NUOVA POESIA MESSINESE (2ª parte)

NUOVA POESIA MESSINESE (2ª parte)

 

 

Natalia Castaldi

 

L’altra sera Fadwa mi diceva

quanto fosse feroce la memoria

(a ritroso)

 

Fadwa: “

 

 

Si dice che nel nome risieda

il senso dell’esistenza, in effetti

la parola la spiega, le dà senso,

l’organizza, ne mette in relazione

cause, conseguenze, eventi:

Restituisce memoria alla storia

 

Ho sempre ripensato a quei limoni

La staccionata La scala a pioli

Il padre arrampicato che chiamava

i nostri nomi Mentre la veste

di bambina | aperta | Raccoglieva

il salto Il volo del frutto nel Grembo

e una risata

 

Era bello pronunziarne la parola

darle dimensione e colore [: in arrivo

Limoni, gialli e grossi Li_mo_ni]

e osservare sul viso di Fa’ez

la smorfia Gli occhi stretti La lingua

serrata contro i denti | Percepire

l’anticipazione del senso e dell’azione

 

[una mano, il coltello, poi le labbra,

Un sorriso Il capriccio L’attesa]

 

legandone il gusto a un altro sapore

alla liquidità della sete,

all’asprezza del sale

 

Credo che questo sia da leggersi

come una magia, forse un dono,

una capacità propria dell’uomo

che si costruisce la vita  come

i versi di un poema o la pagina

più bella del Corano

con la libertà incondizionata

di fantasia e pensiero

 

Ecco perché non ho mai accettato

questo nome che nel sacrificio

ha preteso una condanna Senza

margine di scarto per l’arbitrio

della mia libera scelta

 

[…]

 

 

La potenza della parola, per la Castaldi, risiede nelle sue capacità affabulatorie, nella possibilità di riattivare un dialogo che sembrava perduto dopo esperienze esiziali. L’estratto, da un poema che si va componendo negli anni, che andiamo a leggere, rimanda all’ἔπος, a quella parola che ritma in scansioni un racconto che rivuole farsi umano, in una trasmissione di valori universali che devono ritornare attivi, memorabili. La memoria, allora, perché «Si dice che nel nome risieda/ il senso dell’esistenza», un improvviso scarto in direzione della fiducia del dire (e potrebbe essere altrimenti se lo slancio abbraccia il respiro ampio del poema?), il ricordo di oggetti e sensazioni «[una mano, il coltello, poi le labbra,/ Un sorriso Il capriccio L’attesa]» che aprono una nuova storia, l’efficacia del nominare e la sua ricchezza nello spostamento continuo di gesti che raggiungono la carne « legandone il gusto a un altro sapore», in un movimento trascendente che slarga i limiti della semplice materia verbale.

La poesia sembra ritrovare la forza del dono nella gratuità di uno sguardo, nel desiderio di libertà che svincola dalle forzature di un destino imposto. La tensione “comunicativa”, in questi versi, si lega al dissolvimento dei limiti, scioglimento che si realizza in una sintassi narrativa, per cui gli inarcamenti seguono il flusso di pensiero, non slegano le articolazioni testuali, anzi concedono un respiro largo. Nel ri-cordo avviene una ri-creazione, il soggetto è fuori campo, la sua presenza è però avvertibile nella partecipazione intima, “empatica”, tra chi scrive e i suoi personaggi: la teatralizzazione dell’esperienza non avviene, non ci sono maschere, c’è la fede di chi, nell’Altro, trova una comunione, per cui, senza clericalismi di sorta, responsabilità e dono coincidono in quell’apertura relazionale che è l’esistenza.

 

 

 

Maria Grazia Insinga

 

*

 

Rive sorprese

tra nervature a lucido sul palmo

e sabbie mobili a nessun ingresso.

Alla sparizione dei paralupi

per la collottola… presa!

Trascinata oltre rosai litanici

graffiando crudeltà sgombera notti

spero, spero che lei sia ancora sul mare.

 

Fughe imbrogliate

e più ristare tirrenico in una manica

o bestiale remissione

ché il dolore che perde di sé memoria

è il dolore che fa più male.

 

 

*

 

[Nascita]

 

Nulla di poetico da segnalare:

sempre dall’inizio nella rimessa del mondo nel mondo

da un armadio

appeso schiantano vestiti

e sospesa la camera in un lampo si iberna.

