L’idea irraggiungibile: Due testi di Clemente Rebora da “Canti anonimi” (1922)

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Clemente Rebora

di Gianluca D’Andrea

L’idea irraggiungibile: Due testi di Clemente Rebora da Canti anonimi (1922)

«E l’individuo, nulla per sé, è tuttavia creatore nella storia».

G. Contini (Due poeti degli anni vociani: I. Clemente Rèbora, in Esercizî di lettura – Sopra autori contemporanei con un’appendice su testi non contemporanei. Nuova edizione aumentata di «un anno di letteratura», Einaudi, Torino, 1974, p. 4).

Scrive Contini, nel saggio citato in esergo, riflettendo sullo storicismo presente nell’opera reboriana: «l’attuazione dell’idea nel reale è […] interpretata nel senso dell’insufficienza della rappresentazione e della riflessione alla comprensione del reale» (G. Contini, Due poeti degli anni vociani, in op. cit., p. 4). Questa storia dell’idea, interpretata come irraggiungibilità dell’ideale in vita, si concentra sulla “lombardizzazione” delle scelte linguistiche, riguardanti lo storico senso d’inferiorità di una koinè che, nella consapevolezza della distanza dalla lingua “letteraria”, scopre la plausibilità di emancipazione dalla stessa, proprio credendo nell’umiltà scarna delle sue potenzialità.
L’accensione, l’ideale di lingua pura, s’intensifica, anzi, dal basso, da un humus popolare che tenti di ristabilire il contatto con la “naturalità” di «un’immediatezza ingenua» (G. Contini, ibid., p. 7). L’iniziazione alla natura, appiglio “reale” che, però, si rifà a un’idealizzazione della stessa, ottiene come risultato il sentimento nostalgico verso una purezza illusoriamente perduta, in sostanza è il tentativo di annullare il divenire, questione ben evidente in alcuni testi dei Canti anonimi:

Sotto il deserto

Sotto il deserto
Sterile nel tempo,
Procede fresco e lento
Un fiume immenso.

*

La terra gli fa largo,
E si pulisce;
La tenebra in letargo
Si spoltrisce.

*

Nel profondo trae umore
Da chi vive e da chi muore:
Comunica col mare
E vien dalle montagne:
Aiuta le compagne
Che sono in mostra al sole,
Acque cupe e acque chiare;
E circola, e varia
Con le nuvole dell’aria.

*

Ogni goccia in sé raccoglie
Che filtrava esaurita,
E l’abbevera di vita,
Non più sola con la morte.

*

Ma di fuori sta il deserto
Senza avere giovamento:
Moltiplica la sabbia,
Ammucchia pietre e rabbia;
Ignora il fiume immenso,
Che se sporge in refrigerio
Dentro l’oasi feconda
Una cinta lo circonda,
E fa suo il desiderio.

*

Così il fiume torna ancora
Nel mister del proprio corso –
E per sé nemmeno un sorso.

(C. Rèbora, Le poesie, a cura di G. Mussini e V. Scheiwiller, Garzanti, Milano, 1999, p. 157).

Le referenze, evidentemente antinomiche del “deserto” e del “fiume”, espresse nell’incipit del testo, mascherano il proprio antagonismo nel ritmo giocoso, al limite della filastrocca, esprimendo una scelta di poetica: la simplicitas linguistica può già intendersi come tensione alla purezza ingenua, fingendo un raggiungimento innocente che, dal piano formale, si dipana sugli impulsi timbrici. Così, le gocce raccolte nel fiume dell’esistenza significano, attraverso l’utilizzo di una metafora estremamente semplificata – retorica del luogo comune – la tensione a un’appartenenza tradita, per cui l’alterità non è accettata, se non nel senso di un’opposizione ipostatizzata. L’alterità (il fiume?) appare, certo, ma come macchiata da una colpa, per cui il divenire è allegorizzato ambiguamente, così da risultare costipato nella metafora bassa, che vede come unica risorsa il contatto con una zona del reale minima, che il soggetto desidera originariamente pura.
La stessa tensione assoluta è avvertibile anche in Gira la tròttola viva (C. Rèbora, Le poesie, op. cit., p. 159):

Gira la tròttola viva

Gira la tròttola viva
Sotto la sferza, mercé la sferza;
Lasciata a sé giace priva,
Stretta alla terra, odiando la terra;

*

Fin che giace guarda il suolo;
Ogni cosa è ferma,
E invidia il moto, insidia l’ignoto;
Ma se poggia, a un punto solo
Mentre va s’impernia,
E scorge intorno, vede d’intorno;

*

Il cerchio massimo è in alto
Se erige il capo, se regge il corpo;
Nell’aria tersa è in risalto
Se leva il corpo, se eleva il capo;

*

Gira, – e il mondo variopinto
Fonde in sua bianchezza
Tutti i contorni, tutti i colori;
Gira, – e il mondo disunito
Fascia in sua purezza
Con tutti i cuori, per tutti i giorni;

*

Vive la tròttola e gira,
La sferza Iddio, la sferza è il tempo:
Così la trottola aspira
Dentro l’amore, verso l’eterno.

Il perno simbolico dell’esistente si ravviva in un movimento impresso dall’alto, che attrae «verso l’eterno» (v. 24). Perno che, se abbandonato, lascia la vita «priva, / Stretta alla terra, odiando la terra» (vv. 3-4). Ancora a emergere è il senso di una mancanza, che andrebbe riempita col restauro di una purezza originaria, l’idea di un punto fisso. Ancora al divenire occorre un’origine – la metafora semplice della trottola, che si richiama all’immaginario infantile – che funga da canale simbolico per una definizione evidente del reale. La vibrazione allegorica, appena accennata, è identificabile nello spostamento del segno che non ammette il mutamento senza direzione, anzi diventa il desiderio stesso che si convoglia nell’immutevolezza; la circolarità ripetitiva che abbisogna di una spinta per attivarsi, ribadita dall’associazione amorosa: «Così la trottola aspira / Dentro l’amore, verso l’eterno» (vv. 23-24). Questa poesia aspira, così, alla permanenza, per rispondere all’assenza e alla caduta nel caos della materia. Poesia del rimpianto, anticipata già dal linguaggio dei Frammenti lirici, anche se lì era avvertibile un diverso slancio espressivo, per quanto chiuso dalla morale stringente di un «mistico colloquio» (LXVIII, in C. Rèbora, Le poesie, op. cit., p. 124, v. 2) che sarà conservato ad ogni costo (vedi la scelta esistenziale dell’autore) nel rifiuto definitivo del mondo, nella scelta dell’Altro assoluto, immobile: la non fattiva «trasparenza dell’eternità» (ibid., p. 124, v. 4).

(Marzo 2014)

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