LETTURE di Gianluca D’Andrea (17): IMMAGINAZIONE

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Collage Blake Yeats (Elaborazione grafica di Gianluca D’Andrea)

di Gianluca D’Andrea

La sensazione che un “ricordo non possa essere ricordato” è prodotta da un’angoscia. Da un vuoto, quindi, che riesce a colmarsi, anzi finge di colmarsi con l’utilizzo di uno strumento sostitutivo. Nel caso della poesia, le parole sono il mezzo per tentare il riempimento, almeno in parte, laddove il segno ha creato il vuoto della sua inaderenza al concreto. Un’ombra che cerca di articolarsi attraverso simboli nuovi, e che rischia sempre di disancorarsi definitivamente dalle relazioni. L’immaginazione non è nient’altro che l’emersione dovuta allo sforzo tensivo tra pensiero e segno, nella ricerca di un contatto. Così nascono nuovi simboli e si tenta una diversa mitologia. Come Yeats sosteneva parlando di Blake: «egli fu un uomo alla disperata ricerca di una mitologia, e cercò di crearsene una perché non poté trovarla a portata di mano», vicenda accostabile a chiunque si confronti col linguaggio e con la difficoltà del segno di trovare aderenza al contesto.

FLASHES E DEDICHE – 36 – TRANSITARE NON ARRIVARE – GIANLUCA D’ANDREA – di Giulio Maffii

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di Giulio Maffii

Qualcosa si può aggiungere, c’è sempre un più in ogni pensiero. Devo riconoscere che il libro è stato ben criticato e sviscerato da penne più nobili di questa. Diciamo, a mio avviso, che siamo davanti ad una costruzione poetico-architettonica ben riuscita, anzi perfettamente riuscita. Le tre grandi suddivisioni non ingannino, il progetto è unico, fortificato e saldo-saldato. Dispiace inflazionare il dibattito critico sul testo con interventi quasi giornalieri.
Il libro è importante ovvio, pubblicato per  la Marcos y Marcos nella collana diretta da Fabio Pusterla, ma e qui c’è il ma che getto, non è un punto di arrivo o di raccolta. Non è la somma esperienziale del vissuto-viaggio dell’autore, un girovagare nervoso tra Messina e l’ultimo luogo-non luogo. Sono sicuro che D’Andrea utilizzerà questo testo base, come punto di inizio del travel-poetico, dove le zone recintate sono ancora da visitare e raccontare anche alla piccola Sofia.

Un luogo cui fu offerta una promessa
rifiutata dal luogo; contingenze,
si narra, che portarono al grigio
delle fabbriche chiuse, ai primi freddi,
a una popolazione in affanno.
Oggi un attrito di odori ci accompagna,
le vostre difficoltà sotto mura incomplete
e sotto lo sguardo volatile di questo umile nord,
più tiepido, vibratile…
l’origami disegna gru, s’immilla.

Acquisimmo, assorbimmo, attraversammo
il passaggio del millennio e il livello
si ridusse in esplosioni nere,
i grattacieli, gli uccelli, figure
disegnate come rondini nel cielo cupo,
fissi a un dislivello in cui le frontiere
e gli impatti ebbero il dissapore
del dubbio. Da allora niente,
una scomparsa, idee allusive:
mura tra virtù fibrose,
connesse all’impaccio di un’agricoltura di ritorno.
Il campo è coperto di residui,
la polvere aspetta l’acqua che la copre.
Poi, un po’ di sopravvivenza della luce
senza il coraggio della presa,
volte e architravi e solchi
e tranci di cielo rosa.
Parlavamo minimale o tronco,
in astratto, di traiettorie interstellari,
membrane, lacci e buchi,
quante soluzioni per le mani,
proteggemmo persino i liquami
che intanto scorrevano nei parchi,
nei campi.
Per anni osservammo le nuvole
accompagnando ai pronostici
le previsioni meteo e uscivamo
cercando di portare a casa la pappa;
un padre torna con un sacchetto,
nell’altra mano la figlia
stringe (o è stretta),
accanto un’auto calpesta le foglie.
Ci accampammo per alcuni giorni
tra le macerie, ai margini di altre dimensioni.

