Nella spirale. Intervista a Gianluca D’Andrea – Satisfiction

Nella spirale (Stagioni di una catastrofe) è il nuovo libro di Gianluca D’Andrea, uscito per Industria&Letteratura 2021 nella Collana Poetica diretta da Niccolò Scaffai e Gabriel Del Sarto con la postfazione di Fabio Pusterla. Come già in passato, l’autore si confronta con l’estasi della scrittura che esce sempre fuori dai propri limiti narrativi e poetici e si fa saggio ma sui generis. Assaggio. Tentare il cammino nel territorio più sconosciuto e estraneo: quello che ci appartiene, l’ombra interiore che diventa paesaggio lunare di un’isola nelle retine dell’infanzia. Il libro articola le quattro stagioni in 40 componimenti suddivisi in gruppi da 10 e come la transizione della stagione in un’altra è un lento dividersi di cromatismi e suoni che pur unisce, allo stesso modo la scrittura stabilisce legami sottili e profondi tra una stagione e l’altra, tra una stasi e la successiva. Estasi, appunto. L’andamento è frattalico sempre in circolo attorno al buco nero, la caverna, l’abisso, la maschera che copre il buco-bocca, e sempre preciso nel servire l’appiglio, l’aiuto al mancamento: i padri, le madri, i testi in esergo e dentro al foglio dei maestri. La catastrofe sociale e ambientale subisce una metamorfosi: la fine è un mondo nuovo e la scrittura pare farsi protesi potenziante di un corpo bio-sociale in sfacelo. La quattro stagioni sono musica con catarsi finale. Quadrifarmaco del nuovo nulla post-pandemico.

Gianluca Garrapa

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«L’aria s’ispessiva in blocchi grigi sparpagliati tra le pareti cavernose.» È un estratto da Nelle profondità III dalla seconda sezione Estate. Qui come altrove, il buco e la spirale del titolo che evoca un abisso, un vortice. La lettura trascina da una materia scomposta fino a un nuovo modo e mondo di intendere il rapporto della parola con l’ambiente. Il titolo è anche un’evocazione dell’inferno, dell’interno, del buio di questa pandemia. Che rapporto esiste tra la tua scrittura e il meccanismo sociale e ambientale intorno?

Di scambio continuo. Ne parlavamo proprio insieme in un’altra intervista di un po’ di tempo fa (alla quale mi permetto di rimandare: Conversazione con Gianluca D’Andrea su “Forme del tempo”). In quel caso discorrevamo del segno linguistico e della possibilità o meno che esso possa restituire una referenza; adesso la tua domanda sembra confermare che un’occasione di contatto tra parola e mondo (traduco così il tuo “meccanismo sociale e ambientale”) esista, anzi, sembra proprio necessaria.

Nella spirale, nasce e si sviluppa durante il primo lockdown, in un’atmosfera di reclusione comunque coatta, per quanto giustificata dall’emergenza sanitaria. È una specie di diario del mutamento, perché se partiamo dal presupposto di una responsabilità dell’inclusività, cioè dell’«incontro tra la consistenza oggettiva del fenomeno e l’esperienza che il soggetto ne fa» (come dice Niccolò Scaffai in Letteratura e ecologia, riflettendo sull’opera del filosofo giapponese Watsuji Tetsurō), allora la tensione al contatto con “l’ambiente intorno”, ha sicuramente subito una battuta d’arresto. L’operazione del libro, e il titolo prova indicarlo, è una discesa nel territorio dello stesso mutamento che prova a scandagliare il “buio” di cui dici e la speranza di un miglioramento.

Come nell’Un-zuhause heideggeriana, si tratta di spingere sempre, nonostante l’angoscia, a una fuoriuscita, in primo luogo da sé, e dalla convinzione che «al buio non vi è […] “nulla” da vedere» perché, invece, a partire da quel nulla «proprio il mondo “ci” sia ancora in una modalità di maggiore urgenza» (M. Heidegger, Essere e tempo, Mondadori, Milano, 2006, p. 541)

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Intervista su “Nella spirale” per Radioquestasera

Podcast dell’intervista del 4 dicembre 2021 di Radioquestasera PuntoRadioFM Bernardo Cirillo: Gianluca Garrapa intervista il poeta Gianluca D’Andrea su Nella spirale (Stagioni di una catastrofe) edito nel 2021 da Industria e Letteratura. Al libro l’autore abbina il brano musicale “Sonata prima” (from Sonate concertate in stil moderno per sonar, libro secondo) di Dorothee Oberlinger, Dario Castello.

Buon ascolto!

