Poeti italiani (13) – Spazio inediti: Gabriel Del Sarto

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Gabriel Del Sarto

di Gianluca D’Andrea

Poeti italiani (13) – Spazio inediti: Gabriel Del Sarto

Il tempo e la vita

Quando di nuovo abbiamo parlato di quel giorno
l’acqua mista al sangue – ti ascoltavo
e immaginavo il ferro e l’ossigeno
nelle emoglobine, il destino cambiare – e il dolore
che niente ha cancellato, ho saputo
come la natura si concentri nel tempo
di ciascuno: un’assoluta
ed armonica compossibilità di volti
e sofferenza.
…………   (Esiste quasi
da sempre anche l’Anticlinale,
…………………………è una piega
delle rocce, una struttura
dove gli strati sono convessi
verso l’alto e puoi trovare, dicono,
dal basso a salire, l’acqua
che satura tutti i pori, gli idrocarburi liquidi, il gas
che si accumula all’apice della piega. Ancora
azioni e parole. La contraddizione
che governa ogni cosa.)

Ogni tanto ancora un cenno. Fa parte
di noi, di questa storia ricordata.
Può bastare un articolo o un post
in rete letto a voce alta dentro
le stanze che abitiamo, il silenzio
dopo, uno sguardo al posto di ogni cosa,
leggere contrazioni, siamo noi,
è la vita, quando la prima morte
è quella della parola che manca.

(da Il grande innocente, Aragno, Torino, 2017)


È subito in scena un dialogo in questo testo d’esordio dell’ultima raccolta di Gabriel Del Sarto. In tutto Il grande innocente – ho avuto modo di parlarne in maniera più diffusa qui – il pathos del linguaggio si scontra con la «compossibilità» di relazioni non più mediate da alcuna sovrastruttura, per cui l’Io (il soggetto, il “primo rispetto ai concetti”, nell’interpretazione deleuziana di Benveniste), linguisticamente si pone come intermediario del rapporto e, quindi, strategicamente “dentro” un senso. Tale posizione del soggetto non è più marginale ma interrelata e in “ascolto”: «ti ascoltavo / e immaginavo».
Sin da questo punto testuale s’intravede una rinnovata fiducia, perché l’ascolto dell’altro (reale, cioè dentro il piano dove scorre il linguaggio, in un avvallamento) “cambia” il destino – particolare – dell’interlocutore, suscitando un percorso immaginifico. Ognuno è qualcosa (aliquid, il banale che non poggia su alcuna infrastruttura che non sia il linguaggio) con un senso. La forzatura che intromette questa diversa dimensione del tempo testuale è strategica, dicevamo, in funzione di una poetica, non so quanto consapevole, dell’accostamento. Accostamento che, però, non colma il “mancamento” del senso, ma si lascia trasportare dalla necessità del racconto, senza affabulare, senza fingere una mitologia che blocchi nuovamente la parola alla sola ricezione passiva, ma, al contrario, riattivi costantemente «la vita, quando la prima morte / è quella della parola che manca».


Tema della voce

Ecco il mondo, e questa è una città, questa una bambola
che soffre il mal di gola. Potremmo insieme
offrirle della gommose alla menta, che poi
finirai tu, sul divano o nel letto
di quella camera d’albergo davanti alla stazione.

Può bastare il cammino che abbiamo percorso
fra le calli di Venezia dopo Natale
per osservare i volti, alcuni acuti, e capirne in silenzio
le pedagogie assolute. Le parli
e la bambola smette di tossire. Ecco un’altra
città, un mondo già diverso, proprio quando scende
la sera.
———-– Ricordo il dolore di portarti sulle spalle
e poi te sotto al letto con un libro.

Possiamo farlo: l’esercizio
di un’estensione della luna, a due voci,
su un mondo scollato, un puzzle
senza ribellione – e poi tornare
al nostro abbraccio, al calore della spalla
solo tua, a te, sotto il letto, con un libro,
che disegni quello che siamo
nella tua mente contorni
di alberi, rami di queste parole.