LETTURE di Gianluca D’Andrea (16): POESIA – RITMO – RESPIRO

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Mario Martinelli, L’ombra della sera (1990) ©. (Fonte: mariomartinelli.it)

di Gianluca D’Andrea

«Sto nel cuore dell’epoca, ho di fronte
una via incerta, e il tempo crea miraggi»

O. Mandel’štam

Nel suo fondamento la poesia, nella sua pratica – perché ancora parlare di fondamento è assumere una terminologia abusata che richiama concetti altrettanto abusati, come sostanza, ecc. – è il concretarsi di un’ombra attraverso un’immagine. Tentando di essere più precisi: attraverso una lunga sensazione da cui si presume possa formarsi qualcosa. Aisthēsis, il nostro tatto interno – quante volte da piccolo, con i sensi completamente scoperti, sentivo giungere un’onda indescrivibile di percezione, ed era “altro” dentro me stesso? era il “noi” caproniano? («Quanto più il poeta s’immerge nel proprio io tanto più egli allontana da sé ogni facile accusa di solipsismo, appunto perché in quella profondissima zona del suo io è il noi», G. Caproni) – forma veramente qualcosa: l’illusione della nostra presenza. Non la materia di cui sono fatti i sogni, ma più prosaicamente la materia che si affianca a un segno, fino a trasferirsi totalmente in esso, nell’artefatto che da sempre ci supera, ci schiaccia in una “disidentificazione” che, finalmente, rende fattiva la nostra scomparsa. Forse per questo, l’essere umano, oggi, immerso e sostenuto da una massa abominevole di artefatti, oscilla tra una resa definitiva alla verità ultima dell’oggetto, che è liberazione assoluta, e la costante frustrazione della perdita del proprio ruolo identitario, conquistato, sin dagli esordi, al prezzo di sacrifici abissali, come ad esempio la rinuncia alla verità della scomparsa, a favore del desiderio di sussistenza, del segno banale che “fa” presenza.
La poesia non fa che confermare quell’oscillazione, ma più come il ricordo ostinato della necessità di essere dentro un quadro già definito, finito. Come fosse il raggiungimento di una massima libertà dentro il suo opposto.
Nel passaggio dalla definizione alla liberazione nel finito, allo stesso modo «passano le figure» (Acquario, in Transito all’ombra, p. 47), ma come «ombre» e «flussi trapassati», «membrane che respirano / le azioni compiute» (ibid., p. 47) e frazionano il tempo, gli rendono giustizia nel movimento consequenziale che si sviluppa dal respiro. La nascita del ritmo risiede in questa libertà necessaria, cioè andare “a capo”, oggi, è un’esigenza che il soggetto ricava dalla, in questo caso sicuramente primaria, necessità di libertà: è la solitudine del soggetto a far sì che avvenga un ritmo e, infine, la scelta del respiro.
Resta un’interrogazione, com’è possibile assimilare al ritmo personale un respiro collettivo? Come acquisire altro “fiato”, se non attraverso la conoscenza dell’altro nel suo racconto, nella sua storia? in una parola, nel ricordo:

«Mente, de gli anni e de l’oblio nemica,
de le cose custode e dispensiera
vagliami tua ragion, sì ch’io ridica»

(Tasso, Gerusalemme Liberata, I, 36)

ma solo

«nell’oblio di un ricordo che non può essere ricordato»

(Aspettavo la storia di un quadro millenario, in Transito all’ombra, p. 42)