“Nella spirale (Stagioni di una catastrofe)”. Gianluca D’Andrea e le “coordinate di una mappa sempre in divenire” (Intervista completa sull’EstroVerso)

Foto di Dino Ignani

Avanzare, “camminare scalzi”, passo dopo passo realizzare “il contatto pieno con ciò in cui ci troviamo”. Ritornare, e all’arrivo “una nuova attesa ad attenderci”. Desiderare, “un altrove”. Reinventare, fuori “dal commercio degli uomini”, fuori “dal dominio e dalla clausura”, dentro “il mistero dell’ambivalenza dell’essere”, dentro “il limite del nostro abitare”, dentro “l’atmosfera mutevole del profondo”, dentro questo “tempo inesistente”, (forse) ultima possibilità di “agganciarsi a qualcosa di concreto”, dentro “alle stagioni in cerca d’altro mare”. Suggestioni raccolte leggendo il volume “Nella spirale (Stagioni di una catastrofe)” di Gianluca D’Andrea (nella foto di Dino Ignani), pubblicato da Industria&Letteratura, nella collana “Poetica”, a cura di Niccolò Scaffai e Gabriel Del Sarto (in copertina illustrazione di Francesco Balsamo; all’interno disegni di Vito M. Bonito). Un libro complesso, prodigo di riferimenti, di interrogativi sottesi all’unico “vero accordo col mondo”, pensato in quaranta “scintille” che ci fanno (ri)percorrere un vertiginoso vortice, acceso da “un costante dialogo con una vasta galassia di autori”, scrive Fabio Pusterla nella postfazione.

La scrittura è forse “l’ultima possibilità di agganciarsi a qualcosa di concreto?”

No, non credo. La scrittura per come la conosciamo è a un punto di svolta epocale. Non è solo la preponderanza dell’immagine legata alla rete a far slittare i significati, ma l’apertura di un nuovo “reale” derivante dalla connettività associata.
La scrittura, in questo contesto rinnovato, funge da monito o promemoria, ci ricorda che un cammino esiste, che il linguaggio è la proiezione di una soglia e, di conseguenza, della scelta. Il progresso dell’umanità da due secoli a oggi sta riducendo il margine stesso di questa scelta, per tale motivo ritengo che alla scrittura spetti sempre più un ruolo secondario, per niente concreto (se con il termine intendiamo qualcosa di chiaramente individuabile), anzi totalmente affabulatorio. D’altronde, la citazione interna alla tua domanda è all’inizio di Nella spirale, dove ci si riferisce al tempo inesistente e circolare del mito, non a quello lineare e “progressivo” della storia. Eppure, non è dato sapere se questo vivere sul bordo del significato, della scrittura e specialmente della poesia, non possa essere un modo per resistere a una scomparsa e immaginare un nuovo inizio. Non è la scrittura ma è un’epoca che si dissolve a far intravedere una nuova individuazione, un nuovo mondo. La scrittura si limita a sentire il transito. Più avanti nel libro, saranno le parole di Stephen Watts a fissarlo: «Sono le cose ai margini / remoti che stanno al cuore del nostro / mondo, e ci staranno sempre, quando / ogni altra cosa sarà andata distrutta».

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“Nella spirale” su La Sicilia

Nella spirale

su La Sicilia del 31 ottobre, a cura di Grazia Calanna per la sua rubrica Ridenti e fuggitivi

Visite allo zoo/8: Gianluca D’Andrea

Oggi su LE PAROLE E LE COSE² Massimo Gezzi mi fa alcune domande su insegnamento e poesia, insegnamento della poesia con tutte le difficoltà (e la bellezza) che comporta.


a cura di Massimo Gezzi

[Ottava apparizione per “Visite allo zoo”, la rubrica a cura di Massimo Gezzi costituita da una serie di interviste a insegnanti-scrittori e scrittrici sulla difficoltà (ma anche sulla bellezza) di insegnare la poesia e la letteratura a scuola oggi, sulla relazione tra il mestiere di scrittore e quello di insegnante e sul senso di questa professione. Dopo Fabio Pusterla, Francesco TarghettaMarco Balzano, Marilena RendaGian Mario Villalta, Paolo Febbraro e Tommaso Di Dio, oggi risponde Gianluca D’Andrea].

1) Per prima cosa, per contestualizzare quanto stiamo per leggere, che contratto hai, quanto e dove insegni?

Ho un contratto a tempo indeterminato dal 2014, dopo l’iter, per la mia generazione tristemente convenzionale, del precariato, durato 10 anni in giro per la penisola (nello specifico Sicilia e Lombardia, con una tappa intermedia a Firenze). Ho sempre lavorato alle scuole medie alternando Lettere e Sostegno. Adesso insegno stabilmente Lettere in una scuola media a Treviglio in provincia di Bergamo.

2) Ho intitolato un contributo apparso sull’«Ulisse» Una visita allo zoo. L’idea nasceva da una riflessione sui programmi e sulla pratica didattica tipica del liceo ticinese (quello in cui insegno), ma forse, per buona parte, anche di quello italiano: a scuola trattiamo prevalentemente poesia e autori che scrivono in versi, mentre la società contemporanea e il pubblico dei lettori italiani seguono e leggono – se li leggono – quasi esclusivamente scrittori in prosa (soprattutto romanzieri). Come mi capita talvolta di dire ai ragazzi e alle ragazze, i poeti somigliano sempre di più ad animali in via di estinzione o esotici relegati in uno zoo (la scuola, l’aula) e affidati a dei custodi (gli insegnanti). Senza questo recinto istituzionale, la poesia tutta – anche quella altissima: poniamo Dante, Leopardi, Montale – avrebbe ben poche chances di essere letta dalle nuove generazioni. Sei d’accordo con questa diagnosi? Anche a te, qualche volta, è sembrato di lavorare in un zoo?