(Inedito)


Il dialogo, con l’acquisizione della prima persona plurale, il noi che emerge come una neo-formazione dal testo pubblicato, manifesta un accostamento più profondo in questo inedito.
Intanto, la voce narrante è uguale a quella che nel precedente componimento stava in ascolto (l’Io è ancora «primo, perché fa iniziare la parola», direbbe Deleuze). Questa stessa voce presenta adesso il suo racconto a un essere (nessuna entità, ma «l’essere come verbo “essere”» seguendo Nancy) evidentemente più “piccolo”, in fase di crescita (i referenti sono evidenti e non nascondono, semmai velano di pudore: «bambola», «gommose alla menta», ecc.). Quella che viene raccontata è la storia di «un mondo già diverso», un mondo in trasformazione nel suo essere la stessa trasformazione, senza trascendenze, ma nell’evidenza che si può essere «insieme» in un’offerta di sé che arricchisce il soggetto che si dis-pone all’altro.
Sul piano del linguaggio, però, questa commistione (la «compossibilità» del testo precedente “concretata” in questo inedito) ha bisogno – ancora necessità, e, quindi, evento puro – di uno slittamento di senso (nel caso specifico del testo, il soggetto delega al suo oggetto, il “tu” rimpicciolito – quasi forma desiderante del soggetto stesso – la scoperta di un nuovo linguaggio). Per questo dall’«abbraccio» l’essere si distanzia, per ritrovare quella “vacanza” di senso, appunto, che permette di disegnare “nuovamente” «quello che siamo»: «contorni / di alberi, rami di queste parole», cioè un’altra lingua rinnovata nella continuità che, incessantemente, si sviluppa.

(Ottobre 2017)


Gabriel Del Sarto (1972) ha pubblicato le raccolte poetiche I viali (2003), Sul vuoto (2011, Premio Apuane 2015 e finalista Premio Carducci 2013), Il grande innocente (2017) ed è presente in diverse antologie fra cui L’opera comune (1999) e Nuovissima poesia italiana (2004). È autore di saggi sull’uso della narrazione nelle pratiche educative, fra cui Raccontare storie (con Federico Batini, 2007) e In un inizio di mattina (2012). Sue poesie sono tradotte in portoghese e spagnolo.

Spazio Inediti (22): Gabriele Belletti – di Gianluca D’Andrea

belletti

Gabriele Belletti

di Gianluca D’Andrea

Spazio inediti (22): Gabriele Belletti

22 mars 2016

Stéphanie lavora a cinquanta metri
dall’esplosione avvenuta nella metro.
Cindia arriva in ritardo
per i posti di blocco all’aeroporto.
Maureen dice che son amie était
dans le train précédent.
Isabelle è tornata a Bruxelles
chercher son fils immédiatement.

I miei studenti sono vivi.

*

Донецьк

Guarda le mie farfalle!
Ridono a crepapelle
anche se cadono
le bombe.

Su un foglio arraffato
sono state avvisate
e fuggono nel cielo
di un altro stato.

Il mondo per la bambina
è luogo solo
da immaginare
prima di essere
conosciuto

e anche se nel bunker
i rimbombi
dicono altro

il suo mondo
è più forte
e volare
è volare alto.


maelbeck

La fermata della metro Maelbeek a più di un mese dall’attentato (Fonte: Corriere della Sera)