Cibarti – cibarmi – di me l’unico fuoco.

 

 

 

Anche nei testi di Maria Grazia Insinga, la tensione “originaria” è manifesta, ma qui il linguaggio si fa arcigno, si muove alla volta di una purificazione dall’interno dei suoi strumenti, verso una nascita scabra, un’etica della dissoluzione in cerca di un sé che «graffiando crudeltà sgombera notti». Lo scavo nella parola, tenta di scrostare lo specchio per raggiungere la terra. Siamo ai primi germogli di un soggetto che combatte per la propria scaturigine, le metafore e i traslati si dipanano a grappoli, forse in un’esagerazione voluta che, mostrando le proprie maschere, cerca di dismetterle per arrivare a nutrirsi «di me l’unico fuoco». Siamo sul limite, rischiosissimo, in cui l’identità, tentando il riconoscimento, straborda. La speranza è che quest’esondazione ritiri i suoi argini, ritorni al proprio ricordo, ricostruisca quella protezione e quella cura che permettono di ristabilire una trasmissione, tenendo sempre presente che «il dolore che perde di sé memoria/ è il dolore che fa più male».

 

 

 

 

Gianluca D’Andrea

(Gennaio 2014)

stretto-di-sicilia

 

Natàlia Castaldi nasce a Messina il 13 gennaio 1971, dopo una formazione classica si iscrive dapprima alla facoltà di Lettere classiche della sua città, poi abbandonerà quel percorso di studi per trasferirsi tra Milano e Roma e frequentare il corso di Laurea e specializzazione in Interpretariato e Traduzione, conseguendo nel 1997 la specializzazione in Traduzione di lingua inglese e spagnola. Dopo anni di viaggi per studio e lavoro tra Italia e Inghilterra, dal 2000 è tornata a vivere e svolgere la sua attività di traduttrice libero professionista e scrittrice nella sua città natale. La traduzione poetica, la poesia e la partecipazione attiva alla vita politica e civile, sono i suoi principali campi di interesse, che considera dipendenti e consequenziali gli uni dagli altri.

Scrive poesie, saggi, recensioni, brevi brani in prosa, e nell’ottobre del 2009 fonda insieme ad altri poeti e scrittori il Collettivo dei Meltin’po(e)t_s – http://poetarumsilva.wordpress.com – con l’obiettivo di diffondere la bellezza del pensiero quale unica fonte di resistenza umana dinanzi agli inganni del tempo ed alle dimenticanze della storia.

Pubblicazioni:

  • Il giardino dei poeti – antologia di poeti italiani – Historica – Il Foglio Letterario, novembre 2008
  • Pro/Testo – Versi – antologia – Fara Editore, giugno 2009
  • Poetarum Silva – Antologia A.A.V.V. – a cura di Enzo Campi – Samiszdat edizioni, Parma – maggio 2010
  • Nota introduttiva al poemetto “Ipotesi Corpo” di Enzo Campi – Edizioni Smasher, Messina – giugno 2010
  • Prefazione alla silloge poetica “Diecidita” di Jacopo Ninni, Edizioni Smasher, aprile 2011
  • Dialoghi con nessuno – Edizioni Smasher, Messina – maggio 2011
  • principali poeti tradotti: Pedro Salinas, Ana Rossetti, Elizabeth Barrett Browning, Charles Simic, Mark Strand, Carol Ann Duffy … (traduzioni rintracciabili in rete su vari siti di poesia, tra i quali “Imperfetta Ellisse”, a cura di Giacomo Cerrai)

Suoi lavori sono stati pubblicati da diversi siti e blog di poesia, tra i quali: La dimora del tempo sospeso– a cura di Francesco Marotta; Nazione Indiana – a cura di Marco Rovelli; La poesia e lo spirito – a cura di Fabrizio Centofanti e Francesco Sasso; Oboe Sommerso – a cura di Roberto Ceccarini; Arte Insieme – a cura di Renzo Montagnoli; Il giardino dei poeti – a cura di Cristina Bove; Imperfetta Ellisse a cura di Giacomo Cerrai; Stroboscopio – a cura di Luigi Bosco.

