
Charles Baudelaire verso il 1860 (Foto: Gaspard-Félix Tournachon, detto Nadar)
di Gianluca D’Andrea
Charles Baudelaire: una poesia da I fiori del male (1992)
Spleen – LXXVI
J’ai plus de souvenirs que si j’avais mille ans.
Un gros meuble à tiroirs encombrés de bilans,
De vers, de billets doux, de procès, de romances,
Avec de lourds cheveux roulés dans des quittances,
Cache moins de secrets que mon triste cerveau.
C’est une pyramide, un immense caveau,
Qui contient plus de morts que la fosse commune.
– Je suis un cimetière abhorré de la lune,
Où comme des remords se traînent de longs vers
Qui s’acharnent toujours sur mes morts les plus chers.
Je suis un vieux boudoir plein de roses fanées,
Où gît tout un fouillis de modes surannées,
Où les pastels plaintifs et les pâles Boucher
Seuls, respirent l’odeur d’un flacon débouché.
Rien n’égale en longueur les boiteuses journées,
Quand sous les lourds flocons des neigeuses années
L’ennui, fruit de la morne incuriosité
Prend les proportions de l’immortalité.
– Désormais tu n’es plus, ô matière vivante !
Qu’un granit entouré d’une vague épouvante,
Assoupi dans le fond d’un Sahara brumeux ;
Un vieux sphinx ignoré du monde insoucieux,
Oublié sur la carte, et dont l’humeur farouche
Ne chante qu’aux rayons du soleil qui se couche.
*
Spleen – LXXVI
Ho dentro più ricordi che se avessi mill’anni.
Un gran mobile ingombro di verbali e romanze,
letterine d’amore, bilanci, poesie,
di grevi ciocche avvolte in ricevute,
non nasconde i segreti che nasconde
il mio triste cervello. È una cripta, una piramide
immensa, con più morti della fossa comune…
– Eccomi: un cimitero che la luna aborrisce
e dove lunghi vermi vanno, come rimorsi,
senza posa all’assalto dei morti che ho più cari;
un salotto decrepito, gremito
d’oggetti fuori moda fra le rose appassite,
i pastelli lagnosi e i pallidi Boucher
che profumano, soli, come boccette aperte.
Niente uguaglia in lunghezza quei giorni zoppicanti
che sotto i fiocchi grevi delle annate di neve
la noia, triste frutto dell’incuriosità,
prende misura d’immortalità.
– E tu ormai non sei altro, materia della vita!
che un granito assediato da un labile terrore,
immerso nella bruma d’un Sahara profondo;
vecchia sfinge obliata dal mondo indifferente
e che le mappe ignorano e soltanto
ai raggi del tramonto ferocemente canta!
(Trad. di Giovanni Raboni)
Postilla:
Il mondo dei ricordi ingombra la mente, rischiando la deformazione del soggetto – «J’ai plus de souvenirs que si j’avais mille ans». Il cervello è la tomba del passato e la sua forma labirintica, “verminosa”, è la forma di una scrittura appassita a rischio di dispersione. Proprio da questo rischio nasce la noia, “ennui” che prende l’aspetto eternizzante, non tanto della decrepitezza, ma degli abusati simboli in disfacimento: il “Sahara brumoso”, “il granito assediato” dal terrore della scomparsa, la “vecchia sfinge” che finge di essere “ignorata”, perché invece è lì dove la scrittura, in un movimento spiraliforme, à rebours, la cita, riprende rilievo e fuoriesce dal presunto oblio. L’atmosfera ipnotica, il sonno della ragione, si ribalta nella sua conclusione. Il finale del testo è chiaro: se il segno perde aderenza è perché il mondo è indifferente al suo richiamo, ma la persistenza del richiamo è la sfida che il simbolo misterico (il linguaggio) lancia continuamente al mondo, la sua necessità di restare e mantenere un legame, per quanto distorto, per quanto mostruoso, con lo stesso. Agonia e controspinta agonistica del segno, al limite della scomparsa del senso, le nuove parole, le abbrutite, le “verminose”, manifestano la trasformazione, il passaggio a un nuovo universo di significazione. Ancora “boiteuses” ma sempre in cammino, i giorni a venire, le voci a venire, faranno vibrare il loro “canto feroce”, persino negli ultimi raggi del sole tramontante. Speranza è forza nel disastro, per quanto il ricordo sia «une pyramide, un immense caveau, / Qui contient plus de morts que la fosse commune».