Scelgo due inediti, dalla serie di  quattro, inviati da Gabriele Belletti. Li scelgo perché trovo una consonanza d’intenti e una compartecipazione “civile” (termine da considerare con ogni precauzione) che non trova riscontro in molta altra poesia contemporanea. Ma questa apertura al mondo è oggi più che mai un’inesorabile necessità che Belletti sembra avvertire senza ambiguità, con un approccio intenso e allo stesso tempo vibratile, senza toni assertivi o moralismi.
Una capacità di compenetrare gli eventi che, nel primo testo, 22 mars 2016, prende avvio da testimonianze dirette degli attentati di Bruxelles fatte da persone comuni – forse conoscenti dello stesso autore che, lo ricordiamo, vive in Belgio – manifestando più che un clima di tensione, l’urgenza per le condizioni dei propri cari. In questo approccio dal basso si divarica lo spazio tra prossimità e distanza: tutti, autore compreso, dopo i fatti sono attratti e indirizzati da un impulso di protezione verso il circuito della propria esistenza, i fatti “immani” della storia sfumano in secondo piano, una cornice di drammaticità che si ossida sulle parole dell’apprensione. E il modo di esprimere quest’apprensione si riduce a poche frasi, le più urgenti, mentre il mondo incombe dallo spazio spettrale aperto dal titolo ma abbandonato fuori testo.
Drammaticità, dicevamo, così in Donec’k, si verifica lo stesso slittamento di visuale per cui la vicenda della città bombardata durante la crisi dell’Ucraina orientale del 2014-2015, è sospinta sullo sfondo di una rappresentazione ancora “comune”. La bambina del testo è presentata in un’attività consueta in cui l’immaginazione, però, diventa l’indizio epifanico di un vero stravolgimento. Difficile, infatti, non cogliere il salto associativo nella “caduta delle bombe” da un lato e “il volare alto” della conclusione. In quest’attimo di rinascita nella distruzione si gioca, con ogni probabilità, il fulcro della cifra stilistica di Belletti – cifra stilistica che emergeva già nella raccolta del 2015, Krill, cui si rimanda [qui] – per il quale la consapevolezza del male della Storia non trascura mai di ricordare la nostra fragilità e, allo stesso tempo, la nostra capacità di rigenerazione.


Gabriele Belletti (1980) è originario di Santarcangelo di Romagna. Si è laureato in filosofia all’Università di Bologna con una tesi sull’estetica di Luciano Anceschi. Ha pubblicato articoli su rivista («Chroniques italiennes»,«Poetiche»,«Rivista di studi italiani») e due plaquette di poesia, Condominio (Cierre Grafica, Verona, 2010) e Beaujoire (Caratteri Mobili, Bari, 2013). Nel 2015 è uscita per Marcos y Marcos la sua prima raccolta, Krill.

Spazio Inediti (21): Marco Corsi – di Gianluca D’Andrea

marco corsi

Marco Corsi

di Gianluca D’Andrea

Spazio Inediti (23): Marco Corsi

i più deserti, i più desiderati spazi,
la tua piccola vita pelosa
che tenevi tra le mani come un dono
e avevi messo al mondo dimenticando
qualunque forma di sorveglianza,
nei casi sottili occorsi
in cinquanta metri calpestabili
di appartamento più servizi,
pertinenze varie, ossa e cielo.


Georgia O_Keeffe, Pelvis II, 1944

Georgia O’Keeffe, Pelvis II, 1944

È grazia nel disastro questo movimento che Marco Corsi offre per la rubrica “Spazio Inediti”. Il dono di una nascita forse incustodibile perché diméntica di ogni «forma di sorveglianza», in un linguaggio piano, comune, si esplicita la “casualità” di un’esistenza, di ogni esistenza. La “genericità” di quella «vita pelosa» tenuta ma inappropriabile, la cui presenza si forma tra desideri, forse immani – «i più deserti, i più desiderati spazi» – e le “pertinenze”, le necessità quotidiane che chiudono il testo; la ri-caduta attraverso l’evenienza della nascita improvvisa, pur ristabilendo un contatto col reale, continua a manifestare la spinta del desiderio. «Ossa e cielo» s’incontrano in un luogo comune (i «cinquanta metri calpestabili / di appartamento più servizi») ma rilanciano l’assunto rigenerante del desiderio (il “cielo” come orizzonte d’apertura, quasi ossimorica se si pensa alla scarnificazione cui rimanda “ossa”). Nel duro passaggio alla maturazione occorre impegnarsi a ricomporre i «casi sottili occorsi», il mero fatto che, anche se inizialmente divaricato tra puro desiderio e contingenza inibente, riassorbe le potenzialità ri-creanti di una parola che sempre si muove tra “ossa e cielo”.


Marco Corsi (1985), ha conseguito il titolo di dottore di ricerca in italianistica presso l’Università di Firenze nell’aprile 2013 e attualmente si occupa di editoria. Ha pubblicato saggi dedicati a diversi poeti italiani contemporanei e una monografia sull’opera di Biancamaria Frabotta. Nel 2011 ha pubblicato la sua prima raccolta, L’inverno del geco (Gazebo). Nel 2015 suoi testi sono inclusi nel XII quaderno italiano di poesia contemporanea (Marcos y Marcos).

