Collage Invernale – Indeterminazione

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di Gianluca D’Andrea

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Foto tratte da: Cornelius Castoriadis, Relativismo e democrazia – Dibattito con il MAUSS, Elèuthera, 2010

Scartafaccio – Fissare il presente

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Beppe Grillo e Walter Benjamin (Elaborazione grafica di Gianluca D’Andrea)

In occasione delle festività natalizie, ripropongo alcune riflessioni, apparse in altri tempi e luoghi, su letteratura, società, ecc.. Un oroscopo, uno Scartafaccio. Buone feste e buone riflessioni.

Gianluca D’Andrea


Scartafaccio – FISSARE IL PRESENTE: EDUCAZIONE – POLITICA – LINGUAGGIO

Una riflessione sull’educazione, forse prendo spunto dalla lezione di un Maresciallo dei Carabinieri sulla legalità, svoltasi alla scuola media di Zingonia (più che altro una promozione della Benemerita), non può fare riferimento a nessuna autorità. Eppure, è evidente, che il controllo autoritario deriva ancora dalla distinzione e autorevolezza di un compito, di un dovere.

Il linguaggio poetico, politicamente compromesso dalla libertà implicita nella sua stessa esistenza, ancora oggi dovrà vigilare sulle derive della responsabilità.

La morale va ridefinendosi, l’accertamento di una condotta sgretola l’autorità, è vero, ma come agire, anche linguisticamente, perché questo stesso accertamento non autorizzi alla trasformazione di un’autorevolezza in un’ulteriore autorità?

Riflettevo sulla situazione post-elezioni in Italia, sull’affermazione del Movimento 5 Stelle, sulle parole spese, in particolare sulle implicazioni del termine “populismo”, o sulle conseguenze potenziali che legano la dimensione dell’anarchia a quella del totalitarismo.

Alcune riflessioni di Benjamin sull’educazione ipostatizzano metodologie “classiche” d’insegnamento, come la lezione frontale, definendole, in negativo, pratiche ferali, unilaterali e, quindi, reazionarie. È vero che la lezione frontale può indurre all’imposizione, da parte di chi trasmette il messaggio, cioè il “maestro” (magister), delle proprie conoscenze, trasformandole in regole. Il “fenomeno” del Movimento 5 Stelle sembra, a una prima scorsa, riproporre questa metodologia, giustificando quel “populismo” di cui è accusato; ovviamente il “decisionismo” del magister classico è nelle mani di chi ha fondato lo stesso Movimento. La democrazia che parte dal basso, cioè dall’utilizzo delle strumentazioni che la Rete offre per diffondere le informazioni, cerca di rispondere alla democrazia come struttura politica e struttura di governo di una nazione, fenomeno che negli ultimi 20 anni, in Italia, si è trasformato in una dittatura della maggioranza – seguendo anche l’analisi di C. Freccero in riferimento all’evoluzione del mezzo televisivo – per cui la stessa maggioranza è diventata la parte vincente della popolazione a cui non importa più la caratteristica fondante del concetto “democrazia”, il dialogo tra le parti, per quanto antagoniste. Forse l’agone, l’incontro-scontro, che il concetto di ἀγορά, di discussione aperta, in praesentia, consentiva all’inizio del processo democratico, spostandosi su un territorio neutrale, poiché virtuale, come la Rete (i blog personali o collettivi hanno sostituito i Forum di discussione, segnando uno dei passaggi sintomatici dal web primigenio al 2.0) è scomparso definitivamente. Ecco che il fenomeno dei blog d’informazione segna un tentativo di reagire alla stessa “debolezza” del sistema d’informazione, concorde a una stanchezza diffusa nella popolazione per la classe politica e per quella democrazia di “maggioranza” cui si faceva riferimento. Il rischio della diffusione dell’informazione attraverso i blog concerne la nuova distorsione della democrazia in direzione autoritaria. La Rete è, infatti, percepita come uno strumento libero, attraverso cui l’utenza prova ad assumere, senza competenze specifiche, una parte attiva nella partecipazione alla “cosa pubblica”. In un’altra sede, ho avuto modo di parlare del rischio di un Medioevo informatico (ma non solo), attraverso cui centri di propulsione dell’informazione avrebbero potuto manipolare la coscienza di piccoli nuclei di popolazione, sulla scorta di riflessioni emerse dalle pagine “virtuali” della rivista Teléma. In Italia questo fenomeno sta realizzandosi attraverso l’azione-informazione di Grillo.