Antonio Lanza su «Transito all’ombra» di Gianluca D’Andrea

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Vizi e virtù affrescati da Giotto nella Cappella degli Scrovegni

di Antonio Lanza

                        «TRANSITO ALL’OMBRA» DI GIANLUCA D’ANDREA

Transito-allombra_web-300x480Molto mossa la geografia lirica che innerva Transito all’ombra di Gianluca D’Andrea, terzo volume della nuova collana di poesia di Marcos y Marcos «Le ali», diretta da Fabio Pusterla. Quasi a fare da contrasto a questo scenario mobilissimo che presenta in Messina e Treviglio i suoi due poli principali e in parole come “viaggio”, “confine” e “ritorno” il fondale lessicale dell’intero libro, la copertina di Luca Mengoni sembra rappresentare l’impossibilità del movimento o quanto meno la sua limitazione. Due neri serpenti infatti, più metafisici che reali, attorti ad anonime caviglie, ne rallentano o ne condizionano o addirittura ne ostacolano il movimento.
Il titolo e il tema della prima sezione “La storia, i ricordi”, nella quale l’autore intreccia le memorie private ai grandi eventi del secondo Novecento, mi fanno pensare che i due serpenti simboleggino la storia e i ricordi, appunto, mentre le gambe, raffigurate nella loro anonima magrezza e fragilità, siamo tutti noi, nelle nostre biografie atomizzate. Si agisce immersi nell’immenso palcoscenico della storia, con le nostre periferiche esistenze individuali, e i grandi accadimenti ci sembrano un’eco lontana, ma siamo a nostra volta dalla storia e dai ricordi condizionati, modificati, forgiati. Come se invisibili serpenti costantemente ci passassero tra le caviglie e mutassero, impercettibilmente o no, direzione, velocità, intenzione al nostro cammino nel mondo.
Un sotterraneo sentimento di allarme, suggerito da un lessico apocalittico, percorre le dodici parti di cui la prima sezione del libro, “La storia, i ricordi”, si compone. Guerra, atomo, collasso, scissione, catastrofe, paura, scoppi, carneficine, esplosioni, rovina, macerie, impatto, scempio sono le parole scelte da D’Andrea per descrivere l’epoca storica che va dalla fine degli anni Settanta fino ai Duemila. Parole che l’autore riesce a far consuonare con immagini private, siano esse ludiche, domestiche o scolastiche, coniugando racconto e riflessione.
Il luogo da cui l’io lirico si fa testimone di sé e di un’intera generazione è un sud globalizzato e inquinato, una porzione di mondo posta tra un mare, il Tirreno, la cui «brezza arriva dolce» ma in cui si riversa «il messaggio lontano della fogna» e una terra, Messina, in questa sezione mai nominata, nei cui campi e nei cui parchi scorrono liquami.
Fedele alla promessa mandelstamiana, esplicitata in epigrafe, di «seguire l’epoca», D’Andrea ci racconta gli anni Ottanta di un Occidente in vertiginosa trasformazione, dall’incubo atomico («la parola scissione / ogni tanto emergeva dallo schermo») fino al «limbo / di benessere», dalle ultime propaggini della Guerra fredda rappresentate dal disastro aereo di Ustica fino ai vittoriosi mondiali spagnoli dell’82.
Ma forse è la nascita delle TV private a sconvolgere gli assetti della società di quel decennio. La generazione di D’Andrea, che è del ’76, vive sulla propria pelle questo passaggio epocale («La TV degli anni Ottanta tentò / di rubarci la memoria, riuscendo / a cancellare con velocità / ogni appiglio») senza però che abbia prima potuto forgiarsi gli strumenti intellettuali per difendersene («i cartoni / da cui apprendere lo sport e l’amore»).
I Novanta scorrono tra ulteriori carneficine e spinte individualistiche e, attraverso gli anni Duemila, inaugurati dagli attentati alle Twin Towers («Nel focus / miliardi d’impatti per giustificare / un altro scempio nero») e dalla destituzione di Saddam Hussein, si giunge fino ai giorni nostri: l’era digitale, le «testate esiziali» di Zidane in un altro vittorioso mondiale di calcio, la chiusura delle frontiere di alcuni paesi europei.
La sfida di restituire al lettore il rumore del tempo è ampiamente vinta. E in particolar modo, a mio avviso, nei primi sei movimenti della sezione, di più forte potenza drammatica, in cui il racconto di D’Andrea, assumendo toni profondi e partecipati, dell’infanzia e dell’adolescenza ci restituisce la pienezza del giocare furibondo («Così giocavamo / a nascondino nell’erba e l’odore / acerbo del sudore a quell’età / si mischiava alla terra») e, insieme, il vuoto che preannuncia la fine di quell’età meravigliosa («come quando il giocattolo / non parla più alla nostra immaginazione / e resta il vuoto, il buco del vuoto»).
