LETTURE di Gianluca D’Andrea (8): UN RACCONTO – RICORDO D’INFANZIA

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Lorenzo Lotto (Venezia 1480-Loreto 1556), Apollo addormentato, 1530 ca, olio su tela, Budapest, Museo delle Belle Arti

di Gianluca D’Andrea

Gli ultimi giorni sono i più devastanti.
Sono i ricordi di tutto ciò che finisce ed io ricordo le passeggiate tra gli uomini, le persone e i luoghi che non formano il passato ma la sua scomparsa, il ri-presentarsi delle immagini, i fantasmi dei tanti me trascorsi, delle persone incontrate, degli spazi vissuti perché scomparissero dentro l’accumulo, l’archivio della memoria, che tiene viva la scomparsa ben oltre me.
Così immagino la radura con lo sterco di pecora o capra, la ricerca di un angolo accessibile e l’angolazione per intercettare una prospettiva riposante, uno spazio di rigenerazione. Dopo, la collina riprendeva la sua ascesa fino a espandersi in un panorama di altre colline. Il valore rassicurante di una meta, prima del ritorno calcolabile – questo era il massimo di una spregiudicatezza infantile –, rendeva la valle sottostante, col suo fortino spagnolo, il centro dell’esplorazione dei nostri corpi; la pienezza delle loro funzioni consisteva nel potere approdare dopo il cammino, provando a scoprire un mistero nel luogo, o meglio a immaginarne il mistero.
Il rientro al luogo di partenza, pur conservando la sensazione rassicurante dell’accoglienza, annunciava una sconfitta. L’impossibilità di capire la nostra fine era esorcizzata dal racconto dell’impresa, delle scoperte fatte, immaginate. Da una mitologia oscura.

In sospensione sulla radura
evitavamo le palline di sterco,
dopo aver rifiatato si apriva
un orizzonte e una caduta.
Al forte, al forte! Per finire
d’immaginare l’ultimo giorno
e la sua scomparsa prima
del ritorno ai nostri rifugi,
la vera finzione del racconto
uno accanto all’altro
sentendoci insieme nel desiderio
di dire la nostra visione.
Il mito senza fuoco
che esorcizza la paura,
peggio di morire dimenticare?
Ha un’origine sentire gli spazi
espandersi e richiudersi
dentro un flusso di parole.
Mai nemmeno riconobbe la propria paura
assoluta, rifluendo nell’aneddoto
e nella contingenza della storia
comune e abnorme
degli eventi immaginati.

(Gianluca D’Andrea, Inedito)

LETTURE di Gianluca D’Andrea (7): FOGLIA D’ACERO E MEMORIA

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Foglie d’acero (Fonte: Animeclick.it)

di Gianluca D’Andrea

«La memoria è il dono del ritorno all’identico, o dell’identico. Il suo vero campo d’azione non è il passato – è il ri-presente. Ecco perché essa viene dal “passato”, e non lo riporta mai indietro».

P. Valéry

Per questo la sensazione e i ricordi si mescolano e possono spingere a rinnovarsi nell’immaginazione.
Leggo “acero”, vedo foglie rosse e gialle di una foto mai scattata, una cartolina e un sapore plastificato, asettico. Poi ricordo un piccolo acero nel parco vicino casa e vedo il “rosso” oscurato del vero, nonostante volessi l’accensione “artefatta” vista in foto. Nostalgia di una finzione, è un modo che non raggiungerà mai la sua poesia – finzione di una nostalgia.
Acero, vento, sta per raggiungermi qualcosa che conosco da quaranta primavere: il mio quarantunesimo autunno. Allora è plausibile parlare ancora di nostalgia? o è solo la ripetizione che si ripresenta e che riconosco? come un’abitudine riconfermata dalla capacità – necessità – di risvegliarmi diversamente uguale da una scomparsa. Dalla mia scomparsa alla fine di un’altra estate. La finzione di ritrovarmi congelato in uno scenario che si lascia attraversare, che mi lascia attraversare.
Forse è bene ribadire quanto sia inevitabile – eppure si dimentica, ecco la giustizia – lasciarsi perdere. Non sentirsi?