Occorre ritornare a riflettere sulle parole e sul loro utilizzo. L’atteggiamento violento e reazionario emerge dalla convinzione, espressa da questo nuovo leader mediatico, che non esistano vere possibilità di dialogo, dalla denuncia perpetua che scaturisce dalle sue verbalizzazioni accusatorie che non possiedono alcuno spirito “rivoluzionario” nel senso di un ribaltamento dello status quo, né proposte attivamente politiche.

Trasgredire le regole, come ὕβρις, come sintomo d’irrimediabilità, significava aver intrapreso una strada senza ritorno, una pratica diversa di giustizia consapevole e in funzione del bene della comunità. Anche le prime dimissioni di un Papa sembrano derivare dalla difficoltà di un linguaggio che non possiede la forza per affrontare il cambiamento in atto da un punto di vista comunicativo. Oltre all’inabilità “mediatica” del vecchio Papa, il nuovo sostituisce una concezione formale e intellettuale di tale ruolo, nel tentativo di ristabilire un contatto con la comunità attraverso la solita retorica dell’umiltà e della semplicità a tutti i costi, rispondendo in modo, ovviamente populistico, alla richiesta che vuole eliminare radicalmente il proprio limite nei confronti della complessità. Scattano gli allarmi, piccoli sentieri nel campo della lingua. L’avvertenza della velocità comunicativa evidenziata dai canali informatici preme e fa morsa sui risvolti etici del linguaggio in quanto trasmissione. Sembra che la lingua abbia bisogno di un nuovo sostentamento formale per sopravvivere nel tempo presente. La sperimentazione e l’ibridazione dei fenomeni linguistici, nel loro aspetto liberatorio – mi riferisco in particolare agli ipertesti consentiti dalla computerizzazione delle esperienze – non soddisfano le potenzialità del dire, perché la formalizzazione e la virtualità degli innesti sembrano neutralizzare il messaggio. La parola “che dice”, rischia le derive manipolatorie e autoritarie cui accennavamo, riducendo l’etica all’appiattimento del dire semplice per non dire tutto il possibile, che è insostenibile.

Occorre una pausa, che il respiro appiani il suo ritmo, si faccia lento, concentrato… una nuova stagione per l’immaginazione, un nuovo entusiasmo – è ancora Benjamin a soccorrermi attraverso le sue riflessioni sull’educazione di stampo borghese – per l’osservazione del margine, di quelle abitudini quotidiane che tutto seguono e tutto devono seguire, come sempre è stato. Momenti di disinformazione, di declassificazione… il campo per un istante si allarga… suona la rapsodia dell’immaginazione.

Collage Invernale – Siamo stanchi dell’uomo

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di Gianluca D’Andrea

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Foto tratte da: Friedrich Nietzsche, Genealogia della morale, Newton Compton, 1988

Scartafaccio – Gli orfani

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Lu Xinjian, City DNA –  The Triumph of New York (2009)

In occasione delle festività natalizie, ripropongo alcune riflessioni, apparse in altri tempi e luoghi, su letteratura, società, ecc.. Un oroscopo, uno Scartafaccio. Buone feste e buone riflessioni.

Gianluca D’Andrea


Scartafaccio – GLI ORFANI

“La distinzione tra somiglianza e similitudine” disse, ma non trovò risposta se non labirinti di strade e reticolati, accostamenti che non sottesero nulla. Si fermò sul foglio bianco, non generò più, dopo aver stabilito che non esiste scelta quando bene e male diventano intercambiabili.

“Il male in natura – parto da Foucault, Questo non è una pipa – è un’evidenza imprescindibile e non rimanda ad alcuna rappresentazione”, l’altro si scosse intimamente, manifestando uno sconcerto inerte, i tratti del viso immobili.

