INFANZIA E FABULA: Inattuale – Riflessioni sulla poesia (rileggendo L’angelo necessario di Wallace Stevens e Figure dell’infanzia di Walter Benjamin)

stevens benjamin

Walter Benjamin by David Levine eWallace Stevens nel 1952

INFANZIA E FABULA: Inattuale – Riflessioni sulla poesia
(rileggendo L’angelo necessario di Wallace Stevens e Figure dell’infanzia di Walter Benjamin)

Un’epoca sorgerà carica di sole

W. Benjamin

Infanzia e immaginazione vivono nel reale, l’affermazione, pur mantenendo ancora una valenza filosofica, ci permette di assaggiare porzioni di mondo, spartanamente, senza appesantirci con concettualizzazioni indigeribili.
Pochi libri danno un senso di conforto e accoglienza; questa sensazione deriva dall’incontro tra la persona che legge e un’atmosfera che la stessa ritiene “familiare”, laddove quest’ultimo termine può essere inteso come un particolare momento in cui la vita del lettore si lega alle esigenze che lo stesso momento richiede, rintracciandole nella lettura. Se si tiene fede a questa interpretazione, allora, ogni essere cambia innumerevoli dimore e la casa muta continuamente locazione e panorama, confondendosi con lo stato mentale del soggetto. Infanzia e immaginazione sono i due processi fondanti della futura ricerca di quella dimensione personale che può focalizzarsi nel bisogno d’appartenenza rappresentato dalla casa. Forse la poesia è questa dimora in continuo divenire, questa costruzione resa possibile dalla plasticità del linguaggio, dalla capacità dello stesso di trasformarsi insieme all’essere.
Ho accettato, durante il percorso temporale di studio e conoscenza della lingua poetica, cioè della poesia come creazione attraverso il linguaggio, l’idea di forma adattabile a un ambiente, il quale, a sua volta, si genera dall’incontro del tempo, l’epoca, fissata all’interno di un periodo circoscritto all’interno del quale è riconoscibile un movimento. Il frammento temporale della nostra presenza al mondo, nella sua particolarità, è un estratto del movimento assoluto dell’esistenza, ci identifica, ci consente un’appartenenza a un tempo e a un luogo che sono il tempo e il luogo, l’epoca in senso stretto. Vivere dentro un numero ristrettissimo di lingue, limitandomi, mi focalizza, mi riconosce in coordinate. L’immagine del mondo che germina dal reale, dall’aderenza anche solo a un momento del reale che permetta a questo stesso momento di concretarsi in una produzione, secondo un procedimento caro a Wallace Stevens, io ritengo sia il fondamento della poesia e della persona che la utilizza. L’infanzia, il gioco, gli strumenti che permettono il gioco, sono argomenti connessi ad ogni percorso creativo, ad ogni sperimentazione, seguendo Benjamin, anche linguistica. Ogni poesia è sperimentale se la svincoliamo dai generi e dalle etichette critiche, occorre ripeterlo per consentire di affinare il gusto per il gioco della parola, per consentire ancora il godimento del testo. La mutazione antropologica da sempre in atto, manifesta, adesso palesemente, l’impalcatura protesica della struttura dell’essere e la funzione reticolare delle sue esigenze relazionali. Il linguaggio possiede queste stesse caratteristiche, le atmosfere e i climi della poesia ci offrono una mappatura costante dell’epoca nell’incontro tra reale e immaginario, per immaginario intendo, lo riaffermo, la creazione di un mondo, del mondo concreto, attraverso la competenza linguistica e la conoscenza della storia dello strumento lingua; l’analogia col gioco è evidente: la curiosità che il bambino ha verso il gioco si manifesta nella manipolazione dello stesso, anche la distruzione è un elemento di conoscenza, la cura che ne deriva è in funzione di un riadattamento dello strumento ai momenti di rielaborazione dell’esperienza che il bambino compie nel suo percorso esistenziale.
Quando la “sensazionalità” professionale occupa il posto del gusto, dilettantistico, per la fabula, il racconto di un mondo e le sue gesta, la trasmissione linguistica diventa seriale e si producono opere di comodo riciclo. La creazione ha bisogno dello spreco di risorse, segue un binario diverso dalla tutela, occorre spendere fino in fondo le proprie acquisizioni, proprio come i bambini che giocano. Il mito e l’epica nascono dal gusto del ricordo e, attraverso la memoria, dalla riattivazione della riflessione sugli eventi. È banale, ma i concetti e le parole e l’immaginazione si sviluppano dal comportamento, appena esposto, che il bambino riproduce nella ripetizione assidua degli stessi giochi, variando la situazione, è chiaro, cambiano alcuni aspetti, ma il risultato è, comunque, l’etica: il comportamento stesso che si prende cura di sé e dei suoi strumenti.
È indispensabile riflettere sulle generazioni: la possibilità di “cantare” il racconto delle gesta dell’essere, nel tempo delle raffinate tecniche di trasmissione delle informazioni, è ancora compito della lingua, nella necessità di continuare a tramandare il “ricordo dell’essere”. Ricorda di essere, il bambino che crea la sua mitologia nel gioco. I bacini per incanalare un messaggio si sono moltiplicati in termini quantitativi, grazie alla rete; qualitativamente potremmo discutere della presenza effettiva di attori che creano la situazione in cui nasce il racconto. Ma gli attori sono gli stessi esseri che vivono questo momento in situazioni che vanno determinandosi, ancora Stevens ci dice che il nostro racconto “reale” può nascere dall’umile presenza in un campo che la nostra immaginazione è disposta a colmare attraverso strumentazioni reali.
