Leggo Nuovo Inizio di Gianluca D’Andrea come un ambizioso, coraggioso poema contemporaneo, come un multiforme progetto, come una rischiosa proposta. E dico subito che quel mio leggo possiede già un difetto, perché esso fa pensare alla lettura di un testo almeno lineare, di un testo composto secondo la tradizionale scansione in versi e in pagine, scansione che continua, spesso, ad accomunare pubblicazioni “in rete” e pubblicazioni cartacee. E, invece, Nuovo Inizio è sì un poema, ma è anche un esperimento e, dicevo, una rischiosa proposta perché Gianluca, che ha già all’attivo pubblicazioni in volume di notevole valore e la cui poetica è estremamente consapevole e avvertita, ben lontana da qualunque intimismo e vezzo letterario, ha voluto, direi ha accettato il rischio di comporre quello ch’egli stesso definisce ipertesto e l’ha fatto coerentemente con lo sviluppo delle sue riflessioni e, appunto, della sua poetica.
La Senna festeggiante, RV 693, Sinfonia: I. Allegro · Dorothee Oberlinger · Antonio Vivaldi · I Sonatori de la Gioiosa Marca
Diario – Estate: 11) Colei che brucia le navi
Sempre in attesa di un ritorno, ritorno per non tornare.
La collina dove iniziava l’esplorazione era stata scavata per costruire le nostre abitazioni. Molte volte cercò di riprendersi il suo spazio. Pioggia e smottamenti che fecero evacuare alcune famiglie, ma quel condominio enorme, arroccato nel suo cuore, è ancora lì, decrepito e agghiacciante, in contrasto col sole assoluto che lo colpiva nelle stagioni preadolescenziali ancora vive nei miei ricordi.
Un giorno aspettavo di riprendere la scalata interrotta, riprodurmi ancora «nel cammino glorioso del giorno» (W. Shakespeare, cit.), così ruppi l’attesa e con un gruppo di amici raggiungemmo il sentiero in salita che ci proiettava in uno spazio altro, un territorio vergine che solo noi avremmo potuto esplorare, svelandone gli incredibili misteri.
Aspettavamo «che le vesti asciugassero al raggio del sole» (Odissea, VI) dopo l’ascesa. Sedevamo tra rocce in una piccola radura circondata da euforbie rinsecchite e allori. Distanti sul mare le imbarcazioni s’appoggiavano alla luce stanca delle isole¹, la nostra pelle sempre più bruna ci illudeva della fine dell’infanzia, proprio quando, sicuri del nostro vigore (Odissea, Ivi), non potevamo capirne la fine effettiva.
Eravamo il mondo ma dovevamo salvarci da lui, fummo salvati ma non siamo più il mondo. Nella relazione non esisteva salvaguardia. Ora la sicurezza è l’unico obiettivo delle nostre esistenze, dal 2001 è preventiva, quindi fondante, lo straniero è il malvisto e, per questo, l’escluso. Nessuna ripercorrenza, nessuna agnizione, l’identità è per sempre reclusa a causa dell’esclusione dello straniero. Nessuna seconda vita, nessuna opportunità.
Non posso riportare intatto nulla di ciò.
La mia faccia è fumo, il mio corpo acqua,
le mie orme sono fatte di neve.
(R. Robertson, Esitazione)
Eppure quella luce selvaggia era vera, nonostante incombesse la fine, eravamo fuori, sciolti nel paesaggio, impastati nella terra ascendente, in quelle radure che permettevano pascoli vaganti, ritrovamenti alieni, un mondo vecchio che si attorcigliava sotto i nostri passi. Pochi presagi, me scomparso nella terra, «tutto svanito, lasciando solo questo filo fantasma, / questi passi di vetro sottili come ostie» (R. Robertson, Ibid.).
Nota:
¹ Le Eolie? Il brano richiama i primi versi della poesia Uve di mare di Derek Walcott.
Sonate, arie et correnti, Op.3, RISM A/I: U 14: Aria quinta sopra la Bergamasca · Dorothee Oberlinger · Dmitry Sinkovsky · Marco Uccellini · Ensemble 1700
Diario – Primavera: 10) Ma soprattutto scoprii intorno a me¹
Il gracchiare costante, questo urlo di uccelli impazziti. Nel giardino nero si affacciano nuove finestre. Inaudito.