Poeti italiani (12) – Spazio inediti: Fabiano Alborghetti

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Fabiano Alborghetti

di Gianluca D’Andrea

Poeti italiani (12) – Spazio inediti: Fabiano Alborghetti

Il canto muto della distanza

C’è una stanza. E’ arredata da ombre
qualche azione. Forse un nome. Ha un odore.
———————————————-Moltissimo è perduto
o sopravvive per frammenti:
vi si aggrappa come fossero presenti. Ogni giorno
si domanda quanto manca per tornare.

E’ in prestito, ancora oggi, dopo anni.
Forse qui dovrà morire. E in quale terra
——————————————-andrà il suo corpo?
Riportarlo dove è nato
dove noi siamo gli assenti o fargli un torto
e seppellirlo dove noi siamo i presenti?

Questa storia è poca cosa
————è vicenda personale.
Quante ossa, indossate dalla terra, sono ora fuori posto?
Chi è tornato porta avanti una memoria
—————————————————-parla, almeno:
ha qualcosa che appartiene. Non è ospite, né intruso.
E i figli? Quelli nati nell’altrove?
C’è qualcuno a cui non pesa: altra vita, passaporto
poi gli amori. Altri
aspettano irrisolti e ogni bacio è una frontiera.


mirror

Lucas Samaras, Room No.2, o ‘Mirror Room’ (1966)

Incede per scatti – piccoli nuclei di senso che cercano di ricomporsi – l’inedito di Fabiano Alborghetti. Come preannunciato nel climax dei primi due versi, scandito da punteggiatura forte: «C’è una stanza. È arredata da ombre/ qualche azione. Forse un nome. Ha un odore». Con un’andatura ritmica incistata in blocchi (la tendenza anapestica isolata in ogni gradino del climax) si confondono i termini di un lamento per qualcosa di perduto che vuole rinascere, almeno nella memoria. E infatti: «Ogni giorno/ si domanda quanto manca per tornare». La “stanza”, scarto metonimico di una dimora in sospensione, crea il tempo dell’attesa; ombre e corpi cadaverici (corpo testuale?), assenze e presenze che rimescolano i luoghi e, quindi, la disposizione stessa dei corpi in cui il soggetto scava in cerca di un frammento di “comunità”. È la vicenda “personale” e de-localizzata di un organismo (quello linguistico?) che «… Non è ospite, né intruso». Eppure con tutte le sue ambivalenze, il testo in questione sembra aprirsi a un nuovo orizzonte di senso, proprio analizzando la storia della scissione dell’io. Il margine, l’orlo, la «frontiera» sono i canali di fuga che tentano di indirizzare un nuovo edificio, dispositivo che intravede in altri («E i figli?»), nel loro “altrove”, un’«altra vita»; un «passaporto» diverso, per attraversare, infine, il limite di chi è ancora fermo ad aspettare (il soggetto stesso), “irrisolto”.

(Maggio 2016)


Fabiano Alborghetti (1970), vive in Canton Ticino (Svizzera) Ha pubblicato 6 libri e la sua poesia è stata tradotta in più di 10 lingue.
Grazie alla Fondazione Svizzera per le Arti Pro Helvetia ha rappresentato la Svizzera in numerosi festival nel mondo. Il suo sito è all’indirizzo: www.fabianoalborghetti.ch

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Spazio Inediti (20): Antonio Lanza – di Gianluca D’Andrea