“Guadagno tanto per mantenere gli standard e una famiglia disgregata, i miei viaggi sono frequentissimi, i miei ricordi meno”.

Il mistero si esprime in simboli, i patriarchi conoscevano le masse come le dittature patriarcali strumentalizzano simboli di comodo basati sulla spiritualità paternale.

“Ho perso mio padre da tempo, lo strumento di un dio nascosto”; un figlio scende dalla croce e cerca il padre, si fa padre nell’ultima tentazione, definitiva.

La somiglianza è la scelta di una presenza che si ottiene dalla consapevolezza fantasmatica del padre.

“La memoria è questo fantasma che si concretizza e attende di realizzarsi. Il compito è la scelta di questa realizzazione, un’altra somiglianza, un’altra rappresentazione simbolica dopo la scomparsa del padre”.

Chiusi dalla desolazione del loro mondo individuo, i personaggi riappaiono e dialogano di forme capovolte.

Collage Invernale – Universalizzanti

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di Gianluca D’Andrea

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Foto tratta da: François Jullien, L’universale e il comune – Il dialogo tra culture, Laterza, 2010

Collage Invernale – La superprogrammazione

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di Gianluca D’Andrea

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Foto tratta da: Ivan Illich, La convivialità, Baroli Editore, 2005

Collage Invernale – Caduta e svolta

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di Gianluca D’Andrea

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Foto tratta da: Peter Sloterdijk, Non siamo ancora stati salvati, Bompiani, 2004

Libri crepuscolari IV. – “Incontri e agguati” di Milo De Angelis

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Milo De Angelis

Libri crepuscolari IV. – Incontri e agguati di Milo De Angelis
(Mondadori, Milano, 2015)

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Incontri e agguati di Milo De Angelis è uscito in libreria ad aprile 2015. Nell’estate dello stesso anno, dopo una prima lettura, ho selezionato un testo mirabile nella sua singolare compiutezza per una rubrica personale (vedi qui). Alla fine dell’anno, nei momenti di pausa consentiti dalle festività, mi trovo a leggere il libro nella sua interezza.
È vera, e abbastanza evidente anche in questa raccolta, la perizia compositiva che ha contraddistinto un autore fondamentale per la poesia italiana di questi ultimi anni, ma è altrettanto vero che, nel complesso, l’operazione non aggiunge nulla alla sua ricerca poetica, la quale, anche per motivi strettamente cronologici, ha attraversato la crisi “relazionale” e linguistica del secondo Novecento.
Provo a dire meglio esaminando le tre sezioni che compongono il libro (64 testi complessivi, più uno in funzione di explicit, una coincidenza con l’età dell’autore al momento della pubblicazione, ricordiamo che De Angelis è nato nel 1951).
La prima parte, Guerra di trincea, si apre con un testo che parla della morte; sembra preannunciarsi un racconto che accompagna il lettore nei gironi del “nulla”, anzi in quella relazione soggetto/nulla che tanta parte ha avuto nelle poetiche novecentesche. Di questo racconto il soggetto stesso si fa guida: «Questa morte è un’officina/ ci lavoro da anni e anni/ conosco i pezzi buoni e quelli deboli», p. 9, vv. 1-3). Dalla “biografia sommaria”, dalla perdita dell’identità al racconto che attraversa il negativo: è la morte che ci permette il riconoscimento, la fine, o meglio il ricordo della fine, a riunirci nella responsabilità e nella memoria. Ma è una possibilità sempre a rischio di fraintendimento, perché il dolore e la stessa fine conducono all’inesorabile annientamento.
Il primo movimento della raccolta, quindi, riprende alcune ossessioni dell’autore: la minuziosa capillarità degli indizi («in quel momento freddo/ in quel mormorio/ di indizi e milligrammi», p. 21, vv. 4-6), l’agonismo, cristallizzato però, quasi un puntello per far muovere alcuni testi poco originali:

Nessuno, morte, ti conosce meglio di me
nessuno ti ha frugata in tutto il corpo
nessuno ha cominciato così presto
a fronteggiarti… tu nuda e ribelle alla farsa
delle preghiere… tu mi hai rivelato
il pungiglione delle ore perdute
e la malia di quelle che mi attendevano felici
e senza dio… in un’area di rigore… laggiù…
nel fischio micidiale del minuto.