Uomo, animale protesico, in cerca di riconoscimento e trasfigurazione; la realizzazione di un’identità che si muove nella trasformazione, nel tempo, nel limite che il tempo segna. La difficoltà sulla definizione di “identità”, ereditata dal Novecento, dipende dalla consapevolezza raggiunta dell’atrocità dell’essere, e dalla sproiezione tecnologica che ne è derivata, continuando a cancellare le potenzialità creative dell’epoca successiva, quella attuale, alienando, anche il poeta, dal contatto e dalla scelta in direzione della “fabula”, l’intreccio dimensionale di mondo individuale e collettivo. Sorge un nuovo compito, per ogni creatore di immagini: non si tratterà soltanto di testimoniare e vigilare, ma anche di sperimentare le potenzialità di questo nuovo individuo collettivo, una diversa immaginazione di realtà. Il rischio da tentare è quello epico, la memoria e l’immaginazione stimolate nel tentativo di cantare il mondo e il sé, nella loro coincidenza inclusiva.
Solo Wallace Stevens, nel Novecento, ha pensato la poesia nel modo appena esposto, la sua opera, infatti, commuove spingendo il proprio riflesso fino alla nostra attualità, soggiacendo ad una sobrietà classica espressa nelle scelte formali, senza sperimentazioni e infrazioni evidenti o plateali a quest’impalcatura.
La scomparsa dell’”Io” – concetto basilare per il poeta novecentesco, soprattutto in Italia, causa delle esperienze capitali delle grandi guerre e dello “spostamento” antropologico verificatosi, necessità aperta dall’industrializzazione e successiva “capitalizzazione” del mondo – ha reso concreta la paura di noi stessi perpetuando derive solipsistiche e chiusure in un ambiente inedito caratterizzato da una base artificiale. Questo dato concreto sembra precludere la possibilità di accedere al nostro quotidiano, se non in forma automatica, di presenziare il nostro riconoscimento. È curioso come due grandi “borghesi”, mi riferisco a Stevens e Benjamin, nel Novecento, riescano a dimostrare che “Io” è, e non è un altro. La quotidianità, interpretata come un vissuto di relazioni e contatti, ha un ritmo, i giorni si susseguono, il loro impatto è accolto da gesti comuni, sottoposti a cadenze familiari, consuete. I bambini sono gli esseri in cui l’esigenza rassicurante delle abitudini è più evidente. La riflessione di Stevens sull’immaginazione è infantile, quanto l’interesse di Benjamin per l’universo del bambino, che ha la sua radice nell’accoglienza della dimora, nella necessità primitiva del rifugio. La poesia può essere anche un rifugio: l’atmosfera raccolta, e quasi irreale, che l’attimo di creazione poetica a volte conosce ne è l’esempio. La ricognizione, che il poeta compie nei territori del reale, aspetta che il contatto col mondo si concretizzi nella ricezione di una familiarità, il riconoscimento che tenta di fuggire nell’alterità che è la struttura della nostra esistenza. L’io si ricompone ogni volta che l’appartenenza al mondo si manifesta nel contatto. Solo così, seguendo questa sensazione che il contatto tra mondo e individuo provoca, si riconosce la poesia, ogni lettore anche il meno esperto ne può partecipare. Lo studio e l’approfondimento, la conoscenza della poesia, della critica, delle tecniche, delle teorie che della poesia provano una spiegazione, devono tenere conto della relazione fondante che lega l’essere al contesto, anzi che forma l’essere di contesto uomo, altrimenti si rischia di spegnere il riconoscimento, di ridurre l’abitare il riconoscimento alla sola “letterarietà”, dimenticando la spinta creatrice che collega l’esistente, e che la poesia rappresenta. Ribadisco, non è solo la modalità del comporre, ma anche la realizzazione della persistenza di un ritmo che racconta il contatto tra essere e dimora a rendere possibile la poesia, un’ecologia testuale che è il luogo in cui l’essere stesso si trova; naturalmente questo luogo non è sempre uguale, ma continua ad avere pertinenze specifiche con il proprio ecosistema (la Terra, e i luoghi che la formano), frazione di un macrosistema (il Cosmo) che è la nostra casa unica.
Novità e ripetizione, s’intuisce dal pensiero appena esposto, sono intrecciate, allo stesso modo in cui Stevens delinea l’indissolubilità tra realtà e immaginazione: in questa direzione la memoria indirizza il nostro cammino, mantenendo con la sua presenza testimoniante gli aspetti comuni di ciò che chiamiamo tradizione. La memoria permette, ancora una volta, di riconoscerci abitanti di un ambiente, vecchie abitudini consentono di rintracciare nuovi percorsi. Il progresso, infatti, non è nient’altro se non una manipolazione sempre più approfondita di materiali presenti nel contesto specifico; la memoria degli strumenti, soprattutto quelli dell’infanzia, come in Benjamin, è l’espressione di una tradizione capace ancora di trasmettere valori che si possano definire collettivi, che possano trasformare la monade che ogni individuo è, in un essere che, nel comune di queste esperienze, scopra la propria effettività comunitaria.