Inizio dalla fine: l’immagine dello zoo per me è “limitante”, fa pensare a gabbie, recinti, zone di clausura. Vero, esiste la questione dell’obbligo, della burocrazia, delle programmazioni, eppure ho sempre percepito la scuola come un passaggio, un attraversamento. Mantenendo una certa aderenza con la tua metafora, allora penserei a un safari, in cui ognuno di noi, senza troppe distinzioni tra alunni e docenti, può accumulare istantanee e provare a elaborare un percorso di crescita. Io, poi, parto da esperienze diverse rispetto alla maggior parte degli autori che hanno già risposto a queste domande (solo Marilena Renda, ha avuto esperienze simili durante gli anni di precariato). Insegnando alle medie, la poesia non ha un ruolo preponderante come nelle programmazioni liceali, anche se in prima con l’Epica e in seconda e terza con i primi approcci alla Letteratura, chiaramente affrontiamo la questione. La dominante con i ragazzini dai 10-11 ai 13-14 anni che si avvicinano alla poesia dopo le esperienze per lo più mnemoniche delle filastrocche elementari, è quella emozionale e questa, per quanto mi riguarda, è una fortuna. In prima media, siamo ancora abbastanza liberi dai pregiudizi sul genere, quindi è relativamente facile impostare il lavoro sulla poesia partendo dalle sensazioni prodotte dal testo nudo e crudo e solo dopo arrivare anche agli aspetti tecnici e alla storia dell’autore che l’ha composto. Quando parlo di emozione, parto da ciò che vedo, le reazioni dei ragazzi, che vivono l’esperienza come un movimento che li porta verso l’esterno, un’alterità inesplorata che la prosa non riesce a suscitare, perché, a detta loro, li “immedesima” nella storia, in qualcosa che riconoscono. In poche parole, la poesia li disorienta e li sorprende (solo due generi che affrontiamo in Antologia hanno questa capacità estraniante e “tensiva”: l’horror e la fantascienza). Chiaramente è una constatazione di massima, è ovvio, infatti, che non tutti possono avere la stessa attenzione o sensibilità, per motivi che esulano la didattica e spesso sono  dettati da disagio sociale, psicologico, ecc. La maggior parte del mio precariato l’ho vissuto in scuole di “frontiera”, in periferie urbane dissestate, al sud e al nord del paese senza distinzione, probabilmente ho imparato in questi ambienti la grande necessità di relazione e trasmissione che condiziona ogni linguaggio, poesia compresa.

Forse ho un po’ travisato il senso della tua domanda, credo però che la custodia cui ti riferisci non sia sufficiente, non salvaguardiamo semplicemente una tradizione ma la rimettiamo in circolo, provando a indirizzarne il flusso. Mi sembra necessario correre questo rischio.

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Intervista su “Transito all’ombra” – Il posto delle parole

Una bella discussione tra me e Livio Partiti su Transito all’ombra per Il posto delle parole

A questo link il podcast. Buon ascolto.

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QUALCOSA ANCORA DA COGLIERE. POESIA, TERZO PAESAGGIO? UN DIALOGO CON GIANLUCA D’ANDREA

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Foto di © Sally Gall, Tailwind, 2015 (particolare)

     Poesia, terzo paesaggio?, rubrica a cura di Laura Pugno

[Questa rubrica, o meglio inchiesta, Poesia Terzo Paesaggio?, nasce dal desiderio di entrare in dialogo con altri poeti, scrittori e chissà, in futuro, anche artisti, chiamati a rispondere a un identico questionario.

La conversazione ha per cuore l’analogia tra la poesia in Italia oggi e il concetto di Terzo Paesaggio, che si deve al paesaggista francese Gilles Clément.

Analogia che ho tratteggiato nelle ultime pagine del mio saggio In territorio selvaggio (Nottetempo), riportate qui, e a cui rimando per approfondimenti.

L’analogia è appunto un’analogia, un’intuizione, non una tesi sistematica – come del resto anche l’idea stessa di Terzo Paesaggio sembra essere. Allo stesso tempo, ha qualcosa di vero. Di quel vero che è delle intuizioni, delle immagini. Spaventoso e allo stesso tempo confortante (uso non a caso questo aggettivo).

Terzo Paesaggio è una definizione che, precisa Clément, rimanda “a Terzo Stato, non a Terzo Mondo. Uno spazio che non esprime né potere, né sottomissione al potere.” Ma il Terzo Paesaggio è anche “uno spazio comune del futuro”.

Può questo oggi aiutarci a pensare la poesia? Potere non ne ha. Cerca sottomissione al potere? Qual è il suo spazio comune nel futuro? (Laura Pugno)].