(p. 20)

Il “patto” relazionale si scontra con la gerarchia ineluttabile dell’imprevisto, quasi un marchio fatale che “specializza” l’esistenza, stigmatizzandola nel nulla:

“Sarai una sillaba senza luce,
non giungerai all’incanto, resterai
impigliato nelle stanze della tua logica”

“Sarai la crepa stessa
delle tue frasi, una recidiva,
una voce deportata, l’unica voce
che non si rigenera morendo”

(p. 17)

Questa sensazione mortuaria, che emerge nel testo appena letto, dipende dalla voglia di anticipare, pre-vedere l’inesorabile, come in uno strano epitaffio rovesciato in cui il futuro (sottolineato peraltro dall’anafora all’inizio delle due strofe) è arrogato da un dire che si rende necessario proprio laddove si vorrebbe inibire, manifestando proprio quella fine cui, invece, si vorrebbe resistere. «Capobranco della nostra fine» (p. 16, v. 3) è, questo linguaggio che contraddice se stesso, più che monito, disgrazia. D’altronde un incipit come questo, «Non puoi immaginare, amico mio, quante cose/ restano nascoste in una fine» (p. 22, vv. 1-2), crea distanza dal lettore, ma non per la sorpresa dell’impatto (nessun agone ma un’agonia), quanto perché la presunta sapienza scade nella saccenteria a causa dell’assertività dell’enunciato. A complicare la vicenda è il rimescolamento del testo successivo, in cui la richiesta del contatto crea un cortocircuito, un’oscillazione di senso che sfibra il registro e si tramuta in caduta stilistica: «Non so, credimi, se riuscirò. Ascolta,/ vienimi vicino, posso dirti che il sangue/ zampilla scuro ma non riesco a cancellarmi/ c’è un silenzio fatato che in me respira» (p. 23, vv. 1-4).
La parola ferma, il punto di confine, il centro di gravità, sono preoccupazioni novecentesche, questo è certo, ma il loro trattamento metalinguistico, proprio in quanto scia del secolo precedente, è segnale di decadenza e assenza di prospettiva. Il «segreto frastuono» di p. 27 è indizio di come Incontri e agguati intende trattare il mondo, nell’assenza di un codice di accesso che conduce alla commiserazione: «… ciò che sono/ un povero fiore di fiume/ che si è aggrappato alla poesia» (p. 27, vv. 4-6). Commiserazione del mondo equivale ad autocommiserazione del soggetto ed è in questa dimensione, abbiamo visto, che si chiude la prima parte del libro.
La sezione omonima, Incontri e agguati appunto, non muta registro, si passa pleonasticamente dalla fine al vuoto: «un vuoto mai estinto nella fronte, un vuoto/ torrenziale…» (p. 31, vv. 6-7). Però, la seconda è anche la sezione dei testi più toccanti (se li si esula dal contesto): Il tempo era il tuo unico compagno (p. 33) e Il vento ti accompagna a ogni virata (p. 37). Per il resto si assiste al tentativo di ritrovare un linguaggio e si limita il proprio ad alcuni ripescaggi di maniera: «con il tuo sguardo matematico hai indicato/ alcune grandezze, hai disegnato sull’asfalto/ i minuti di un teorema ridente e ogni minuto/ è un’epoca che abbraccio e tu non lasci/ deserte le ore…» (p. 34, vv. 3-7); «Una lama di fosforo ti distingueva/ e ti minacciava, in classe terza,/ ti chiedeva ogni volta il voto più alto, l’esempio/ perfetto del condottiero…» (p. 35, vv. 1-4); «…Dove sei,/ ti chiedo silenzioso. Dove siamo?