Gianluca D’Andrea
(Gennaio – Febbraio 2013)

Poem Shot (12): Wallace Stevens (1879-1955) – di Davide Castiglione

Poem Shot (12): Wallace Stevens (1879-1955)

Pubblicato il febbraio 17, 2013 su:
Sentire di trovarsi sulla stessa lunghezza d’onda – intellettuale – di un poeta che si sta leggendo: a me è capitato soprattutto con Wallace Stevens, il più europeo tra i grandi modernisti americani. Lo allontana dai suoi contemporanei illustri (Pound, Williams, Eliot…) anzitutto il fermo rifiuto di sperimentare nuove forme già a partire dall’assetto tipografico: alle commistioni stilistiche eliotiane, all’euforia jazzistica williamsiana e ai blocchi didascalici poundiani, Stevens oppone un ferreo, appena ironico monolinguismo, un uso quasi esclusivo del blank verse (l’endecasillabo inglese) e una divisione in strofe isometriche. Un paradossale richiamo all’ordine, all’invariabile cristallino pòsto al riparo da innovazioni e mode d’epoca, per puntare invece sul ‘peso’ del detto, tutto percorso da un astrattismo pensante, d’inflessione filosofica ma piena di suggestioni sensuali. È una scelta che recupera la tradizione romantica inglese e quella simbolista francese, scelta ‘politica’ perché, mentre le forme più sperimentali hanno maggiore storicizzazione, l’uso di una quasi archetipica sembra resistere meglio al trascorrere del tempo, trascendendolo (anche se questa è un’illusione ottica: lo storico della letteratura sa bene che non è così). È forse una declinazione del classicismo moderno che da noi ha esponenti in Montale, Sereni, Fortini – difatti tutti avversi alle forme sperimentali più estreme. A illustrare tutto quanto detto ho scelto, per la dodicesima puntata di Poem Shot, una delle sue poesie più celebri, un manifesto dell’intera opera stevensiana: l’aneddoto della giara.