Acero, autunno, non sento

Non è autunno, ma già i raggi s’inclinano
ad altre dimensioni del mio sentirti.
Un’emorragia esterna ributta il colore,
quel particolare colore che mi attiva
ma non ha senso mi realizzi.
Per non sentirmi, quale peso,
provo a sentirti e dico amore –
con quale trasporto? – perché sentire
te, foglia d’acero in foto, è più genuino
di vedere nel parco l’alberello?
Tra la foto e il reale un tassello
che cuce il risveglio da questo sogno estivo
e dirime il gioco del vero.
Infatti arriva un vento che sembra
scherzare con la pelle e i capelli
e già mi trasporta ai giorni dopo,
dopo adesso che sento l’autunno
che si approssima, lo stesso.

a una foglia d’acero e ad Anna

Transito all’ombra su Le parole e le cose

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di Gianluca D’Andrea

[Pubblichiamo alcuni testi dalla raccolta di Gianluca D’Andrea Transito all’ombra, in uscita in questi giorni per la nuova collana di poesia «Le Ali» di Marcos y Marcos].

Acquario

Passano le figure, inseguono gli eventi.
Ombre, i bambini trascorrono
in gesti, in un piede piegato o i passi.
Gli uomini impiegano il tempo
in frazioni strutturate,
il movimento ha passioni e dolori
e quadri che si aprono a brusii,
flussi trapassati, sorprese
negli scorci, membrane che respirano
le azioni compiute;
la giustizia si sposta nello stesso
luogo, si sgrana in tempi impercettibili.

Zingonia

Un luogo cui fu offerta una promessa
rifiutata dal luogo; contingenze,
si narra, che portarono al grigio
delle fabbriche chiuse, ai primi freddi,
a una popolazione in affanno.

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LETTURE di Gianluca D’Andrea (6): HISTORIA; RI-

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Michael Grab ©, Stone Balance (Winter/Spring 2012). Fonte: Gravity Glue

di Gianluca D’Andrea

«tempo impercettibile»
Aristotele, De sensu et sensibilibus

Ma il tempo impercettibile della percezione può farsi testimonianza? E l’insorgenza di emergenze, eventi che spuntano dal flusso, possono riscriversi e ricreare un racconto?
Conoscere un appiglio – ma chi scrive la storia? – testimoniante conserva una tradizione, un orientamento, un riconoscimento. Non è il mestiere dello storico, la sua aspirazione all’accumulo di dati da inserire in un racconto, l’obiettività insoluta include la propria fallibilità.
La storia è l’inizio, la dimostrazione della nostra fragilità, il margine tra una fine e un inizio, senza progetto.

«Le pietre non erano qui all’inizio / sono apparse in seguito con far di scienza / tra vari punti della storia, così dicono».

Pablo L. Carballo
La precisione dell’indifferenza (p. 9)

In punti imprecisabili della storia – del tempo, nelle ondulazioni attrattive di un’orbita gravitazionale – sono apparsi, e appariranno, i segnali di una sempre possibile discontinuità. Ora è il momento della caduta dei gravi.

fosse su un guscio d’echi nello stallo
dei secoli qui in polvere un diamante

che incida nella lastra e stacchi diafane
le sagome allo scroscio       al sottopelle
———————————————————–senzafine muto, urlante,

i sogni qui sbalzati per diffrangersi
dal foro esploso al sommo della cupola

fondono agli angoli di schermata luce:
l’oscuro d’occhi ristende i suoi circuiti

Tommaso Ottonieri
Geòdi (2016, pp. 59-60)

Una nota su “Solo l’uomo” di Andrea Italiano, Ladolfi Editore, 2016

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George Bellows, Stag at Sharkey’s, 1909 (Fonte: Il Post)