 

 

Maria Grazia Insinga, nasce in Sicilia nel 1970, dove vive ed opera.
 Sue poesie sono apparse online su riviste specializzate (Cartiglio d’ombra, La Bella Poesia, Larosainpiu, Words Social Forum). Insegna Pianoforte presso una Scuola Civica di Musica succursale del Conservatorio “V. Bellini” di Palermo e si occupo di ricerca musicologica – ha censito, trascritto e analizzato i manoscritti musicali inediti del poeta Lucio Piccolo – di critica letteraria e fa parte della giuria del Premio Internazionale di Poesia Don Luigi Di Liegro.

Spazio Inediti (1): Fabio Michieli – di Gianluca D’Andrea

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Fabio Michieli

di Gianluca D’Andrea

Spazio Inediti (1): Fabio Michieli

svelami ora il mistero
di questi suoni, di queste parole
– “je dirai quelque jour vos naissances latentes…”
la magia d’una musicalità
che fu mai mia se non in neri abbagli

(eppure vorrei che il sole sciogliesse
in un sorriso un risveglio già tardo)

nella luce –
tra le mani –
un volto che il fragile addio spegne

Lirica che domanda lo svelamento, che si chiede ancora, quasi virginale, la possibilità di un mistero nascosto tra i suoni di parole; quelle parole che ri-tendono al dialogo proprio riflettendosi in un ritmo che si vuole nuovo, come il richiamo al Rimbaud di Voyelles sembra suggerire. Un richiamo dovuto a quel μυστήριον, il cui senso torna nonostante si avverta come perduto nelle pratiche abusate di una contemporaneità, anche poetica, ingarbugliata in una prosasticità poco propositiva. Già, perché il segreto di ogni poesia si apre proprio dallo scavo delle sue origini, orali, mnestiche, di trasmissione popolare e svincolate dai vincoli accademici, concettuali.
Tutto questo si squaderna nel piccolo canto di Michieli: «la magia d’una musicalità/ che fu mai mia se non in neri abbagli», la bilabiale sonora scandisce quasi “maternamente” un suono che, fingendosi scaduto, torna proprio dagli abbagli dei neri segni delle parole, l’ondulazione di questa “m” ripetuta scivola nella visione desiderante (non per niente tra parentesi) di un risveglio, in cui a prevalere sono i suoni fricativi, come un grappolo generativo non scomponibile: «(eppure vorrei che il sole sciogliesse/ in un sorriso un risveglio già tardo)», il tutto sotto l’egida di un’apparizione, per cui l’immagine della “luce” (in tutte le forme qui rappresentate: «svelami», «abbagli», «il sole sciogliesse», «risveglio», «nella luce») imprime a tutto il testo la sua tensione aurorale, perché sia tolto il velo ai «neri abbagli» della parola poetica, perché risplenda il suo suono.

(Gennaio 2014)


Fabio Michieli, nato a Vicenza nel 1971, si è laureato in Lettere Moderne nell’ateneo lagunare con una tesi su Niccolò Tommaseo e il suo racconto storico Il duca d’Atene.
Nel 2003 ha dato alle stampe l’edizione critica e commentata dello stesso racconto (Padova, Antenore).
Suoi interventi critici dedicati a Tommaseo sono apparsi in rivista (Quaderni Veneti, Giornale storico della letteratura italiana) e in volumi miscellanei.
Nel 2008 ha pubblicato la raccolta di poesie Dire, per l’Editrice l’arcolaio.
Insieme a Gian Franco Fabbri dirige la collana “Fuori collana” dell’Editrice l’arcolaio.
Lettore di poesia e di narrativa, sue recensioni sono apparse nel sito www.alleo.it e in rivista (“l’immaginazione”).

Marco Malvestio: gli dei si manifestano nell’acqua

Compitu Re Vivi

Marco Malvestio, Depurazione delle acque, La Vita Felice 2013

malvestioMarco Malvestio pubblica un’opera prima che vuole essere “riassuntiva”, e parrebbe ironia sostenere che si possa scrivere un’opera riassuntiva a 23 anni.
È così, invece. Io ne scrissi una molto ambiziosa che si chiamava Assenza e che è rimasta fra le cose dell’età giovane. E poi anche Grandi Frammenti, il secondo libro pubblicato, fu scritto con propositi universali; e sorte volle che persi il manoscritto e così ne dovetti ricostruire una parte: Grandi Frammenti, appunto.
Malvestio, dunque, si crea un canovaccio di traiettorie, metatopografie di spazi lunari per dire di sè nel suo tempo, probabilmente col desiderio di abitare un tempo più necessario: Mare fecunditatis, Mare humorum, Mare cognitum, Mare serenitatis…
I vasti sistemi si intuiscono quasi subito, per poi decantarsi nel corso degli anni lasciando traccia di sé in una scrittura più composta, forse più consapevole, non so… comunque…