antonio lanza

Antonio Lanza

di Gianluca D’Andrea

Spazio Inediti (20): Antonio Lanza

Per il bene d’aria delle dita
per lo stremo della caviglia per tutte
le minime terminazioni
che si diramano sul materasso
e lo inzuppano e colano
dalle fiancate per tutte le invase
fessure tra mattonelle e il sudore
a schizzi il sudore giallo
negli occhi l’impasto
molle tra le gambe
visitate e tutto il piacere
che imbratta muri e specchio a schizzi
vagito a scale e la finestra
adattata alla saliva
della bocca per ogni verde
vagito di cane in cortile
il bene d’osso che intero
fa stringere infine l’orgasmo.
————————————————-Ho abitato
all’apice
tutta fino a scoppiare
la camera, ora a passetti ritorno
torno a piccoli passi
– nido caldo di foglie –
nel corpo di prima
a posarmi. E ancora muto. Germogli
i capelli. Metto
la coda. Mi allungo. Ma mi trema una corda
di basso nel cuore. L’acqua scorre
nel bagno. Un quarto
d’ora non basta. Sospetto,
non so, non ti chiamo. Poi esci nutrita
negli occhi anche tu.
Sul letto poggi incupita
un ginocchio. Mi tiri su.
«Ascolta» dici e vibra, lo sento, alla schiena
la scure del giorno –
domani la stanza occupata
altre intimità da annodare.


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Francis Bacon,Tre Studi di Figure sui Letti, 1972

È una sensualità capillare a muovere l’atmosfera di questo inedito di Antonio Lanza. Si manifesta come un rincorrersi dei termini, senza pause di respiro, nella prima parte, in cui il climax è condotto sul flusso che trascina l’amplesso, quel sudore ha un impatto umorale che allucina la percezione (c’è qualcosa di selvaggio nello schizzo di «sudore giallo», non componibile, così come nel sinestetico «verde / vagito di cane»). Un’esplosione relazionale che coinvolge il circostante: la parola dirompe nel mondo e realizza per un attimo la sua pertinenza “immaginifica”, ma poi, inevitabilmente scivola nella sua caduta. Conclusa l’azione esondante, si verifica un assestamento – «a passati ritorno / torno a piccoli passi» – nel corpo comune, non eroico, che ha consumato il momento di gloria del corpo testuale, e che si ridispone all’ascolto. L’ambivalenza soggettiva crea tensione tra la sintassi “corriva” della prima parte e quella da “dopo il diluvio” della seconda, così l’accecamento iniziale si deposita su un nuovo assestamento, così necessario, nel finale. Sensualità e tensione, nel tentativo di un diverso approccio al reale, provocano lo scuotimento inquieto che ci giunge dal testo nervosissimo di Lanza.

(Aprile 2016)


Antonio Lanza è nato a Paternò (CT) nel 1981, vive a Biancavilla. Laureato in Lettere Classiche, fino al 2015 ha svolto l’attività di libraio. Ha partecipato alla manifestazione “IsolaPoesia”. È stato più volte ospite nei cicli “Notte della Poesia” e “Rito della Luce”, organizzati dalla fondazione “Fiumara d’arte” di Antonio Presti. Alcune sue poesie sono apparse online su l’EstroVersoCarteggi Letterari.

Poeti italiani (11) – Spazio inediti: Franca Mancinelli

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Franca Mancinelli (Foto di Dino Ignani)

di Gianluca D’Andrea

Poeti italiani (11) – Spazio inediti: Franca Mancinelli

Nel tuo petto c’è una piccola faglia. Quando lo stringo o vi poso la testa c’è questo soffio d’aria. Non è il tuo respiro. È freddo come qualcosa che viene dall’aperto. Ha l’umidità dei boschi e l’odore della terra. Le montagne vicine con i loro torrenti gelati. Da quando l’ho sentito, la prima volta che ti ho dormito accanto, non posso fare a meno di riconoscerlo. Anche quando porti il tremore lucente della tua ironia – uno specchio d’acqua di meraviglie. O quando uno dopo l’altro nella tua voce passano uccelli d’alta quota segnando una rotta nel cielo limpido. La faglia è in te, continua a portare aria fredda, si allarga. Del fuoco acceso in un bivacco, ha lasciato carboni. Avremmo potuto ritrovarne ognuno un riflesso chiaro, nel cerchio dell’iride una fiamma che ci guida ancora. E invece è il soffio di freddo che ti attraversa le costole e ti sta scomponendo, lentamente. Non hai più un orecchio. Il tuo collo è svanito. Tra una spalla e l’altra si apre il buio popolato di fremiti, di richiami da ramo a ramo, su un pendio scosceso a dirotto, non attraversato da passi umani.