Immaginiamo di essere nello stesso posto e che questa conversazione avvenga in un luogo. Metto qui, in questo spazio, un’analogia, allo stesso tempo precisa e imperfetta come tutte, che la situazione della poesia italiana e non solo italiana oggi abbia qualcosa in comune con quello che il paesaggista francese Gilles Clément denomina Terzo Paesaggio. Cosa te ne sembra? La senti vera? Cosa ti fa ulteriormente immaginare?

«Si orienta la selva ed è giardino»

A. Zanzotto

Che viviamo un mondo immaginifico, una costante ricreazione di immagini che fatichiamo a focalizzare e fissare. Che queste immagini provengono da crepe sgorganti sempre nuovi umori, relazioni, crasi potenziali.
Eppure quanto espresso è da verificare perché lo è l’idea stessa che abbiamo di “paesaggio” che esula, probabilmente, da una prospettiva specificamente topologica. Me lo fa pensare l’analogia da te proposta, perché la poesia è un fenomeno non circoscrivibile e, quindi, incollocabile dal punto di vista spaziale. Anzi, è possibile che quella della poesia sia la parola della dis-locazione, la manifestazione del transito di una presenza.

Partirei, allora, da un tentativo di ridefinizione che riattivi lo spunto da te proposto tramite il saggio di Clément. Credo che oggi sia poco necessaria una classificazione per tipologie paesaggistiche; ritengo, inoltre, che l’uomo e il pianeta con esso abbiano attraversato definitivamente il limite che li rende – e li arrende – alla loro stessa marginalità. Questo il saggio di Clément lo dice quando accenna al mondo come giardino planetario, nella sua finitezza o, seguendo Nancy, mondializzazione (un concetto ibrido tra mondanità e globalizzazione). L’essere immersi nell’immanenza fattuale del mondo, dell’unico mondo possibile, ne dispiega la “periferizzazione” ma non ne annulla le capacità germinative. Di più, è estinta de facto qualunque distinzione tra centro e periferia perché sono decaduti i fondamenti dialettici che la sostenevano. La parola della poesia, nella sua ostinata ricerca di verità, prendendo atto della destituzione dialettica appena citata, apre alla diversificazione rizomatica. In questa dimensione, poesia e mondo possono istituire connessioni molteplici e produttive in qualsiasi direzione. Il rischio di isotropia che può derivare dall’interscambiabilità delle direzioni è lo stesso che corre la parola in un mondo in continua trasformazione ma economicamente omogeneo (la globalizzazione di cui sopra, appunto. Ma proverò ad approfondire rispondendo alla tua terza domanda).

E la poesia: e la letteratura, l’arte più in generale? Che tipo di paesaggio occupano intorno a questo incolto, residuo, friche?

Mi piace pensare a questo “incolto” in prospettiva futura: come qualcosa ancora da cogliere. Una “pregnanza”, direbbe François Jullien, che è dimensione ambientale e che “promuove” il paesaggio.
Prioritariamente si tratta di cogliere in poesia un’insorgenza, dal margine che è la poesia stessa (e l’arte in generale) una nuova gemmazione. In questi termini essa è evocazione di un nuovo paesaggio, lo preannuncia. Attraverso la parola della poesia si accerta una scomparsa per consentire una presenza (in questo si avverte una forte similitudine con la fotografia). Poesia e paesaggio suscitato sono segnali di resistenza della vita nell’attraversamento della fine.
La poesia, mi ripeto, non occupa nessuno spazio, perché in quanto parola nel mondo, nella verità sempre nascente del mondo, è raccolta potenziale di ciò che avviene. Ogni arte risiede nell’incolto che il mondo è prima di germogliare rinnovandosi. Si corre sempre e soltanto il rischio di mancare l’appuntamento con l’insorgenza, con l’evento.

In cammino dentro il mondo è la parola che ne accoglie la necessità e che si fa capace di correre il pericolo insito nella stessa accoglienza: l’abbandono. Un’urgenza della parola – nel nostro mondo messo al bando da ogni trascendenza, sacro perché bandito nella sua mondanità (Agamben) – è la denuncia di una possibile scomparsa. In questo modo interpreto la tua domanda in maniera più estesa: una volta assodato l’abbandono fattuale del mondo a se stesso, occorre considerare la sua fattività. Nessuna epochè temporale, nessuna attesa che qualcosa avvenga, perché tutto costantemente avviene. L’arte, la parola della poesia nello specifico, dovrebbero ricostituire modalità d’intervento su un terreno intensamente sfruttato e allo stesso tempo residuale (il terzo paesaggio di Clément, per me il mondo nella sua globalità). Perché, lasciando da parte qualsiasi catastrofismo, ma anche certo lassismo attendista, il mondo oggi come ieri è dentro un abisso. Nessuna connotazione moralistica in questo termine certamente abusato, ma la mera constatazione etimologica del “senza-fondo” che il mondo da sempre è. Solo che la nostra attualità esige una riformulazione etica del limite, anche perché, se non si rispondesse a questa necessità, le potenzialità liberatorie del senza fondo (e del senza-confine) si ridurrebbero, come storicamente è stato, agli abusi di un soggetto (uomo) su un oggetto (mondo-paesaggio).