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NUOVI INIZI – RIFLESSIONI TECNICHE: I camminatori di Italo Testa

NUOVI INIZI – RIFLESSIONI TECNICHE: I camminatori di Italo Testa, Valigie Rosse, Livorno 2013

I camminatori

Ancora non era morto.
Ma già aveva accesa in mente
la cecità del veggente

G. Caproni

I 19 testi di quest’unico poemetto che è I camminatori valgono innanzitutto come risposta audace in termini di possibilità tecniche della parola poetica in tempi di ibridazione prosaica e mescolanza dei generi. Le scelte di Italo Testa, infatti, sembrano convertire le «impurità» dell’anti-stile di marca tardo-novecentesca (questo è uno dei motivi che permettono, in epigrafe, l’inserimento di alcuni versi del Caproni postumo) in una nuova ricerca di funzione per quelle accortezze retoriche (e quindi stilistiche), riconducibili soprattutto all’aspetto ritmico e sonoro. Per questo, pur sapendo di correre un bel rischio, mi accingo a definire l’ultimo lavoro di Testa come un’operazione neo-melica, perché riesce a riconsiderare l’elemento primigenio del linguaggio, il canto, alla base dell’espressione poetica. Certo, la musica de I camminatori è litanica, sia in senso stretto, religioso (e l’ultimo componimento della raccolta, agendo da monito per il lettore, sembra confermarlo, ma lo vedremo in seguito), agendo da invocazione all’attenzione per le presenze fantasmatiche, senza nome e tratti, di questi attori urbani – eppure così concreti, infatti «abbattono/ le protezioni/ scavalcano/ i cancelli le reti/ e entrano/ dentro i cantieri» (p. 28, vv. 8-13) –, sia in senso figurato: la serie di componimenti tratta ininterrottamente di questi camminatori, cantandone ipnoticamente le gesta (il movimento ipnotico, realizzato attraverso l’utilizzo delle sdrucciole e del ritmo ternario, è stato ottimamente compreso da Paolo Maccari nella nota finale), i gesti, di questi piccoli eroi in nuce, e per questo ancora indefiniti, che si stagliano dal niente, dalla più grigia e comune dis-identificazione.
La ricerca di Testa, è noto, rastrella, affondando i suoi strumenti, il campo qualitativamente immenso della tradizione novecentesca, nel caso specifico de I camminatori il riferimento di maggior impatto sembra essere proprio il Caproni richiamato all’inizio di quest’analisi. È tentata, in prima istanza, una ricoagulazione dell’io, del soggetto che, pur ridotto a semplice osservatore del mondo, esprime un barlume di fiducia proprio nell’immersione, per quanto apparentemente alienata, nel contesto. Vale, a dimostrazione di quanto detto, riportare per intero l’ultima stazione della processione visiva e liturgica elaborata da Testa:

non sembrano
mai farti caso
proseguono
e niente li distoglie
s’avviano
semplicemente
ognuno alla sua meta
ma simili
e sempre più numerosi
s’avvistano
lungo le strade
si incrociano
in ogni luogo
ovunque tu cammini
camminano

(p. 35).

Mi soffermerei sull’attacco: «non sembrano/ mai farti caso/ proseguono/ e niente li distoglie» (vv. 1-4). La fine di ogni connotazione, la scomparsa di concretezza nei riferimenti, decisiva ad esempio nel Caproni di Congedo del viaggiatore cerimonioso, si ribalta nel movimento attivato da una litote inattesa, per cui, i camminatori, nel non sembrare attenti, esistono e, l’avversativa al v. 8 non fa che sottolinearlo, agganciano nel simile destino il soggetto e gli altri (l’alterità assoluta, il mondo), i quali «s’avvistano» (v. 10), «si incrociano» (v. 12) in un parallelismo di presenza che non lascia scampo, e che agisce nel movimento: «camminano» (v. 15, in chiusura).
Il movimento e la presenza sono i macro-temi che legano l’intera raccolta, il suo procedere, quindi, per fuoriuscire dalla «nebbia» (costante dell’opera caproniana) del nichilismo, dalla frantumazione decostruttrice novecentesca, la quale, non riconciliando il soggetto e il mondo, non permette di accedere alla fabula, all’edificazione di nuovi miti per un luogo che continua la sua esistenza, per quanto galleggiante e aleatoria. Per questo la poesia de I camminatori, anche mantenendo l’atmosfera di precarietà esistenziale espressa attraverso l’ambientazione metropolitana, appare come un ultimo avamposto della preesistente visione desolata e tenta lo slancio verso un orizzonte inedito. In primo luogo come svincolamento fisico, concreto, dalla metafisica del fenomeno; vediamo, infatti, spostarsi l’asse di concentrazione linguistica in direzione degli aspetti epifenomenici. Provo a spiegare lasciandomi aiutare direttamente dal testo a p. 26:

nelle stazioni
transitano
dentro e fuori
in perpetuo
andirivieni
mischiandosi
alle folle in attesa
assaltano
a frotte i treni
che arrivano
lungo i binari
e subito
a capofitto
lanciandosi
nei corridoi
ripartono

L’epifenomeno, in quanto manifestazione secondaria, collaterale, di un fenomeno, in questo caso, è la localizzazione, il resoconto topologico di un nuovo paesaggio, quello urbano (le stazioni, i treni, i binari, i corridoi, ecc.), consistente di luoghi interstiziali o di passaggio. Questo spostamento decontestualizza l’idea del fenomeno (l’urbanizzazione, l’industrializzazione, la “tecnologizzazione”, in pratica gli aspetti alienanti dell’ambiente) e purifica lo sguardo del soggetto che si fa più oggettivo, realistico, ma nel senso del «realismo naturale dell’uomo comune» di William James (citato anche da H. Putnam, autore certo caro a Testa, in Mente, corpo, mondo, Il Mulino, Bologna 2003, p. 161), cioè di un empirismo slegato sia dall’aspetto meramente percettivo della sensazione, sia dalla presunta imponenza oggettiva dell’analisi scientifica che rimane comunque astraente e, quindi, ancora alienante. Il dubbio, espresso da Paolo Maccari nella suddetta nota finale al libro, rispetto alle ipotesi di lettura dello stesso – per il quale una di queste potrebbe anche mettere in causa l’accanimento scientifico di un soggetto che osserva creature nuove e mostruose (è richiamata, non a caso, la figura dell’entomologo) – in conseguenza di quanto detto, perde la sua evidenza e indirizza in modo più chiaro l’intera operazione de I camminatori. Infatti, la vicinanza di queste creature, come abbiamo visto analizzando l’ultimo testo del libro, tenta di ricreare una partecipazione, non si limita all’osservazione di fenomeni. Il rischio tentato da Testa, o meglio, la vera tensione linguistica dell’intera operazione è riassumibile nello slancio in direzione di una plausibile interazione tra l’io e il mondo, come abbiamo costatato; potrebbero, però, essere presenti cadute, per questo è più conveniente tornare al testo precedente: alcuni segnali stilistici e tecnici sono la spia della presenza di quell’oscillazione tra fiducia e sfiducia che ha caratterizzato, per grandi linee, la poesia del secolo appena trascorso: gli slittamenti ossimorici in questo caso sembrano sintomi di insicurezza: «nelle stazioni/ transitano» (vv. 1-2), «dentro e fuori» (v. 3), «in perpetuo/ andirivieni» (vv. 4-5), «le folle in attesa» (v.7). Il movimento noetico del poema, in alcuni punti, è giocato su questi contrasti percettivi, che ne limitano lo slancio d’apertura (ancora il regno del novecento, vedi, a tal proposito, le teorie di ossimori in Caproni).
Abbiamo notato lo slancio esistenziale e il coraggio ritmico del canto ne I camminatori, la loro impostazione concettuale che intima uno sfaldamento del limbo purgatoriale del Novecento in direzione di nuovi panorami relazionali (il soggetto tenta di smettere le maschere, anche quelle “magrellianamente” scientifiche). Non ci resta che attendere le future evoluzioni del tragitto che l’io e l’altro possono ancora percorrere insieme.

Gianluca D’Andrea
(Gennaio 2014)

SalvaSalva

Per una poesia del margine

Tommaso Di Dio: geologia delle fratture e degli strati in deposizione – Cantiere italiano 05

NUOVA POESIA MESSINESE (1ª parte)

NUOVA POESIA MESSINESE (1ª parte)

Diego Conticello

 

 

La distruzione delle cose

 

a Fabio Pusterla

Riflessi,

nuovamente piegati

soggiogati buoi/bestie

alla morsa del tempo

al buio come morte.