Solo l’uomo (nota di Gianluca D’Andrea)

solo l'uomoIl segno della precarietà, quasi un’evidenza testamentaria, è la cifra dei diciassette testi che Andrea Italiano (Barcellona Pozzo di Gotto, 1980) ha raccolto per la sua ultima pubblicazione: Solo l’uomo, Ladolfi Editore (NO), 2016.
Precarietà che si manifesta in uno stile inquieto, che alterna, anche all’interno degli stessi componimenti, ritmi spezzati e respiri lunghi quasi a ricreare una perpetua apprensione, un disagio nei confronti di una storia, quella presente, percepita nella sua assenza di prospettive: «sono nel mezzo della vita / metà ormai dietro le spalle / metà forse non ci sarà» (p. 15).
Precarietà, si diceva, non solo sociale ma più tragicamente esistenziale, l’identità non è semplicemente scissa bensì boccheggiante: «io sono già morto / non più decadente» (p. 19).
Una poesia postuma, allora, che non vibra, ha, com’è giusto, rinunciato per necessità ad ogni afflato lirico, indirizzandosi all’evidenza della fine. Se il senso – e il segno – è qualcosa di deperibile, non per questo è possibile rinunciare alla traccia, a un’azione che ripete per “dovere” l’urgenza di essere, per quanto effimera, in quanto ombra: «Lo scherzo alla maestra / aveva preso i contorni di allegoria / lei scriveva noi cancellavamo / lei scriveva noi cancellavamo / lei scriveva noi cancellavamo / com’è vana la vita» (p. 20).
Cancellazione e sfasatura, nessun appiglio se non nella stessa insicurezza che ci costituisce. Se, infatti, «nel tuo stesso nome ti ritrovi straniero» (p. 22), è la condizione umana a evidenziare la propria alienazione, e il titolo della raccolta, neanche troppo ironicamente, ne è segnale esplicito.
Ribadendo uno sfondo di sfiducia nei confronti del mondo e, soprattutto, nei confronti dell’uomo escluso da ogni azione nel mondo, emerge infine una volontà accusatoria, diretta, come si legge nell’ultimo testo, alle recenti generazioni. Eppure trasudante, in modo del tutto originale, speranza per il futuro. “Spes contra spem”, ma solo escludendo gli attori del presente, padri e figli, incapsulati irrimediabilmente nel circolo vizioso della ripetitività che oscilla tra inutilità e convenienza.


Testi da Solo l’uomo

Fiorin lavora con me
è rumeno più piccolo di me
ha due figli Alessio e Sonia
sua moglie Adriana la incontro ogni mattina
mentre va al lavoro
cammina con passo leggero e veloce
come chi ha troppi pensieri nella testa
ogni tanto gli parlo di matrimonio
gli dico che mi spaventano le bollette le scadenze
i conti da saldare e poi i figli
se vengono malati? se crescono storti?
lui non mi capisce
mi dice di guardare alla sua vita
povero come me cane come me
eppure tira avanti
il futuro lo spaventa ma lo aspetta
mi sembra di vedere i miei nonni
qualche anno dopo la guerra
nessun sogno in testa
tanta forza nelle braccia
Florin non lo sa
che i suoi nipoti parleranno come me
lui è giovane
io sono già morto
non più decadente.

*

Lo scherzo alla maestra
aveva preso i contorni di allegoria
lei scriveva noi cancellavamo
lei scriveva noi cancellavamo
lei scriveva noi cancellavamo
com’è vana la vita
avrà pensato alla centesima volta
anche il solco più profondo
il vento la pioggia lo cancella
eppure continuò a scrivere
e dopo noi per altri
è un dovere sforzare la mano al segno buono
trattenere è l’unico dovere che ci compete
ohimè.

*

Anche togliere una virgola
uno starnuto dal discorso
da quelle origini che non conosci
una via anziché un’altra
questione di centimetri
e la catena salta la vita prende altre direzioni
da biondo a bruno
da ricco a povero
da vivo a morto e non sei più tu
nel tuo stesso nome ti ritrovi straniero.

*

Laura è un puglile
sta sul ring come una farfalla
sembra che i colpi non le arrivino
non le facciano male
ma non è così
e giorni ci sono che passa al martello
ti stringe alle corde
ti lascia di stucco
“cappello” ti fa dire
Laura ci sa fare
arrossisce lieve per uno sguardo
per una carezza sulla mano
ma credimi quando ti dico
che la felicità non è sempre facile
che spesso la vita è un prestito a usura
e per questo il tuo treno destro
usalo spesso più spesso
schiantaci
ma Laura lei non è un fiore
lei è un augurio.