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Conversazione con Gianluca D’Andrea su “Forme del tempo”

Una bella intervista/conversazione con Gianluca Garrapa, partendo da Forme del tempo. Oggi su Nazione Indiana.


Gianluca Garrapa: È uno spazio-tempo desiderante questo lavoro di Gianluca D’Andrea: Forme del tempo – (Letture 2016-2018), edito da Arcipelago Itaca nel 2019 nella Collana Sorgiva, non sembra avere una forma maggioritaria, né una cronologia che imponga una lettura lineare. Si apre con l’emergenza di una frattura, di una ferita: questa è descrittura degli stati transitori. Stati che sono anche Stati politici, ostinati nella stasi del confine che va, invece, enucleato, attraversato e, ci si augura, abolito. Nomadi citati nel collage, frammenti di pensiero, frattempi lirici che di Io non ha altro che il nulla, la morte. Morte come fine, fine a cosa? A cosa si finalizza la morte? Alla memoria? A un’altra vita. La fessura. Il buco del reale che il simbolico non può inquadrare: è questo il pensiero che cammina imperituro costeggiando curiosità, poesia e politica. È un’erranza del desiderio, una desideranza della scrittura che riflette sia in sé stessa sia nello speculare del lettore. Non è una lettura facile o difficile. Richiede una consonanza col proprio desiderio perché il riflesso, appunto speculare, lo specchio, la parola è sempre a doppio senso in questo scritto, perché il riflesso possa farci riconoscere il desiderio dell’Altro, che appartiene all’altro e non a noi; al lettore appartiene il suo proprio desiderio che riconosciuto permette di ascoltare, senza livellarlo o distruggerlo, il desiderio dell’altro. Sicché non si tratta di segregare forme poetiche, di separare poesia neo-lirica e poesia sperimentale e decidere cosa sia vera poesia. Poesia è la bordura simbolica del mancante, del vuoto, non negativo, che non si può dire a parole e forse nemmeno per immagine. C’è un non dicibile che è come quel vuoto della brocca della cosa heideggeriana che permette al contenitore di contenere, alla brocca di dissetare se piena di acqua. Nasce tutto dal rischio di non esserci più, demartiniana memoria da fine del mondo, la paura della scomparsa: Che l’aisthesis non sia nient’altro che la percezione di questa paura? Ogni nostra creazione vive in questo margine, l’orlo della scomparsa da cui si rende sempre un’ultima traccia. Che il rischio a farci creare sia proprio il rischio di non esserci, lasciare testimonianza della propria caducità è insito all’arte? Come si configura una scelta poetica alla luce di questo rischio?

Gianluca D’Andrea: Dici già molto nella domanda e bene. A partire dall’erranza nomade della parola fino alla possibilità del vuoto, passando attraverso la “desideranza” della scrittura che già risponde al rischio della scomparsa e della necessità di testimoniare anche e soltanto “un’ultima traccia”. A questo punto il rischio in poesia si tramuta in azzardo, ancora necessitante, un po’ come nel coup de dés mallarmeano e, in questo senso, in questo salto, la scelta poetica si autoconfigura. Tutto diviene sim-plex, si auto-origina in continui passaggi, in mutamenti improvvisi della materia o, in una parola, nella metamorfosi. Mi viene da pensare a un’opera di Burri, Bianco Plastica del 1967:

Alberto Burri, Bianco Plastica (Combustione), 1967

Nella splendida analisi che ne fornisce Federico Ferrari (in F. Ferrari, J. L. Nancy, La pelle delle immagini, Bollati Boringhieri, 2003, pp. 113-114), la forma del quadro diviene l’attesa “di un corpo che si sottrae alla propria immagine” e che desidera/necessita (a questo punto cade ogni distinzione) solo la sua es-posizione. Anche la parola della poesia si espone al suo senza fondo. Tu la chiami fessura, buco o, interpellando Heidegger, vuoto; seguendo questa direzione si arriva alla vertigine dell’abisso, alla mise en abyme, laddove l’abisso nient’altro è se non il senza fondo, appunto, che la poesia, come ogni altra arte, manifesta. Senza nessuna connotazione morale.

G.G.: C’è questo medioevo elettrico, anzi, barbarie elettrica in cui si balbetta l’Altro e la propria angoscia selfando e disfacendo l’altro a propria immagine, senza immaginazione. Il rapporto tra reale e immaginario è oppositivo, non dialettico. Il simbolico sembra ricucire, il corpo simbolico del poeta che percepisce e restituisce le cose oscure del mondo che dette restano più oscure. Il tempo è il presente assente, la storia non codificabile dei giorni. In queste letture-riflessioni appaiono racconti di un’autobiografia il cui soggetto pare storico più che idiosincratico individuo. Racconto che narra il passato (ricordo d’infanzia) e poi Rocky o del molteplice individuale, racconto delle forme che ha assunto il tempo poetico intorno all’assenza, al manque di zanzottiana memoria, alla caduta, all’identità evaporata: un racconto intermittente – una storia per “pulsazioni” direbbe Nancy – baluginante dalle epoche fissate nel documento. Il racconto si fa poesia per dire il trauma presentato, fatto presente solo dal linguaggio che gli dà un nome. Ma il nome indica, mostra e non può dire questa ombra che pur senza peso pesa sul presente e è rizoma. Sfumature di un colore che cade e non cede al cromatismo dello sfondo. In questo senso, cosa è il racconto della poesia? E poi raccontaci questi due racconti alla luce di questa invenzione “vuota” che è l’identità dell’umano.