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Dacia Manto, N Est 111’ 7 Jardin Planétaire #10, 2008, grafite, frottage e olio

C’è il cammino percettivo della trasformazione in questa prosa ritmica che Franca Mancinelli ha proposto per Carteggi Letterari. Da una mancanza (la “faglia” è richiamo a un assestamento lontano dall’essere raggiunto) a un’altra: la scomparsa dell’uomo che emerge dalla trasfigurazione del vicino, di ciò che è più prossimo, proiettandosi in un paesaggio sì naturale, ma immaginato per mezzo di evocazioni sensuali. Una sensualità latente, che allude più che limitarsi a descrivere l’assenza. Fabula, o meglio, rappresentazione di una fine. La relazione, sotto il segno della mancanza abbiamo visto, inscena il suo teatro di ombre, frammenta e discioglie la materia, all’interno della quale s’insinua un «buio popolato di fremiti», di segnali, richiami. E il linguaggio può cogliere dal freddo proprio questi richiami, diversi, incomprensibili ma comunicanti, per quanto in caduta, inumani.

(Gennaio 2016)


Franca Mancinelli è nata nel 1981 a Fano dove vive. Ha pubblicato Mala kruna (Manni, 2007) e Pasta madre (Nino Aragno, 2013). È inclusa in diverse antologie, tra cui Il miele del silenzio. Antologia della giovane poesia italiana, a cura di Giancarlo Pontiggia (interlinea, 2009), La generazione entrante. Poeti nati negli anni Ottanta (Ladolfi editore, 2011) e Nuovi poeti italiani 6, a cura di Giovanna Rosadini (Einaudi, 2012). Collabora con riviste e periodici letterari tra cui «Poesia».

Spazio Inediti (19): Luciano Nota – di Gianluca D’Andrea

luciano nota

Luciano Nota (Foto di Donato Fusco ©)

di Gianluca D’Andrea

Spazio Inediti (19): Luciano Nota

Del muro, della lastra, della pietra
ho sempre avuto una visione leggera
nonostante il muro, la lastra, la pietra
m’avessero accerchiato.
E’ sempre stato un tragitto alterato
simile ad un occhio orbo
che ha voglia di scrivere sul marmo
che il vento, il muschio, la luce
non sono mai esistiti.


magritte

René Magritte, La traversata difficile, 1963 (Foto Corbius)

La percussione del senso è in funzione di una necessità, mi verrebbe da dire, “esistenziale”. Il percorso di sopravvivenza delle parole, nell’inedito di Luciano Nota, procede nel martellamento e nell’iterazione degli elementi, e nell’esplicazione del comune ribadire la separazione, o meglio il “dubbio”, della referenza. L’alterazione, reclamata al verso 5, è modifica prospettica che disillude il desiderio. Niente di nuovo, si potrebbe obiettare, ma la scelta della giustapposizione asindetica smaschera proprio il desiderio di continuare a nominare. Il rituale dell’elencazione è l’ultimo tentativo dell’«occhio orbo» di salvare ciò che “non è mai esistito”: il nome che comunica, anche se slacciato dall’indicazione, dalla freccia del senso.

(Dicembre 2015)


Luciano Nota è nato ad Accettura in provincia di Matera. Ha pubblicato: “Intestatario di assenze” (Campanotto 2008), “Sopra la terra nera” (Campanotto 2010), “Tra cielo e volto” (Edizioni del Leone 2012, prefazione di Paolo Ruffilli, postfazione di Giovanni Caserta), “Dentro” (Associazione culturale LucaniArt Onlus, 2013, prefazione di Abele Longo).

Poeti italiani (10) – Spazio inediti: Luigi Socci

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Luigi Socci (Foto di Dino Ignani)

di Gianluca D’Andrea

Poeti italiani (10) – Spazio inediti: Luigi Socci

Ci sono certi bui
che non ricordi gli occhi
se sono o no aperti:
bui cosiddetti pesti
tra i cui contorni incerti
vedi o credi di farlo,
ignaro se quel nero sia il primario
colore delle tenebre
o il retro delle palpebre.