«Se voi, nati in questi tardi tempi» (W. Shakespeare, Pericle, principe di Tiro) vorrete incamminarvi dentro le stagioni, scopriremo i prossimi sentieri e le strane deviazioni? Tempi tardi e nuovi, origine.
Non si tratta di un loop, gli uccelli continuano a gracchiare, non più. Adesso tutto fila, massaggia la colonna vertebrale. Cervice liquefatta sul sentiero, Orfeo redivivo e squartato:
Orpheus
I.
I suoi sensi erano divisi
come se i passi non fossero usciti
dal sentiero. Continuando a strisciare
sotto un cielo di pioggia, con le mani
sottili, si voltò infine e vide
la radice. Tra i passi annacquati
sentì come una piccola voce,
un sussurro, un reclamo. Reclamava
la radice, un fuoco, il calore
perché tutta l’acqua sussurrava ———————-——————Chi?
E lui si voltò nello scatto rappreso
e accolse i rami silenziosi, i frassini
spogli e sparsi sugli argini. Il vento
lo spingeva lontano, dove i passi
divisi si separarono fatalmente
dal sentiero, sotto un cielo di pioggia
senza stelle.
II.
E allora si voltò, l’89
remoto di vecchie e nuove età.
Era la commozione arcaica
che lo trascinava tra le bacche
i rami secchi, tra i boschi
a succhiare e trasfondersi.
Solo immagini per trarre colori
sommersi, col blu altrove,
con digital nomads e baracche
a materializzare il paesaggio.
C’erano rocce lì e un cuore commosso
e un suono d’uccello outsourcer.
Il cuore del bosco era dentro una nuvola
vaporosa, come una catena di cristalli
circondati dall’effimero.
E tutto appariva sparpagliato
e accessibile, ardente
come il suo essere solo,
inghiottito. Un dio di trasformazioni
si espandeva come nebbia e desiderio,
per questo si voltò e lo raggiunse
un vento moderato antimoderno,
un archivio-agglomerato a imprigionarlo.
Nel lock-in che generava una nuova
appartenenza si sentiva appagato,
tenero, nascente come un uomo
raccolto nel suo attimo di rivelazione,
nella sua notte del passato. Nell’avvenire.
Così trasfuso nell’apparizione del mondo
nell’ora più solitaria
del suo cuore solitario.
III.
Nel giorno avvenente della sua solitudine
sentì un formicolio appagante
e un gibbone candido, gli occhi tristi,
incombere sui frammenti delle sue spoglie.
Aveva sempre saputo che a triturarlo
sarebbe stata un’onda di sfortuna
causata dal lavoro sisifeo del destino,
dalla ripetizione costante dell’ascesa.
Per questo non si sorprese ma ascoltò
le parole compatte e attutite dell’ominoide,
la sua lingua che poteva sembrare sbiadita
mentre vibrava sbiadita sugli ultimi
scorci della sua rovinosa vita.
Dove il fiume ristagna, le sue gambe
marcescenti, segni della disfatta,
ogni dito un bonsai da comodino
irrorato da una muffa digitale
cresciuta dove il cranio spezzato
tra le rocce si era sgravato
del contenuto grigio e pastoso.
Entrambi, lui e la scimmia, volevano
parlare degli ultimi passi, ma un verso
stagnante e matriarcale risuonava
dalla lingua polverizzata sui granelli,
inzaccherata di terra, vorticante
sui circuiti di ieri, tormentata
dalle allucinazioni del buio.
Le linee cunicolari del mondo, le allucinazioni del buio, e il tempo. Lo spaziotempo che si espande nella percorrenza.
Ali e piedi e scoprire che intorno si aprono, svoltano i sentieri, il cielo nero supera il giardino, le cornacchie suonano un avvertimento, non incombe alcun vento impetuoso tra i viali, solo la pioggia s’infittisce. Poi il cielo si sbianca e il profumo delle robinie si espande, sono grato al profumo, alle ombre immense con cui il sole disegna il paesaggio. Le variazioni della terra e le origini umili della vita. Mi arrampico prima che ritorni il vento, rimarrò qui finché non tornerà la pioggia, «nel cammino glorioso del giorno» (W. Shakespeare, Ivi).
Nota:
¹ Il titolo è una frase di Henry David Thoreau (Camminare).
Canzona seconda detta “La bernardinia” F 8.02a (Arr. for Recorder and Organ) · Dorothee Oberlinger · Girolamo Frescobaldi · Jeremy Joseph
Diario – Primavera: 9) Appello ai piedi
L’adattamento è sempre il sorgere del sole in cammino. Mi appello ai miei piedi, al continuo movimento che non conosce compromessi, semplicemente s’immerge passo dopo passo.