“Immagini, i ricordi”, altra ampia sezione dopo il breve intermezzo del primo “Dittico”, mi sembra sin dal titolo speculare a “La storia, i ricordi”. Ma se nella sezione già presa in esame D’Andrea tentava di ricostruire un’epoca storica attraverso quelle che potremmo definire micro sequenze filmiche, qui l’autore si propone di fermare una serie di ricordi personali in alcune significative istantanee.
Dall’ossessione di ricordare («senza nostalgia» sottolinea l’autore), di preservare un particolare dal fluire del tempo e dall’altrettanto inevitabile constatazione della necessità dell’oblio nascono, come si dice nella nota finale al libro, «piccoli quadri di vita quotidiana»: una gita famigliare al parco, i lineamenti cangianti e perfetti di una bambina, una lezione scolastica non troppo coinvolgente, uno dei tanti ritorni in Sicilia.
In versi calibratissimi e sospesi, venuto meno il rischio che una progettualità narrativa di ampio respiro appesantisca la materia poetica, D’Andrea mostra in questa sezione di saper cogliere la congiuntura tra eterno e istante e di riuscire magnificamente a tradurla in poesia.
La sezione si chiude con un testo intitolato “Epoca”, in cui il dolore del ricordo dei bambini ceceni uccisi in una scuola di Beslan durante un blitz dell’esercito russo annulla la distanza tra l’Ossezia e il canale di Sicilia, dove amarissima sorte tocca ai migranti, e in particolare, ancora, ai bambini: «Il tempo marcisce sugli odori delle stesse tombe, / mentre i volti vivono in altri volti riflessi sugli schermi».
La sezione “Era nel racconto” è l’occasione per raccontare una stagione di disagio attraverso i luoghi che l’autore via via conosce grazie alla sua professione di insegnante: Zingonia, Vimercate, un quartiere a rischio di Messina, tra discese agli inferi, attesa eterna e continui viaggi, scanditi da precariato e concorsi a cattedra. Tra le poesie più belle della sezione troviamo La luce nei viaggi: «Così rifletto questi giorni di inattività, / di bilancio, di ritorno continuo. Messina è qui, / vedo scorci sereni e fantasie di raccoglimento; i viaggi sono dimore e luoghi in cui scentrarsi».
Una inaspettata centralità assume Lettera a mia figlia. Ne è spia il richiamo in quarta di copertina dei suoi quattro versi conclusivi. La poesia è una esortazione alla figlia, la «piccola Sofia», a comprendere i propri confini per superarne i limiti attraverso l’esercizio continuo dell’osservazione, l’unica attitudine che spalanca la conoscenza della complessità del mondo. Qui D’Andrea, crediamo, non dà voce soltanto a quel che amore paterno gli detta, ma anche e soprattutto a quel che l’esperienza di educatore negli anni gli ha fatto maturare. Per cui, senza annacquare le intenzioni, Lettera a mia figlia mi pare che possa svincolarsi da una dedica strettamente familiare per estendersi a tutti i piccoli ragazzi che abitano o attraversano o sono soltanto sfiorati da questo libro: gli alunni multietnici di Zingonia e quelli disagiati di Messina, i bambini che giocano nei parchi lombardi e quelli in gita all’Acquario di Genova, i bambini di Treviglio «prima di un altro ritorno» e quelli morti a Beslan e nel canale di Sicilia, e, infine, retrospettivamente, lo stesso Gianluca bambino e la sua generazione, che «rotola / da una discesa dell’infanzia, ottanta / volte o più, nella luce del tramonto».
«Il Transito è movimento, divenire» scrive Pusterla. Certo, lo testimonia anche la sezione successiva, “Zone recintate”, in cui una breve e intensa vacanza diventa ansia di muoversi e di conoscere (VI. Braccare lo spazio, Giotto). Ma è anche desiderio di radici e di stanzialità, Transito. Di silenzi assoluti e di raccoglimento, di singoli passi che risvegliano ricordi. E di infanzia, il vero nucleo tematico dell’opera. I serpenti di Mengoni si attorcigliano alle caviglie. Forse per non farci allontanare troppo da quell’età: «Tutti siamo piccoli, Sofia, / abbiamo poco o niente da dire, / eppure questo fiato, così buffo, / è il dovere che ci unisce e dissolve».