monocromo

Un monocromo nero di Gao Xingjian ©

Il ritmo in poesia costruisce la forma. E questa, che Socci presenta per Carteggi Letterari, ha un aggancio “popolaresco” evidente. Tra lo strambotto e il madrigale (confine quasi indecifrabile tra i due modelli tradizionali), come la quasi-rima baciata (più che altro una simil-assonanza atona, per restare nel clima umile suggerito dal testo) nel finale parrebbe suggerire, il componimento inscena la “burla” della relazione percettiva. Questa prima persona che, per un attimo (primi tre settenari), si auto-rivolge la parola, ne è sintomo. Autoreferenzialità che viene scavalcata dal suono buffo di rime e assonanze “aperte”, dal gioco dello scambio non serioso, sempre di matrice popolare. La suggestione fonica confonde le idee, la referenza si sfalda e da percezione si fa credenza, cioè illusione: «vedi o credi di farlo». L’ignoranza – o impossibilità percettiva del reale -, pur sembrando cialtronesca noncuranza, è fantasma del limite, oscura la dimensione scherzosa del testo (l’unico endecasillabo della serie ha il compito di esplicitare il dramma del “disaccordo” col contesto: «ignaro se quel nero sia il primario»), per aggiungere all’atmosfera scanzonata, quindi, solo in apparenza, una pennellata tragica: cos’è che realmente percepiamo? l’altro o una parte nascosta di noi stessi. In tal caso, il rovescio della referenza sarebbe il semplice ripetersi di un riflesso, un abisso di senso che solo il gioco ci può restituire in azione, senza scopo, se non quello performativo, ancora una volta, che ricrea la forma.

(Novembre 2015)


Luigi Socci è nato ad Ancona, dove vive, nel 1966. Ha scritto un centinaio di poesie circa. Alcune si possono leggere, volendolo, nella plaquette Freddo da palco (d’if, 2009) e nelle antologie VIII Quaderno italiano di poesia contemporanea (Marcos y Marcos, 2004) e Samiszdat (Castelvecchi, 2005), ma anche in rete, in riviste o dove si preferisca. Alcune sono state tradotte in russo, spagnolo, inglese e serbocroato. Altre no. È direttore artistico, ad Ancona, del festival di poesia “La Punta della Lingua”. Nel 2013 ha pubblicato Il rovescio del dolore (Italic Pequod).

Spazio Inediti (18): Piergiorgio Viti – di Gianluca D’Andrea

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Piergiorgio Viti

di Gianluca D’Andrea

Spazio Inediti (18): Piergiorgio Viti

“E’ che non ci sono più letti” dice
l’infermiera, mentre nello stanzone
i pazienti restano seduti
aggrovigliati alle flebo
e parlano mozzicando le parole
dei figli del mare del tempo…

Di questo tempo che ha sempre fretta
e non conosce riposo,
tranne quando fai la chemio,
allora sì, tutto si ferma
per due tre a volte quattro ore.

I respiri si fanno più larghi,
i ricordi spaccano come una noce
una Croce
su questo presente di dita tremanti,
tendinoso,
di tapparelle abbassate
su questa città che sembra remota
e invece è qui sotto
con le sue manovre,
i suoi traffici elettrici.

Anche mamma è seduta
e si guarda intorno,
è bella anche se ha settant’anni,
le labbra socchiuse che sembrano
confidare un segreto,
e gli occhi terrosi,
ubbidienti…

E nello stanzone
ci siamo pure noi,
parenti familiari
impigriti dall’afa.
Aspettiamo con loro che la flebo finisca
e immaginiamo prati
spiagge e cieli stellati,
dove niente e nessuno ha un’età,
dove ogni cosa dura per sempre
e tutti si danno del “tu” subito,
siamo insomma ancora più fratelli
che quasi ci abbracciamo
senza saperlo.