G.D.: “Sono gli eventi che rendono possibile il linguaggio”, questa affermazione lapidaria di Deleuze mi sembra rappresentare al meglio le possibilità di racconto della poesia. Provo a partire dall’origine della tua domanda: il medioevo o barbarie elettrica che “selfa” e disfa l’Altro. Di recente è apparso un mio inedito (prima sulle pagine di Repubblica e poi su Argo on-line, per intercessione di Gilda Policastro e Lorenzo Mari, che qui ringrazio vivamente), in cui dico queste parole: “nel tragitto information / highways per blastare e dissare / in eterno l’altro”. In questo caso, nell’utilizzo dello stesso linguaggio della rete emergono le linee di un conflitto improcrastinabile; non si tratta di neoluddismo, deep ecology, ecc., quanto di un’urgenza ontologica “contenente tutte le entità rilevanti e le loro relazioni in un dominio” (secondo le nuove applicazioni che il termine ontologia assume in campo informatico). In poche parole, occorre riconsiderare la vita relazionale e, quindi, sociale. Tu parlavi nella precedente domanda di “Stati politici” e ponevi l’accento sull’ambivalenza tra status individuale e vita associata, ecco il racconto in poesia interviene per rilevare che se non ci fosse un mondo, un altro, gli “eventi” di Deleuze, non sussisterebbe nessuna possibilità ontologica e, quindi, nessun linguaggio da mettere “in comune”. Una delle mie ossessioni attuali risiede nella capacità di trasformazione della parola in mythos (che poi è l’unica possibilità del racconto attraverso la parola, lo dice la stessa etimologia), e i due racconti da te individuati, infatti, si ricollegano a un percorso mnesico che tenta di fare i conti con l’assenza. Il primo (Ricordo d’infanzia) più evenemenziale, per cui l’infanzia diviene una sorta di escamotage apotropaico per eludere, o meglio, rendere presenti i fantasmi che a quel passato fanno riferimento (d’altronde ogni mito ci parla di ombre vive); il secondo (Rocky o del molteplice individuale), parla di un tipo di assenza più “intellettualizzata”, attraversata da un vento generazionale che include la mia attività poetica e di lettore di poesia. In entrambi i casi si tratta di una ri-creazione dello spazio che si apre ai mutamenti, come provavo a dire nella prima risposta, adesso posso aggiungere, al futuro.

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Intervista sull’EstroVerso a cura di Marco Sonzogni e Rossella Pretto

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Foto di Dino Ignani

Oggi per Chiedimi ancora, a cura di Marco Sonzogni e Rossella Pretto, un’intervista in cui parlo di poesia, immaginazione, sovversione. Si ringrazia l’EstroVerso (Grazia Calanna) per l’ospitalità.


La poesia come demone moraleggiante e condominio solitario: Gianluca D’Andrea e Alessandro Canzian

La poesia è urgenza di comprendere il mondo e restituirlo in immagini, vite vissute che si innestino tra le pagine.
Se Gianluca D’Andrea scandaglia il mondo attraverso strumenti sociologico-filosofici che rimettono poi in gioco la capacità immaginifica della parola, Alessandro Canzian cerca di rendere la distanza volontaria e inconsapevole tra le persone partendo da un vissuto intimo per allargare lo sguardo a una più vasta porzione di realtà.
Camminano dunque entrambi in quel solco che da individuale si fa condiviso.
Buona lettura!

Rossella Pretto e Marco Sonzogni

L’ultimo lavoro di Gianluca D’Andrea è Forme del tempo – (Letture 2016-2018) (Arcipelago Itaca 2019). In Postille (tempi, luoghi e modi del contatto) (L’arcolaio 2017) ha raccolto i commenti a singoli testi di poesia moderna e contemporanea, elaborati dal 2015 al 2017 in vari siti letterari. L’ultimo libro di Alessandro Canzian è Il colore dell’acqua (Samuele Editore, 2016). Condominio S.I.M. uscirà per i tipi di Stampa 2009.

CINQUE DOMANDE AI POETI: GIANLUCA D’ANDREA (1976)

1.
In uno dei mottetti per la sua musa girasole, Clizia, Eugenio Montale parla di «segno» che «s’innerva» e lo descrive con queste parole: «sangue tuo nelle mie vene». Cosa o chi s’innerva in te arrivando a scorrere nelle vene della tua scrittura?