Anecdote of the Jar 

I placed a jar in Tennessee,
And round it was, upon a hill.
It made the slovenly wilderness
Surround that hill.

The wilderness rose up to it,
And sprawled around, no longer wild.
The jar was round upon the ground
And tall and of a port in air.

It took dominion everywhere.
The jar was gray and bare.
It did not give of bird or bush,
Like nothing else in Tennessee.

Traduzione: L’aneddoto della giara. Posai una giara in Tennessee, / era rotonda, sopra una collina. / Fece in modo che l’informe tutto / serrasse quella collina. // L’informe ascese fino a lei, / si allargo d’intorno, informe non più. / La giara era rotonda sopra il suolo / ed alta, quasi un porto nell’aria. // Affermò ovunque il suo dominio. / La giara era grigia e netta. / Non donava uccello né arbusto, / come nulla d’altro in Tennessee.

Il ruolo del poeta, all’apparenza forte perché campeggia in incipit ed è seguito da un verbo d’azione (“I placed”), è in realtà minimale, perché ridotto a questo atto primordiale del disporre, dello scegliere il luogo e l’oggetto: il resto della poesia è una sorta di parabola enigmatica,  un’epifania impersonale senza protagonisti umani né animali. Eppure, d’intuito, crediamo di poterci fidare di quanto viene detto: il tono solenne e assoluto delle proposizioni non confutabili (“round it was, upon a hill”… “It took dominion everywhere”, ecc.), l’assenza di qualsiasi intrusione autoriale e la limpidità e pulizia del dettato ci portano a questa fiducia. La poesia non sembra affermare, quanto constatare: ma la constatazione stessa, paradossalmente, è inverificabile sul piano mimetico (non possiamo certo essere d’accordo con la lettera della poesia!). Da qui lo status enigmatico ma necessario del testo: il focus continuo su qualcosa di altrimenti banale come una giara, fa di questa un’allegoria da decifrare.

A cosa allude la giara? La giara è interpretata da George Steiner come metonimia dell’arte. Individuando una fonte nascosta nel mito di Orfeo, che col suo canto raduna e calma gli animali selvaggi, Steiner spiega il testo stevensiano con la seguente proporzione matematica:

Orfeo : animali = giara : informe

La seconda coppia risponde alla prima, dalla quale solo l’assenza di animazione la distingue: la giara e l’informe (“wilderness”: traduzione più contestuale che letterale) si comportano come Orfeo e le bestie selvagge. Orfeo è il centro attorno cui le bestie si calmano; e la giara, moderna declinazione del canto lirico, è il centro attorno cui l’informe trova una struttura. Questa interpretazione, del tutto plausibile perché spiega l’interezza del testo ed è in totale accordo con la poetica di Stevens riassunta più in alto, mostra come sia possibile salvare una fiducia ancestrale nella poesia come portatrice d’ordine e, al tempo stesso, conformarsi all’ideale modernista di impersonalità, sostituendo l’ego del poeta con oggetti che ne diventano indipendenti. Ed è vero: appena scritta, la poesia diventa indipendente da noi, assume vita propria – non per qualche animismo di ritorno, ma proprio in forza di un’evidenza esperienziale. L’opposizione interna alle coppie si accresce in Stevens, perché giara : informe oppone ‘cultura’ e ‘natura’ più drasticamente rispetto a Orfeo: animali. Perciò la cultura, l’artificiosità del manufatto (la giara, la poesia) impone il suo ordine alla natura.