LETTURE di Gianluca D’Andrea (15): L’OVVIO INUSUALE

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Elaborazione grafica di Gianluca D’Andrea

di Gianluca D’Andrea

«Quanto più il poeta s’immerge nel proprio io tanto più egli allontana da sé ogni facile accusa di solipsismo, appunto perché in quella profondissima zona del suo io è il noi».

(Giorgio Caproni)

Non importa che questo pensiero di Caproni rasenti la banalità più scontata, anzi importa che arrivi a esprimere ciò che di più comune è sommerso da una molteplicità di pregiudizi, per riscoprire, in fondo al pozzo, il più veritiero dei pregiudizi: la nostra inappartenenza e, conseguentemente, la necessità della presenza degli altri.
Dentro il nostro narcisismo si scorge la più evidente fragilità: noi non bastiamo a noi stessi, eppure rifuggiamo quest’ovvietà.
Il poeta dell’ovvio che ridiventa originale, o che aspira a farlo, può allora illuminarci sulla nostra scomparsa nella presenza: «E solo / quando sarò così solo / da non aver più nemmeno / me stesso per compagnia, / allora prenderò anch’io la mia / decisione» (G. Caproni, Parole (dopo l’esodo) dell’uomo della Moglia, in Il muro della terra). La decisione di dire «addio / al vuoto» (ibid.), che significa ripercorrere la strada inversa da una raggiunta pienezza a una spoliazione identitaria, cioè qualcosa di presunto. L’identità, dico, è solo un modo che serve a «ristorar i danni», direbbe Tasso (Gerusalemme Liberata, I, 21), un’invenzione “vuota” che, però, ci consente di ri-scoprire il “vero” vuoto, quello della nostra assenza o l’inerzia dell’essere che, quasi subdolamente, ci muove.
Come accadesse, con una ripetitività frastornante, il continuo risveglio da un sonno opprimente in cui, ancora più ossessivamente, si ricade: «Qual uom da cupo e grave sonno oppresso / dopo vaneggiar lungo in sé riviene, / tal ei tornò nel rimirar se stesso, / ma se stesso mirar già non sostiene» (Gerusalemme Liberata, XVI, 31). Ecco, non potendo sostenere il vuoto – la nostra immagine – non sopportiamo l’esistenza, se non rinunciando a riconoscere la nostra vacuità.
Ma ancora, nonostante l’ipocrisia che fonda l’essere, è solo attraverso di essa che possiamo accettare la necessità dell’altro, la responsabilità che ci allontana dal vuoto riempiendolo di un’ulteriore illusione. L’appartenenza è quella finzione che reinventa il senso, e in questi territori sembra muoversi la poesia.

 

Transito all’ombra, Gianluca D’Andrea – una nota di Luca Minola

Andrew Wyeth - Wind from the Sea, 1947

Andrew Wyeth: Looking Out, Looking In

di Luca Minola

Gianluca D’Andrea “Transito all’ombra”