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Giovanni Rizzoli, Dipingere con una flebo – veduta della mostra presso Federico Luger, Milano 2013

Sia l’immagine di un desiderio o la volontà di un risarcimento immediato, questo inedito di Piergiorgio Viti proposto per Carteggi Letterari, sposta sul piano del contingente e della semplicità il messaggio. Non che la semplicità sia un valore assoluto, anzi spesso accade che l’accessibilità riduca la prospettiva, minimizzi e sterilizzi il contenuto su una forma piatta e scontata, come accade in molti tentativi in versi della nostra contemporaneità. A rassicurare, per un attimo, in questo testo di Viti è il senso di accoglienza che si spera come risoluzione di un contatto, quello con la madre malata e con il “noi”, certo molto referenziale, dei parenti un po’ “distratti” dalle proprie sensazioni o necessità («parenti familiari/ impigriti dall’afa»). Forse proprio questa “riduzione” dei soggetti, questo distanziamento dalla contingenza, dovrebbe far riflettere sul mutamento in atto: la scomparsa della referenza, per cui l’unico modo per dire “io” è la constatazione del suo appassimento “desiderante” in direzione di una passività nei confronti degli eventi. L’unico protagonismo plausibile è quello che evidenzia la non necessità del proprio fare. Lo scenario utopistico del finale, visto in questa prospettiva, annulla proprio quel senso di “fratellanza” e consuetudine («e tutti si danno del “tu” subito») che il testo voleva trasmettere e che invece presume.

(Novembre 2015)


Piergiorgio Viti vive nelle Marche. Nel 2010 ha pubblicato Accorgimenti, per L’Arcolaio editore. Sue poesie sono state tradotte anche in spagnolo dal giornalista e scrittore argentino Jorge Aulicino e in rumeno dall’italianista Geo Vasile. Autore di un saggio critico sulla figura del pittore Pietro Annigoni, ha scritto una fiaba, La fiabola di Virginio e Virgilio, interpretata da Tosca (2012) nell’ambito del Festival di Musica da Camera “Armonie della Sera”. Una serie di monologhi ispirati alla vita del musicista Ray Charles, I sogni di Ray, sono stati interpretati alla Casa delle Culture di Roma nel 2014 dall’attore Carlo Di Maio.

Spazio Inediti (17): Luigi Carotenuto – di Gianluca D’Andrea

 

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Luigi Carotenuto

di Gianluca D’Andrea

Spazio Inediti (17): Luigi Carotenuto

Aria
preferivo chiamarti
quasi fossi uno spiritello nordico
un’entità dal dna mitologico
la mia compagna di giochi
e dispetti
la bicicletta che tante volte mi ha lasciato
a piedi


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Kim Dong-Kyu, ‘his room’ after ‘the bedroom’ by vincent van gogh, 1888 (2013). Fonte ART X SMART BY KIM DONG-KYU)

Una strana leggerezza traspira da questo componimento del catanese Carotenuto. Strana, perché il tocco lieve sembra mascherare un sostrato di alienazione, indizio di un rapporto tutt’altro che pacificato con l’alterità. L’oggetto – forse “la bicicletta” – referente di un messaggio “apotropaico”, in linea con lo sconvolgimento del nominare e con le potenzialità “distruttive” dell’etichettamento. L’oggetto comune, compagno dei movimenti del soggetto, è “battezzato” e personificato – così mi spiego il riferimento al “dna mitologico” – nel tentativo di produrre una “simpatia”, che sembra, però, negata beffardamente dalla disillusione sottintesa alla risposta («la bicicletta che tante volte mi ha lasciato/ a piedi»). Notevoli, se l’osservazione è giusta, le implicazioni che scaturirebbero dal tentativo assertivo di nomi-dominare il reale, tentando una “confidenza” che è anche modifica strutturale. La leggerezza, che sembrava dominare l’atmosfera, apparentemente banale del testo, si trasforma così nel teatro in cui lingua e mondo, da sempre, inscenano lo spettacolo, tante volte conflittuale, della relazione.

(Novembre 2015)


Luigi Carotenuto è nato il 16 agosto 1981 a Giarre (CT), dove tuttora risiede. Educatore, ha lavorato nell’ambito socio-pedagogico. Si occupa di critica letteraria per il periodico culturale l’EstroVerso (www.lestroverso.it), diretto da Grazia Calanna; cura la rubrica di poesia In conto letture, per la rivista Lunarionuovo, diretta da Mario Grasso (www.lunarionuovo.it). Ha pubblicato le sillogi L’amico di famiglia (edizioni Prova d’Autore, Catania, 2008) e Vi porto via (edizioni Prova d’Autore, Catania, 2011).ine