Mi piace partire, per provare a rispondere a questa tua prima domanda, da un’espressione di Andrea Zanzotto, rintracciabile all’inizio di Fosfeni. Si tratta di «coagulo sacro» che, nel testo d’appartenenza (Come ultime cene), indica la transustanziazione, meglio la «materializzazione» e, quindi, l’umiliazione di qualcosa di inviolabile, separato. Ecco, per me, quel «segno» che «s’innerva» è la poesia, che arriva sempre dal basso e nel tentativo di agganciarsi al reale, se ne trova irrimediabilmente separata. S’intuisce un’urgenza, che veramente scorre nelle «mie vene» e poi defluisce nella mia scrittura: il tentativo costante di rimediare a un’assenza di fondo (anche il mottetto di Montale da te citato parla un po’ di questo). Più di cosa o chi, allora, a essere decisivo è come affrontare la relazione presenza/assenza, la scissione cardine, direi, del gesto poetico. Nel mio caso, ne sono più consapevole adesso che ho superato i quarant’anni, a diventare decisiva è una spinta agonistica. Ho proprio difficoltà ad accettare il reale per ‘quel che è’, a considerare «la trasparenza del male» (per citare un titolo celebre di Jean Baudrillard) e restare indifferente. Fu Magrelli il primo a intuire nella mia scrittura un demone moraleggiante e, quindi, una visione austera del mondo, che ne rifiuta la «perdita di realtà» (ancora Baudrillard), pur tenendo in considerazione il suo versante oscuro.

2.
In una delle canzoni più celebri interpretate da Johnny Cash, the man in black dice di vedere un’oscurità («I see a darkness»). Quale oscurità ti è capitato di vedere e come ne hai scritto?

Riallacciandomi alla risposta precedente e ridefinendone il finale: non vedo oscurità, perché siamo già dentro quello «spilling dark» evocata dal grande poeta scozzese Robin Robertson. Insomma un’ombra ci è già caduta addosso, quel “rivolgimento” (Zukehr) di heideggeriana memoria, che è anche “esser-volto-verso” una costante caduta. Da quando, cioè, «la metafisica è realizzata nella fisica, adagiata nella tecno-scienza» (come diceva già nel 1988 Lyotard), ogni visuale è stravolta, schermata e, quindi, esposta nella «trasparenza totale dell’informazione» (Baudrillard). Siamo in un’oscurità totale, appunto, per eccesso di “illuminazione”, non è certo una novità. Per non sprofondare completamente nell’interfaccia che annulla definitivamente l’Altro, avverto la necessità di una fuoriuscita. A essere centrale nella mia riflessione è ancora il “come”: a mio avviso, la vera urgenza in poesia risiede nel rimettere in gioco la capacità immaginifica della parola, per ri-creare ininterrottamente il reale. Il «passaggio dallo stadio storico a uno stadio mitico», la definizione è ancora di Baudrillard, è il cruccio della mia scrittura attuale. Ne ho scritto in Transito all’ombra, libro che riconsidera la mia storia personale dentro il quadro più ampio della storia collettiva. Ora, però, la mia scrittura tenta di trasformare la necessità di ricostruzione storica in racconto immaginifico. Per entrare nuovamente in quella che Rilke definisce «la mitica miniera delle anime» (der Seelen wunderliches Bergwerk) occorre considerare il mondo nella sua caduta e riscoprire le «arterie nella sua oscurità» (als Adern durch sein Dunkel). Mi permetto di riportare un mio inedito recente, forse il modo migliore per riassumere quanto finora esposto:

Mentre la pioggerellina sorda

«In pochi anni un lago», disse l’uomo.
Il fiato in nuvole di vapore,
mentre il faggio, che ne accompagnava gli argini,
radicava dentro una pianura
alluvionale. Lo raggiunse
un ticchettio, una voce, un raggio
grigio e vecchio di quarant’anni.
Nel duemilaqualcosa calcolarono
nel duemilaqualcosa arcipelaghi,
corolle alpine e sopra cembri
e alghe dai cembri.
Torbiere, schizzi fossili,
riflessi sul thread dell’acqua e della luce.
L’uomo pregò il dio dell’acqua e della luce
ma il lago non era più lì. C’erano lappole
e faggiole cristallizzate nelle fauci del cinghiale
e nel sangue. Mentre una pioggerellina
sorda attutiva la preghiera, dentro,
sempre più simili a barricate, i primi
tre acri d’informazione.

3.
Nel discorso tenuto in occasione del conferimento del Premio Nobel per la letteratura, Bob Dylan, ricordando il suo primo punto di riferimento artistico, l’amico Buddy Holly, dice che sembrava esserci in Buddy qualcosa di permanente («something about him seemed permanent») e che riusciva a trasmettere qualcosa che gli faceva venire i brividi («he transmitted something» … «and it gave me the chills»). C’è un poeta che ti fa sentire così quando lo leggi e perché?