Eppure questi sono giorni di protesta e sdegno, perché la bestialità della vita sociale, coatta, del collettivo che non è comune, porta a discriminare e circoscrivere frammenti di mondo: separati, bloccati nel loro habitus che non riesce a trasformarsi in habitat, non abbatte i suoi confini.
«Camminavamo dal sorger del sole, stavamo diventando neri».
(A. Carson, Antropologia dell’acqua)
Diventare. Movimento che trasforma e adegua i passi al terreno sempre nuovo. Non è solo passeggiare, andare a una meta. L’unica meta, sempre provvisoria, è nera e brucia l’essere nella necessità, essere del tutto nero è la fine di un cammino che non può arrestarsi – ormai il mio corpo, non solo le mani, si muove anche mentre scrivo, mentre sono sdraiato e perduto per sempre nel tempo, nel mio sbiancamento che non posso non vivere con un immane senso di colpa.
Il bianco non ha importanza, è estinto, conta solo il raggiungimento del nero, la superficie terrea che attraverso:
«ed ebbi la sensazione che questa fosse l’epoca eroica, sebbene nessuno di noi ne sia consapevole, essendo l’eroe generalmente il più semplice e il più oscuro degli uomini».
Canzoni overo sonate concertate per chiesa e camera, Op. 12: La Cattarina · Dorothee Oberlinger · Dmitry Sinkovsky · Tarquinio Merula · Jeremy Joseph
Diario – Primavera: 8) Climax
Climax, umore del corpo, periodo climatico. Che è sempre e porta in sé il rischio e il timore della fine. Come l’islandese di Leopardi, definitivamente dilaniato dai leoni o “monumentalizzato” nella stoltezza di base che guida il suo ragionamento (un rimpianto nostalgico che non si rassegna, nonostante ne abbia consapevolizzato l’assunto, all’assenza di un fondamento e, quindi, di un soggetto), ancora l’uomo dell’oggi insiste sull’apprensione del desiderio: fugare la coscienza della fine nell’apparentemente infinita metafisica del consumo.
Non è certo nuovo, anzi è forse il più antico, il pensiero che sia possibile annullare il ciclo del desiderio accordandosi al mondo, universalizzando la salvaguardia e, seguendo ancora Leopardi (il suo “meccanicismo” degli anni ’20), ricordare definitivamente che «gli esistenti esistono perché si esiste» e che «il vero e solo fine della natura è la conservazione della specie» (Zibaldone, 4169). Ma ciò che più conta è che i climi (su questo si veda l’influenza delle teorie di Buffon sul pensiero di Leopardi a quell’altezza cronologica, nonché il seguente superamento delle stesse da parte del poeta) o, traducendo in termini più attuali, gli ecosistemi, non sono tutti accessibili all’uomo. L’uomo non può aver casa ovunque lo spinga il suo desiderio, ma può trovarla nel suo ritiro: l’unico vero rifugio è l’accordo col mondo, divenire definitivamente uomonatura.
Da qui la questione del limite, certo non invalicabile, ma da rispettare per necessità di sussistenza, contro l’hybris perpetua del desiderio. Scopriamo così un nuovo legame tra religione e scienza: la vera colpa è non voler riconoscere il limite del nostro abitare e, quindi, la corrispondente pienezza nell’accordo tra abitante e abitazione. Habitat che è anche habitus.
Si potrebbe giudicare “conservatore” questo atteggiamento di Leopardi, e quasi utopico, ma è proprio il suo disincanto a suggerire che non può esserci rapporto tra stato di natura e progresso – tra caldo (natura) da una parte e freddo (islandese) dall’altra. È la diversa consapevolezza dell’arrembante senso della fine (climatica, appunto) dell’oggi a riportarci alla sua stessa conclusione, considerato che l’unico atto di “eroismo” plausibile nella nostra epoca è continuare a vivere, realizzando il contatto pieno con ciò in cui ci troviamo.
Adattamento per ora. Ora dell’adattamento:
«Un eroe! O semplicemente vivere. Metodo, Metodo, che vuoi da me? Sai bene che ho mangiato il frutto dell’incoscienza! Sai bene che sono io che annuncio la nuova legge al nato di Donna, e che sto soppiantando l’Imperativo Categorico per instaurare in sua vece l’Imperativo Climaterico!…»