*

Dolcemente ucciditi
padre
fallo con gran spargimento di sangue
e ucciditi
facci questo ultimo dono
perché noi non sappiamo farlo
fallo come è giusto che sia
ci hai messo al mondo ora facci spazio
e sulla tua carcassa benedetta
cresceremo i nostri figli
così che possano ucciderci
almeno loro con le loro mani
perché è giusto così
oh beata generazione quella dei nostri figli
si riprenderanno il loro posto nell’universo
sapranno essere uomini e costruttori di futuro
nel loro nome si riconosceranno
assassini e giusti
faranno più cose di noi
e padri sgozzati
cambieranno qualcosa di quello che a noi sembra una scena immutabile
faranno il mondo nel modo in cui il mondo si fa
moriranno contenti
voi no (perché questi figli impotenti li avete cresciuti voi)
noi nemmeno (perché questi padri onnipresenti ci hanno fatto comodo.

LETTURE di Gianluca D’Andrea (5): IL TEMPO?

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Mario Martinelli, Elan vital (2007) ©. (Fonte: mariomartinelli.it)

di Gianluca D’Andrea

«poiché vi sono molte estremità che appartengono anche a diversi segmenti, le cose giudicate saranno molte e separate e differenti, e per certi versi non ancora separate, poiché il centro era in un certo senso molti, e ciascuno di questi molti discerne l’affezione sul proprio particolare segmento. Ma poiché ciò che è formato da tutti loro è uno e indifferenziato, ed identico sotto ogni aspetto, ciò che discerne sarà esso stesso una cosa sola, e discernerà [i differenti aspetti] simultaneamente».

Alessandro di Afrodisia
Spiegazione di un passo del [Libro] III [del] “De Anima”,
in cui Aristotele dimostra come esista un qualcosa per mezzo
del quale percepiamo simultaneamente tutto.

***

«un “certo tempo”, ma non il tempo stesso […]; un “certo tempo”, ma nessun tempo che possa a rigor di termini dirsi “adesso”, in quanto l’”adesso” costituisce il risultato del processo del “dire adesso” nell’anima, e dunque non può, da parte sua, determinarlo. È un altro tempo; per quanto il tempo non possa ammettere delle varietà di sé, esso può ben essere diverso da qualunque tempo.
[…] Nella circonferenza e nel raggio, dopo tutto, può esser presente il singolo punto, ma in entrambi si può anche intravedere il movimento di un’ulteriore facoltà: quella che consente di tracciarli».

Daniel Heller-Roazen
Il tatto interno – Archeologia di una sensazione

***

In fondo cos’è questo soggetto che traccia la sua scomparsa? Immerso in una forza attrattiva che chiamiamo tempo (“tempo impercettibile” secondo Aristotele), esso segnala la paura della propria caduta. In questa necessità riafferma la propria, ma non solo, presenza.
Che l’aisthēsis non sia nient’altro che la percezione di questa paura? Ogni nostra creazione vive in questo margine, l’orlo della scomparsa da cui si rende sempre un’ultima traccia.

Intervista su Transito all’ombra e Carteggi Letterari sulla Gazzetta del Sud (2 ottobre 2016)

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Intervista su “Transito all’ombra”, Marcos y Marcos, Milano, 2016 (uscita 29 settembre) per Marcello Mento, Gazzetta del Sud – Versione originale

1. Il tuo incontro con la poesia

1. Più che di un incontro con la poesia, parlerei di una necessità di scoperta, in primo luogo di me stesso, quindi del mondo, a partire dall’infanzia. I primi ricordi, in tal senso, riguardano degli esperimenti in versi di mia madre, la sua urgenza di esprimere le proprie sensazioni con quel tipo di scrittura. Non ho iniziato a scrivere le prime poesie a sette anni, come quasi “proverbialmente” accade a molti poeti, ma a quattordici, quando più forte fu la necessità di allontanamento dai modelli genitoriali, e il conseguente disorientamento. Ecco, con ogni probabilità, la mia urgenza di poesia nasce da questa imperfezione di messa a fuoco dei rapporti, da una “assenza” materna e, allo stesso tempo, da un esubero di presenza, in qualche modo parlerei di un “dovere” di scrittura. Ma “the imperfect is our paradise” scrisse Wallace Stevens, e va bene così.