Ne ho parlato anche in altre occasioni: il poeta che mi trasmette solidità (almeno così interpreto la «permanenza» evocata da Dylan) e, allo stesso tempo, apre vertigini di senso che danno i brividi, è Wallace Stevens. Lo rileggo per i motivi appena esposti, perché la stabilità («il mero essere») si abbina costantemente ad aperture inedite: «The leaves cry… One holds off and merely hears the cry. / It is a busy cry, concerning someone else. / And though one says that one is part of everything, // There is a conflict, there is a resistance involved; / And being part is an exertion that declines: / One feels the life of that which gives life as it is». Avverto sempre in Stevens una spinta a una nuova percezione e, infine, alla trasformazione. Allo stesso tempo, la sua poesia mi dà la consapevolezza di appartenere a un mondo unico e banale, anzi unico proprio per la sua banalità, il che implica un’accettazione dello stesso che definirei sacrale, di un’umiltà sconcertante: «The leaves cry…», «until, at last, the cry concerns no one at all», eppure continua a riguardare tutti.

4.
Un altro Premio Nobel per la letteratura, Seamus Heaney, ha detto che Eminem ha creato un senso di ciò che è possibile iniettando un voltaggio nella sua generazione («he has created a sense of what is possible. He has sent a voltage around his generation») non soltanto con il suo comportamento sovversivo ma anche attraverso la sua energia verbale («He has done this not just through his subversive attitude but also his verbal energy»). C’è stato/c’è un poeta che per te corrisponde a questo identikit?

Per me il poeta è sempre un sovversivo o non è. Non si tratta di comportamento o posa ma, appunto, di “energia verbale”, utilizzo “trasformativo” dello strumento linguistico. Trasformazione che investe ogni referenza, compreso il soggetto che scrive. Basti pensare a poeti che certo non ebbero una vita “movimentata”, ma non per questo meno inquieta: «E quando vicino gli passo, / al legno che trema e che canta, mi sento / mutato d’un tratto / nel sonoro strumento: / in corde metalliche tese / cambiata ogni fibra, / il corpo, percorso da brividi, / in fascio di nervi che vibra» (Camillo Sbarbaro).

5.
Scegli una tua poesia e ci spieghi perché ti rappresenta?

Tengo molto a un testo contenuto in Transito all’ombra. Mi è sempre piaciuto lo scarto tra il titolo altisonante e il contenuto “umile” e quotidiano. Già in questo credo risieda la vera necessità della poesia, nel suo tentativo di cambiare il contesto, anche di pochissimo, aprendolo alla relazione. Meglio, però, far parlare i versi:

Aspettavo la storia di un quadro millenario

Vedevo lo spettro nell’immagine
lenta, che rallentava gradualmente;
per un istante le figure si muovono appena:
case sullo sfondo, in un parco
bambini e famiglie, madri in maggioranza,
compiono le loro azioni.
In un pomeriggio di aprile –
dentro il quadro mia figlia e mia moglie
nel loro angolo, sedute sulla ghiaia.
Aspetto ancora un po’ prima di entrare,
ho il tempo di sperare che qualcuno
colga da un altro spiraglio il quadro,
che il tempo senza tempo si ricordi
in molti modi, senza nostalgia,
senza la mia stessa speranza,
nell’oblio di un ricordo che non può essere ricordato,
nella compassione lontana
di chi non ne sa parlare.

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Zest Letteratura Sostenibile: Intervista a Gianluca D’Andrea – Sulla Poesia

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Gianluca D’Andrea (Foto di Dino Ignani)

Si è tentato più volte anche da queste pagine di fornire una definizione di Poesia, qual è la sua?

Dare una definizione di poesia mi è impossibile. Per provare a rispondere, partirei piuttosto dall’opposto di una definizione, da uno sconfinamento. In un’intervista di qualche mese fa provavo a riflettere sulla consistenza di “traccia” del segno poetico e sull’irrimediabile arbitrarietà che ne caratterizza il limite più evidente. Ecco, ora aggiungerei che il rischio di arbitrarietà è il giusto contrappeso di una forza d’animazione del reale che la poesia rende attiva attraverso la parola, la sua disposizione nel mondo. Lo sconfinamento, cui facevo riferimento, penso faccia i conti con un esubero di senso che la poesia a volte contiene e, altre volte, trasforma in un più scabro lasciare spazio: al reale, al mondo, all’altro. Secondo un adagio, che estrapolo da un verso di Wallace Stevens, «la sua mera selvaggia presenza anima il mondo che abita», ecco la poesia anima il mondo del linguaggio (quello che “abita”, appunto), di un linguaggio che sta, però, al margine del mondo, non nell’appariscenza della comunicazione informativa, bensì in quell’intercapedine tra il rumore e il silenzio, sempre sul bordo del fallimento. In un recente saggio, uscito per Sellerio lo scorso aprile, Ben Lerner scrive: «La poesia è sempre la testimonianza di un fallimento», io non credo che essa sia sempre una tale testimonianza, però ritengo cha abbia il compito di comprendere l’evenienza del fallimento, se così non fosse, non risponderebbe a un altro dei suoi compiti, forse il principale, quello della veridicità e della sua, appunto, fallibilità.

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