La distruzione delle cose.

E i nomi lì a rifulgere,

rifiutare di piegarsi,

di nuovo fare luce.

***

 

Cosmagonia

 

                                          a Lucio Piccolo

Se un’enorme massa,

una dell’infinita

gragnuola

trapassante le galassie,

sfondasse i fragili

veli sferici

ad un’ora, ad un tempo preciso,

avremmo un’altra Tunguska,

impensati megatoni

del tramonto.

Questione di traiettorie,

risucchi implosivi

per cui siamo

conigli abbagliati,

sagome inutili

inette a smuoversi.

Chimiche brillanti

attraversano le ere

proiettando particole, orologerie

cieche puntate nelle tenebre,

luci scottanti della fine

l’universo enfiato

in un punto

che tutto sugge,

il nero foro dei mondi,

ombra contratta,

nulla allo stato puro.

Oscureremo per troppa chiarità,

un collasso

per veemenza di stelle…

entropia

non è piacere

di belle metafore e brune

ma morte della luce,

fuga da grazia

materna,

totale penetrazione

del gelo.

In un grande strappo

il mietitore fosco

espanderà questa

illusione vitale

esternandola all’oscura potenza

sebbene

serbiamo il segno,

unica serie di curve

al limite del sensibile

nella sera del cosmo.

La distruzione delle cose è il gioco allitterante proposto per una poetica della resilienza, della capacità, in questo caso delle parole, di sopportare i colpi distruttivi di un’estinzione che appare, agli occhi del poeta, incipiente. Non è un caso, infatti, la dedica a Fabio Pusterla, la cui poetica è esplicitamente diretta alla tutela del messaggio umano nel verbo – in quest’epoca post-umana. Il suono, allora, l’intento di un canto a «rifulgere,/ rifiutare di piegarsi// di nuovo fare luce» (vv. 7-9).

Cosmagonia, o della possibile, improvvisa fine. Ancora una riflessione, dunque, sull’ineluttabilità di un termine, di un confine che limita le nostre esistenze. La potenzialità della soglia, è certo, fa in modo che con le parole l’uomo agisca per una conservazione del «segno,/ unica serie di curve/ al limite del sensibile/ nella sera del cosmo» (vv. 45-48), ma, allo stesso tempo, induce a una riconsiderazione della nostra fragilità e le cadute per inarcamento di questi versi finali sembrano suggerircelo. Come in Piccolo (nume tutelare per Conticello): «È una mobile soglia che divide, unisce due zone;/ ma non sappiamo dove sorga la memoria/ e dove cominci l’invadenza discreta del flusso lunare» (E intanto la notte è venuta, in L. Piccolo, Plumelia, La seta, Il raggio verde e altre poesie, Scheiwiller, Milano 2001, p. 90, vv. 18-20).

I testi di Conticello vivono lucidamente il loro tempo, aggiornati e taglienti, aperti agli influssi della migliore tradizione italiana contemporanea e magistralmente radicati all’assolutezza etica che contraddistingue le migliori espressioni dell’isola (Piccolo, lo abbiamo visto, ma non dimenticherei Cattafi e le sue asprezze ctonie).

Il riferimento alle propensioni terragne della lingua poetica siciliana ci permette di ragionare su due testi esemplari, in tal senso, di Enrico De Lea.

Enrico De Lea

II.

Serba memoria d’alba,

camminate tra lo spino

e un rintocco calcareo, salvezza

sconosciuta dalle serpi.

Ritrova una salvezza altra,

di radura, la morte subitanea

dei vigneti, con la finzione

divenuta vita.

***

III.

Una frase anch’essa

calcarea, al suo spaccarsi

a un fuoco di fornace,

rende una crepa al cielo, troppo

vicino da escludersi.

Colmo di ogni ramo, esausto,

che qui s’innalza, collo

come di bestia antica

incattivita, resta,

sul vetro alle finestre, vapore

di erbe cotte della selva.