L’allusione all’ordine è ovunque, e su più piani, in questa poesia: nella ripetizione, ridondante sul piano informativo ma efficace su quello espressivo, della rotondità della giara (il cerchio è immagine di ordine e perfezione). La collina stessa (= mondo naturale) allude alla rotondità, mentre il ‘ritorno’ garantito dalla forma del cerchio iconicamente si specchia nelle epifore (“hill”… “hill”, vv. 1-3), nel contenimento di “round” in “around”, “surround” e “ground”, nella chiusura circolare con “Tennessee” (v. 1 e v. 12), nelle rime imperfette (Tennessee-wildernessair-everywhere-bare) e in altre riprese (l’alternanza, strana a livello coesivo, di “jar” e del suo pronome, “it”, nonché nella figura etimologica wilderness-wild). Un accuratissimo sistema di ritorni e riprese, di compiutezza esasperata, il trionfo della forma nella sua funzione: la distanza dall’informe strutturale inseguita da Pound e più moderatamente dal primo Eliot (“L’aneddoto” è uscito nel 1919) non potrebbe essere maggiore.

L’aneddoto della giara, credo, si fonda anche su quella che Riffaterre ha chiamato regola di conversione: mentre il topos è della natura che assorbe o sussume la civiltà (si pensi a “La natura è un tempio” di Baudelaire!), qui è la civiltà, tanto più piccola e apparentemente triviale (la parabola è definita, con understatement, come aneddoto; la giara si profila contro l’intero stato del Tennessee!) a ordinare tutto ciò che le sta intorno. Questa poesia mi sembra perciò una difesa della prospettiva antropocentrica: un messaggio però positivo, perché quella che sembra arroganza di dominio (la giara che domina il tutto può forse essere letta, politicamente, come metonimia dell’imperialismo occidentale) non è altro che il nostro, primordiale, modo di dare senso e forma a ciò che ci circonda. La risonanza del detto – perché amplificato da ciò che implica – raramente in poesia ha trovato forma altrettanto compiuta.

 

Poesia – LA VITA E ANCORA LA VITA NEI VERSI INEDITI DI DANIELE MENCARELLI

 

Poesia – LA VITA E ANCORA LA VITA NEI VERSI INEDITI DI DANIELE MENCARELLI

pubblicata da Osservatorio C-Miniera il giorno Venerdì 8 febbraio 2013 alle ore 13.15 ·

Tra quelle della sua generazione (spiace dover parlare ancora per generazioni, ma del resto non ce ne serviamo a livello critico), quella di Daniele Mencarelli è una delle voci che ci convincono di più: per come sa attingere al reale, per come sa scendere nel profondo tentando non solamente una domanda ma anche una risposta, per quella classicità asciutta del verso che è tipica di chi vive al centro-sud e respira solamente – senza assorbirli, cioè – i minimalismi tanto di moda al centro-nord. Una classicità carnale, incarnata e dirimente se, come accade spesso nei versi degli scrittori di questo troncone d’Italia, ad essa si legano alcuni degli esiti migliori (penso a Rodolfo Di Biasio, a Leonardo Mancino – sebbene fosse marchigiano di nascita -, a Gianluca D’Andrea, a Nicola Bultrini, a Claudio Damiani, e ancor prima a Rocco Scotellaro, a Bartolo Cattafi, a Vittorio Bodini, a Francesco Tentori, etc.).

Dall’amico Daniele riceviamo, questa mattina, un estratto di inediti dalla raccolta cui sta lavorando alacremente e che si intitolerà Figlio. E’ una gradita conferma della vena buona dell’autore, leggerli. E una opportuna condivisione proporli su queste colonne.

 

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*

Il tempo ti rende figlio

accende la paura del domani

forze che si sfanno in un corpo non tuo

di vecchio arreso alla vestaglia

muto al terrore che niente rimanga.

 

Padre di luce e potenza

del sacro spendersi

in lavoro e poi lavoro

stringi le tue mani di gigante,

senti quanta ancora ne possiedi

di forza per viaggiare nel futuro,

nel bene che hai creato, un’alba alla volta.

 

*

Vigilia di Nicolò arrivi

piena d’agosto e luce

aria che avvampa sui paesi vuoti,

al nostro incontro poche ore

poi pelle toccherà pelle

al posto della tua immagine sognata

ci sarai tu in carne e aria,

d’improvviso vuota questa casa

dove s’attende il tuo respiro

il primo pianto d’amore al mondo,

che cominci tua vita nascitura

figlio dell’uomo rifai la mia storia.