Transito-allombra_web-300x480Irrimediabilmente la storia non si sottrae mai alle figure, al mostrarsi terminante e collettiva come in “Transito all’ombra”, nuovo libro di Gianluca D’Andrea uscito per le edizioni Marcos y Marcos nella collana “Le ali” diretta da Fabio Pusterla. Pusterla stesso firma la seconda di copertina in una sintesi efficace rilevando all’interno del testo le coordinate mosse “tra disperazione e speranza”, fulcri dell’opera. Il transito inquieto a cui fa riferimento il titolo rimane una delle parole chiave per inoltrarsi in questo percorso di senso, attraverso le ombre della storia riflesse nell’esperienza personale dell’autore, nell’incedere del poemetto iniziale “La storia, i ricordi”: “A volo poi trascorse il tempo, rotolo/ da una discesa dell’infanzia, ottanta/ volte o più, nella luce del tramonto,/ accesa in un richiamo che ci accoglie”. Il compimento di ogni cosa risiede nel percepire quel silenzio che ci avvolge continuamente nel reale, nell’esperienza ovattata che si proietta nella luce: “La luce interruppe il silenzio,/ la voce sentì risuonare/ la voce interrata”. Le rappresentazioni delle forme recuperano un passaggio, un incrocio che fa procedere il lettore nella memoria dei gesti. Queste immagini creano il percorso umano, l’attesa: “La tenda mossa dal vento, l’attesa/ un vecchio prega,/ attendo, all’incrocio d’ombra e luce,/ il freddo percipiente./ L’immagine non si muove,/ mi muovo e fisso/ nella memoria quel passo, fermo/ tutto il giorno in quei gesti, dimentico”. Vivono nella struttura del libro le presenze più intime e vicine al poeta, che tracciano il vero spartiacque fra storia e vita, fra amore e dolore. Cercando di proiettare tempi e strutture d’opera “Transito all’ombra”, insegue gli eventi, le durezze che noi stessi cerchiamo, riuscendo a riscrivere lo smarrimento che passa nelle misure che diamo alle cose, a noi stessi, piccoli e adulti, personaggi storici e anonimi. Le parole in quest’opera sono sempre tenacemente in cammino verso il luogo che respira di noi, delle nostre vite trasparenti e indifese. Gli spazi d’azione di queste poesie si diramano, passano da città d’arte e di confine sociale, a vere e proprie estensioni interiori e derivazioni del soggetto: “… il movimento ha passioni e dolori/ e quadri che si aprono a brusii,/ flussi trapassati, sorprese/ negli scorci, membrane che respirano/ le azioni compiute;/ la giustizia si sposta nello stesso/ luogo, si sgrana in tempi impercettibili”. Seguendo questo percorso, Gianluca D’Andrea entra nei “notturni”, di nuovo in ombra, nel compimento che conosce lo sguardo di una persona amata, unico nella vita: “Le linee e la grazia/ arrivano da molte zone”.

LETTURE di Gianluca D’Andrea (14): CONTATTO

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di Gianluca D’Andrea

«La stanza era relativamente grande, e per contrasto con l’anticamera fortemente illuminata la sua lunghezza si perdeva in un’oscurità semitrasparente rinforzata da grevi ombre».

(J. Conrad, Con gli occhi dell’occidente)

Che cosa confermare? dice tutto questo romanzo sulle ombre della coscienza, gli spettri della cospirazione, il rimorso collegato al ricordo. Sentire, allora, sarebbe la grande colpa che blocca l’azione? ma questo è un pensiero romantico in un contesto che si vuole ancora romantico. Un’ideologia.
Invece adesso è un’altra l’immersione e non ha a che fare neppure con l’eventualità del cinismo, dell’indifferenza. Adesso è mutata la capacità – e forse la necessità – di percepire. Il nostro rispetto di noi è oscurato dall’illusoria trasparenza dello schermo, il nostro riflesso opaco, ombroso, è il manifesto di una scissione profonda perché evidente in superficie.
La nostra ombra è spinta a una distanza inaudita dall’evidenza della nostra apparizione, da una presenza virtualmente assidua, nella riduzione altrettanto inaudita del nostro messaggio.
Quale riflesso emergerà dalla necessità primordiale del consenso? ora che il consenso si è mutato in un gesto veloce e non focalizzabile.
So della tua presenza e calcolo ogni tua risposta, la percezione compulsiva che la muove, e per te è lo stesso, per questo mi chiami con tutto te stesso al tuo consenso.
Ma la presenza è scomparsa, – anche del soggetto-autorità e la manipolazione è un autoriferimento che accende inedite capacità di contatto, la trasmissione dei soliti impulsi con modalità che si avvicinano a qualcosa di basilare. Tutto avviene, però, dalla distanza di una postazione, circondati da una solitudine paradisiaca, un recinto, un muro.