienza appena acquisita. Dopo la scossa del mutamento tentiamo di “centrare” le parole e organizzarle in un nuovo racconto fino al prossimo incontro, per descrivere timore e cura, la curiosità sofferente del mondo.

(Settembre 2015)

Carteggio XXIX: Ritorno (?) o altra memoria

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Lucio Fontana, Concetto Spaziale, Attese, 1965 (Photo: Sotheby’s)

di Gianluca D’Andrea

Questa è un’immagine – non un testo – della memoria. Altro 25 aprile, altro.

Ritorno (?)

Ancora oggi? Per questo mi disoriento, ogni statistica giornaliera torna a zero, grandine, muoiono i tempi nelle ore di transito e perdo ogni giorno.
Nessuna foto? un poeta che legge alla festa del libro, oh liberazione, mentre la nazione festeggia per festeggiare, a passeggio, sono lette cose per gioco, per nessuno.
Le statistiche incombono su idee illusorie di crescite e nuovo sviluppo, quantità da ridistribuire in reti, in collegamenti da spedire attraverso contenitori automatici, numerosi.
La virtù è un ritorno continuo, un rimando, una crepa, mentre salgo (nello spazio, fuori del tempo), ah la Verna (sull’Adda)! che sia la fine di ogni pellegrinaggio è escluso nonostante le cataratte deflagrino in mani che emergono dai mari – ma il racconto, qui, finge la sua apocalissi.
Eppure la terra è statica in milioni di anni senza noi, ci raggiunge e vomita.
Sibilo della fine e resistenza, un filo che passa e non cuce questi laghi, la Val d’Aosta, il cammino che si sposta un po’ più in alto dei suoi passi, non reggo l’impercettibile inaderenza alle origini che chiama e frulla i ricordi.
O ritorno, o Beatrice che spieghi le lune al pellegrino, la mia navicella percepisce, ma alla lontana, il piccolo fruscio – sarà un boato? – della cascata.
Salgo.

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Paradiso, Canto II. Dante and Beatrice observe the moon and Cancer

NOTE

Durante la composizione hanno agito due ricordi letterari:

La Verna di Dino Campana (cui si deve anche il titolo in riferimento al primo testo di quella sezione dei Canti orfici) e il secondo canto del Paradiso, in cui Beatrice prova a spiegare al pellegrino l’origine metafisica – o immaginifica – delle macchie lunari.

(Aprile 2015)