 

Entrambe le poesie appartengono alla serie Da un’urgenza della terra-luce (ass. La Luna, 2011), una sequenza di dieci frammenti incentrata sull’appartenenza “ctonia”, appunto, a un luogo materno: l’isola, è certo, anche se le scelte lessicali suggeriscono, quasi per sineddoche, un rapporto viscerale alla terra nel suo complesso. L’aspetto relativamente duro di una sedimentazione, direi archeologica, delle parole come delle esistenze siciliane, permette una riflessione sulle spaccature della lingua di De Lea, sulle sue crepe (e che cos’è una crepa se non un’altra soglia) pronte ad aprirsi al «cielo, troppo/ vicino da escludersi» (III., vv. 4-5). Ecco scaturire una lingua da quelle fenditure magmatiche delle origini, pronta ad espandere per necessità il suo orizzonte, anche con la forza «di bestia antica/ incattivita» (Ibid., vv. 8-9). Eppure dal «rintocco calcareo» di questi versi emerge la speranza insita nella conservazione di una tradizione attraverso un ricordo aurorale, sacralmente eterno: è ancora la facoltà sonora, il canto di questo linguaggio che sembra indifferente alle dinamiche accademiche, ai cavilli sul lirismo e l’anti-lirismo, a farci reimpossessare di un fondamento del linguaggio poetico. Sì, solo il canto è memoria, apertura nei rintocchi dei suoi ritmi: «Serba memoria d’alba,/ camminate tra lo spino/ e un rintocco calcareo, salvezza/ sconosciuta dalle serpi» (II., vv. 1-4), sibila e rimbomba sulle labbra la lingua e la memoria si riattiva in questi suoni striscianti, nell’allarme.

 

Gianluca D’Andrea

(Gennaio 2014)

 

 Punta-Faro-Messina

 

Diego Conticello, nato a Catania nel 1984. Specializzato in Letteratura e filologia moderna all’università di Padova con una tesi sulla poesia contemporanea in Sicilia (La curva mediterranea. Caratteri della poesia contemporanea in Sicilia, con monografie su Lucio Piccolo, Bartolo Cattafi, Nino De Vita, Angelo Scandurra, Melo Freni e Lucio Zinna, relatore Silvio Ramat). Collabora con la rivista QuiLibri de La Vita Felice di Milano.
 Sue poesie e articoli critici sono usciti su Incroci, Arenaria, Leggere Tutti, Centonove e blog come Poetarum Silva, alleo, Tellusfolio, Imperfetta ellisse, Paginatre ed altri. Sue poesie sono state tradotte in spagnolo per la rivista annuale Fragmenta II da Pablo Lopez Carballo.
 Ha scritto un volume di critica poetica per immagini su Lucio Piccolo (Lucio Piccolo. Poesia per immagini «Nel vento di Soave». Cittaperta edizioni 2009). 
Nel 2010 è uscito il suo primo volume di poesia (Barocco amorale, LietoColle con prefazione di Silvio Ramat).
 Della sua poesia si sono occupati, tra gli altri: Giorgio Linguaglossa, Antonio Spagnuolo, Sebastiano Saglimbeni, Fabio Michieli, Maddalena Capalbi, Angelo Scandurra, Melo Freni, Lucio Zinna, Marzia Alunni e altri.

Enrico De Lea (1958) dal 1988 vive nell’alto-milanese, originario di quell’area della Sicilia tra Messina e la Valle d’Agrò (in particolare Casalvecchio Siculo), a nord del taorminese.
 Pubblica nel 1992 la raccolta Pause (Edizioni del Leone) e nel 2009 la raccolta Ruderi del Tauro (L’Arcolaio Editore, Finalista al Premio Lorenzo Montano 2010 – Verona).
 Suoi inediti sono stati premiati al Premio Poesia di Strada 2010 (Macerata – Festival Licenze Poetiche), dove è stato finalista nel 2011.
 Con una raccolta inedita è stato finalista al Premio Miosotis 2010 – Edizioni d’IF – Napoli.
 Nel 2011 è stato, altresì, finalista al Premio Lorenzo Montano 2011 – Verona, con la raccolta inedita La furia refurtiva. Suoi testi sono apparsi sulle riviste Specchio (de La Stampa), Sud, Atelier (su cui è stata anticipata Acque reali, poi sezione di Ruderi del Tauro); in rete, suoi testi sono apparsi su La poesia e lo spirito (di cui è collaboratore), su Rebstein – La dimora del tempo sospeso, Nazione Indiana, Compitu re vivi, Imperfetta Ellisse, Clepsydraedizioni, Mutter Courage, Filosofi per caso. Il suo blog da presso e nei dintorni raccoglie parte della sua produzione.