 

2. Parlami di questa raccolta

2. “Transito all’ombra” è un attraversamento. Mentre scrivevo i testi del libro, tra il 2011 e il 2015, si verificavano insorgenze di ricordi della prima infanzia e cresceva una certa apprensione per il presente. Non ho avuto scelta o non ho saputo riordinare la cronologia del mio vissuto.
Un impasto temporale, evidente nella raccolta, è il risultato della mia inefficienza, della mia incapacità di distinguere e selezionare. Forse per questo, rispetto ai miei precedenti, “Transito” è un libro meno concluso, più aperto, esposto e, chissà, forse più umile. In sintesi, mi soccorrano queste parole di Andrea Zanzotto che dicono meglio di quanto io sia riuscito a esprimere sul mio stesso libro: «Resta ferma, insomma, la convinzione che la poesia debba ostinarsi a costituire il “luogo” di un insediamento autenticamente “umano”, mantenendo vivo il ricordo di un “tempo” proiettato verso il “futuro semplice” – banale forse, ma necessario – della speranza».

3. Hai scritto altre raccolte?

3. Sì, ne accennavo in precedenza. La prima raccolta è del 2004, “Il laboratorio”, anche se considero il mio vero libro d’esordio, un’autoproduzione on-line del 2007, “Distanze”. La stagione che precede “Transito all’ombra” e che, con la sua pubblicazione, può considerarsi terminata, include: “Distanze”, appunto, “Chiusure” pubblicato con Manni nel 2008 ed “[Ecosistemi]” uscito per L’arcolaio nel 2013.

4. Come vedi la poesia in una realtà globalizzata e interessata solo a cose prosaiche?

4. Come sempre, in deficit. Non per niente insieme a un gruppo di poeti messinesi abbiamo prima realizzato una rivista on-line – “Carteggi Letterari” che si occupa principalmente di critica ai testi di poesia, ma che ormai ha allargato il raggio delle pubblicazioni ai più svariati campi della cultura, con collaboratori provenienti dal resto d’Italia e internazionali – e, da marzo 2016, la casa editrice omonima, grazie alla generosità e competenza di Natalia Castaldi e di un comitato di lettura che comprende, oltre il sottoscritto, i poeti Diego Conticello, Francesco Balsamo (che è anche il disegnatore delle opere grafiche che accompagnano i nostri testi), Giampaolo De Pietro e Daniela Pericone. Questo slancio, spero risvegli le coscienze dei messinesi, ma non solo, e le avvicini a un linguaggio, come dicevamo, di difficile accesso.
A prescindere dalle epoche, comunque, è la prassi della poesia, la sua inadeguatezza nel colmare ogni assenza e la consapevolezza di quanto questa stessa assenza sia necessaria, a renderla indispensabile.
La dimensione “liminare” della scrittura in versi è la possibilità di riattivare un senso pure nel più “prosaico” dei mondi, se ho capito le intenzioni della domanda.
Mi sembra quasi superfluo affermare che oggi in poesia non si “canta” un mondo migliore, ma si tenta di migliorare la “lettura” del solito mondo, nella sua banalità. Cioè, seguendo il filosofo francese Jean-Luc Nancy, «il mondo, come tale, [che] ha per definizione la potenza di ridursi a nulla tanto quanto quella di essere infinitamente il proprio senso». Ecco, tra il senso e il niente del senso (la dimensione liminare di cui sopra) si muove la poesia: «In quei piccoli contenitori / dove la vita muore / da quelle piccole gemme / chiuse e umiliate in mano all’uomo / nasceranno le nuove cose», questi versi di Bartolo Cattafi, scritti nel 1972, credo facciano percepire meglio di qualunque spiegazione la necessità della poesia in qualsiasi epoca.

Transito all’ombra, Marcos y Marcos, Milano – 29 settembre 2016