 

*

Ecco la tua casa

i paesi che farai tua terra

ecco i visi di famiglia

ancora sfocati alla tua vista,

del mondo niente altro ti serve,

crescerai di stupore in scoperta

vedrai cose figlie all’universo

cose piccole con dentro un vento

da scoperchiare il petto,

come gli occhi di tua madre

innamorati suoi tuoi ancora ciechi.

 

*

Quando ridi

e sei tutt’uno con la gioia

niente che sia male esiste,

fremono nell’aria le tue braccia

afferrando invisibili cose

luci e ombre amiche

giocano con te in segreto

in una lingua vietata a ogni altro,

poi nuvole a coprire il sole

il buio che penetra la stanza

nere le pareti dove le tue mani

carezzavano il pulviscolo,

quello che non vedono i tuoi occhi

è il dolore, si chiama perdita.

 

*

Non ha volto la tua storia

né luogo dove ritrovarti,

nemmeno a darti un nome

abbiamo fatto in tempo,

tanto più è sofferta

nostro frutto la tua scomparsa

in questa nebbia senza terra

dove far crescere il ricordo,

tu solamente uno dei tanti

da alfa a omega senza mondo.

Eserciti di uomini mai nati

quale sterminata terra

vi tiene in grembo?

E di noi vostra carne

porterete vaga memoria?

Da questo stesso amore

come piaga nutrita dall’addio

sarete dominati fino al nostro incontro?

 

*

Scoprirlo da un telefono

che il demonio esiste,

ha la voce di un dottore

e nomi di malattie,

la sua lingua di fuoco

divora la casa,

deforma ogni cosa,

tu arrivi e riflesse

nei miei occhi vedi le fiamme.

Ora da buon maestro

parola infilzata a parola

a te madre unica specie

con il figlio che ci cresce

devo dare insegnamento.

Ad avvicinare al suo nome

la parola aberrazione.

 

(amnion)

 

*

È chiusa la finestra

dove t’affacciavi senza guardare,

qui la storia ha scavato

pozzo con nome di Pietro,

lo stesso ospedale,

appena un anno è passato,

qui dove ferocia del male

ha fatto vittima di un figlio

Viola vedrà il suo natale,

il suo giorno è arrivato

sarà festa e più sotto pianto

il vuoto del tuo primo compleanno.

 

*

Prima di lasciare l’ospedale

Viola esige il suo pasto,

occorre un angolo remoto

dove il ghiaccio a folate

non arrivi coi suoi attacchi,

quale forza guida la tua scelta?

Che ti siede materna regina

fra tutte sulla medesima sedia

dove ore e tragedia sfilarono

a maledire Dio e il suo creato,

è solo stravaganza del caso

che mi fa tenere figlia

fra le braccia come cristallo

dove mancanza di Pietro bestemmiava?

E se fossi Tu quale bene sai dare

a chi ha sfregiato il tuo nome?

Con quale disumano coraggio

restituisci dono e perdono

a chi ti ha bruciato nell’odio?

Troppo vasto il tuo cuore

che non sa resistere ai suoi figli

di Padre che tutto concede,

medesima sedia stessa la voce

che ora invoca e ringrazia.

 

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Daniele Mencarelli nasce a Roma, nel 1974. Vive ad Ariccia. Ha pubblicato quattro raccolte di poesie: I giorni condivisi, poeti di clanDestino, 2001, Bambino Gesù, Tipografie Vaticane,2001, Guardia alta, Niebo-La vita felice, 2005, e Bambino Gesù, edizioni Nottetempo, 2010 (vincitore del premio Città di Atri, finalista ai premi Luzi, Brancati, Montano, Frascati, Ceppo). Sue poesie sono apparse su diverse riviste letterarie, cartacee e on-line. È presente nelle antologie:  L’Opera comune, Atelier; I cercatori d’oro, poeti di clanDestino, in Dieci poeti contemporanei, Pendragon e in “Nella borsa del viandante”, Fara editore. Da diversi anni si occupa di fiction a Rai Uno.

 

Geologia di un padre di Valerio Magrelli

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su LPLC l’ottimo incipit del libro di Valerio Magrelli, lettura sempre assai stimolante;

ecco il link

http://www.leparoleelecose.it/?p=8615

dieci testi inediti di Enrico De Lea (o la forza magmatica del linguaggio)

dieci testi.