…» (p. 35, vv. 18-19); «Mi sono allontanato, vedi, dal campo/ delle nostre partite iridescenti/ e mi troverai qui, sotto le parole» (p. 38, vv. 1-3); «Dolce niente/ che mi hai condotto negli anni/ del puro suono…» (p. 39, vv. 1-3). E la lista potrebbe allungarsi per dimostrare, ma a che serve accanirsi, la mancanza di vigore. La tensione ferrea che aveva contraddistinto la scrittura di De Angelis, in questa raccolta è come ammorbata, inflaccidita proprio dal tema prescelto, lo si voglia chiamare vuoto, fine o niente: «dolce niente e cupo niente/ voi siete la stessa cosa per sempre» (p. 39, vv. 10-11).
Dagli “incontri e agguati” con la “nientità” della seconda sezione, si giunge, infine, all’ultima parte, Alta sorveglianza, un poemetto sulla reclusione o, meglio, sulla trasposizione metaforica del concetto e sull’influenza nell’animo del soggetto. Purtroppo, anche in questo caso, non si verificano effrazioni dal canone lirico secondo-novecentesco né dalla maniera dell’autore, si resta nel “cuore del soggetto”. Ma non occorre pensare a una resistenza produttiva, a scelte che testimonino il mutamento e la perdita, quanto alla riproduzione di schemi consueti che si spingono fino ai confini preoccupanti del vaticinio: «parlavi di lei oscura furia delle melograne» (p. 55, I, v. 8), ecco il niente che non può più illuminare nella sua insensatezza. La sensazione suscitata nel lettore è di stanchezza e a volte l’autore pare riconoscerlo: «Opera, sei dappertutto ma non so dove sei» (p. 56, III, v. 1), esponendo finalmente il suo disorientamento.
Per De Angelis, non è una novità, il mondo è la cella da cui guardare un “resto” inconoscibile, un “altrove” che si configura a volte come augurio, altre come rovina. Il mistero, agli occhi disillusi degli uomini postumi che già siamo, nell’epoca della trasparenza acquisita e della trasformazione identitaria, è un’ingenuità del linguaggio, cui viene richiesto di scoprirsi e affrontare il proprio mutamento, non certo di ritrarsi nelle retrovie della vecchia dialettica. Certo, la “visione” dal carcere è parte concreta dell’esperienza dell’autore, ma la compartecipazione è, mi viene da dire, “distopica”, si proietta nel disturbo e lo trasfigura nel male comune, in un movimento metafisico: «…sei tornato/ dall’aldilà, hai risposto che dio non esiste/ ma le anime sì…» (p. 57, IX, vv. 1-3). La prospettiva infernale della reclusione («sei nell’ateismo/ di ogni battito cardiaco, reclusione, reclusione», p. 57, VIII, vv. 2-3, nell’iterazione quasi un mantra, un autoconvincimento, una preghiera) è riprova dell’atteggiamento lirico di cui si diceva. Il processo infatti termina (?) nello sterminio senza termine del solo atto di luce plausibile per il soggetto: dalla gabbia delle parole alla catarsi, a volte consolatoria ma oggi ingenua, della poesia:

XIV

Era l’aggravarsi
di ogni atto nel buio di se stesso,
la cieca evasione, l’indulto
che ha potuto liberarci
per una notte sola,
per una sola notte sterminata.

(p. 59)

«Sul sentiero dell’estinzione» (p. 62, XXII, v. 2), cioè su un percorso dato, si muove un “cammino” predestinato, infatti l’explicit del libro ci dice questo andare «verso la notte spoglia» (p. 64, v. 4), obiettivo finale, «punto saliente» (p. 64, v. 5) in cui le ombre hanno il sopravvento su quella «vita fanciulla» (p. 64, v. 11) che nient’altro è se non il simbolo, troppo abusato peraltro, del “paradiso perduto” di classica memoria.
Incontri e agguati, a ben vedere, è la sconfitta della nominazione “originaria” (se ancora fosse accettabile ragionare in termini di origini o “età dell’oro”) – si veda il «nome» triplicato al verso 23 di p. 65 – sul campo di battaglia dialettico, agonizzante tra «salvezza» ed «esecuzione».

Gianluca D’Andrea
(Dicembre 2015)

Collage Invernale – Il visibile e l’invisibile

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di Gianluca D’Andrea

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Foto tratta da: Maurice Marleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, Bompiani, 2009

Arthur Rimbaud: una poesia da “Opere” (Mondadori, 1975) – Postille ai testi

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Un ritratto di Arthur Rimbaud by © Jude Boid

di Gianluca D’Andrea

Arthur Rimbaud: una poesia da Opere (1975)

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Au Cabaret-Vert

Depuis huit jours, j’avais déchiré mes bottines
Aux cailloux des chemins. J’entrais à Charleroi.
– Au Cabaret-Vert : je demandai des tartines
Du beurre et du jambon qui fût à moitié froid.

Bienheureux, j’allongeai les jambes sous la table
Verte : je contemplai les sujets très naïfs
De la tapisserie. – Et ce fut adorable,
Quand la fille aux tétons énormes, aux yeux vifs,

-Celle-là, ce n’est pas un baiser qui l’épeure ! –
Rieuse, m’apporta des tartines de beurre,
Du jambon tiède, dans un plat colorié,

Du jambon rose et blanc parfumé d’une gousse
D’ail, – et m’emplit la chope immense, avec sa mousse
Que dorait un rayon de soleil arriéré.

*

Al Cabaret-Vert

Da otto giorni avevo straziato i miei stivali
Sulle pietre dei sentieri. Entrai a Charleroi.
– Al Cabaret-Vert: chiesi qualche crostino
Imburrato, e prosciutto purché non proprio freddo.

Beato, distesi le gambe sotto il tavolo
Verde: contemplavo i molto ingenui soggetti
Della tappezzeria. – E fu delizioso, quando
La ragazza dalle tette enormi, l’occhio vispo,

-Questa, non sarà mai stato un bacio a spaventarla! –
Mi porse ridente i crostini imburrati
E il tiepido prosciutto, in un piatto dipinto,

Prosciutto bianco e rosa profumato d’uno spicchio
D’aglio, – e mi riempì il boccale immenso, spumeggiante
D’oro in un raggio di sole ritardato.

(Trad. di Diana Grange Fiori)


Postilla:

Il luogo è un ritorno al desiderio della pienezza. Solo il ricordo, però, il conte di Rimbaud è lo sgorgo psichico di un’immaginazione che si fa iperreale proprio quando la realtà sembra avvicinarsi. La frustrazione di questo desiderio è il disastro di qualunque equilibrio e, in questa che è soprattutto una caduta, la produzione di miracoli misteriosi. Come spiegare l’ultimo verso, quel “soleil arriéré” sconvolgente perché proprio in quel posto, a ritardare la parola, come in ritardo è il raggio del senso, in ritardo il soggetto, e tutto dopo la descrizione di un quadro grottesco, puro nella sua volgarità. Ah! ma le “tétons énormes” quel soggetto non le afferra, le immagina, immagina la disponibilità di una realtà che resta inappropriabile, in ritardo perpetuo appunto, che è ricordo di una possibilità sempre in fuga. Distrutta per sempre l’aderenza, inefficace ogni mimesi, resta la deformazione. Così noi ci fermiamo a un passo dal godimento: dislocati, sfocati rispetto alla casa, senza soddisfazione sensuale (la birra non è bevuta, ah! la colpa dell’infante, troppa straziante dolcezza), quei sensi irrequieti e inevitabilmente stravolti. E, infatti, non è neanche la psiche a intervenire ma una visione, una psichedelia dai colori ossessivi: il verde sempre invasivo in Rimbaud, la tenerezza nell’accostamento “alimentare”, prosciutto tiepido quanto ambiguamente accogliente («à moitié froid») – bianco, rosa – il giallo del burro che sfuma e si trasfigura nel crepuscolo dorato del finale, nel tramonto definitivo, ritorno senza godimento. L’ottuso vicolo cieco di un mondo “ritardato”.