Gli alberi e i ragazzi – inedito

Gli alberi e i ragazzi

 

Le schegge che da questo sopravvivere

appaiono scomparire dal resto,

nello schermo che ci avvisa e ristora,

nei display sempre accesi, gli occhi

dei ragazzi vivono immersi,

radici nel nuovo millennio.

Il mondo fermentante e marginale

respinge ogni apparenza

restando apparizione di nulla

e desiderio infinito. Dove il contatto

è il gesto di un attimo che scompare,

una visione collaterale,

il futuro insegue esempi, vene che provano

la strada al tronco, al fiume in cui convergono

correnti educate da altre correnti.

La smisuratezza di un circuito esatto,

un organismo che suscita il miracolo composto

da stratificazioni per una sola figura, come un albero.

 

In una scuola di un quartiere suburbano,

dove basso è lo scarto che separa

i riflessi e il vero che la realtà concede,

mi sorprendono mille vicende,

eventi che considero fondanti,

emergenze che si fissano nella memoria.

 

Dai gesti alle urla nella classe il gioco

della vita si concretizza…

gli insulti e le mani dipendenti da qualcosa di più ampio –

rami che si incrociano e uomini che abbandonano

i nodi in cui si avvolgono –

gli sputi di una ragazza ancora bambina

è la linfa di cui devo nutrire la mia sopravvivenza.

I germogli della strada rastrellati in una rete,

la più facilmente accessibile, nenia inconsapevole,

che ci immerge tutti in questo luogo di forte agnizione.

 

La chioma si apre e copre il cielo senza

oculi o feritoie. E il cielo è lì

seguendo la scia nel bagliore

degli occhi dei ragazzi, buchi

che chiamano desideri, come il trucco

di bambine che maschera altre negligenze

diventando “modello” di eleganza,

trucco che va oltre ogni bellezza

e si trasforma in sistema, comprensibile

ma non per questo accessibile…

per lo stesso motivo il verde ha tonalità

che l’occhio e la lingua non raggiungono

e l’albero resta indecifrabile.

 

La vita è fissata nella storia dei quartieri,

ho imparato a disgregare paradigmi

ma ciò che cresce mantiene un che

di preconfezionato, un habitus.

 

Le cose sono insieme all’uomo,

lo attraggono, lo sferzano, continuano

la loro funzione protesica,

eppure brilla altro sulla superficie,

è la vita della relazione che i viventi

possono utilizzare attraverso gli strumenti…

i ragazzi non sanno che rispettandoli

rispetterebbero se stessi, allora li bruciano

e li distruggono introiettandone la fine.

 

Le vene trasportano linfa

e diffondono il nutrimento,

il sistema si equilibra per la presenza

di zone periferiche, ricicla le sostanze

ed espelle le nocive, l’organismo

tenta un ciclo non pensando alla sua fine.

Alcuni frutti maturano, le generazioni

si manifestano in curve e pieghe dei corpi

anche se invecchiare sembra sempre più impossibile,

simulo un’altra vita, mi adopero per allontanare

la consapevolezza di morire – comodamente,

mi lascio trascinare, un buttero nel cosmo

che si dissolve e non aderisce all’evidenza

di essere dissolto.

 

L’albero ravviva i suoi colori,

cosmesi non ancora volgare, radice

adorna di una nuova vitalità –

le ragazze mascherano l’entropia,

l’abbandono radicale che le genera,

candidamente, la sofferenza

di una famiglia disintegrata

dall’habitus d’origine, ecco il trucco,

si assottigliano al sistema e aderiscono

agli eventi fino a fuggire dentro schermi

che oscurano nuove affezioni, o nuove agnizioni…

restano mascherate il più possibile, fuori

il più possibile, mi insegnano un comportamento

che è mio e anche dell’albero, mi insegnano

la divulgazione.

 

Si spezza un ramo, le radici

alimentano i primi respiri,

la chioma s’infoltisce, è primavera inoltrata,

il sole si accende e acceca, noi non siamo in un luogo,

legati ed espulsi, chiediamo l’ombra

e un attimo di coinvolgimento. Dalle braccia

dei ragazzi una richiesta, ma riappare la necessità

e la risposta rimane un miraggio.

Loro fuggono nel loro universo, il mondo

spesso è ricco di aperture e membrane,

i nostri universi si divorano, tangenti,

assiderati dal contatto fino a fare apparire

uno strascico che fa pensare

all’emarginazione di questi quartieri,

così vivi e in simbiosi con la morte.

 

Si parla di denaro, di acquisto

e di coraggio infantile durante una rapina…

uno dei ragazzi è stato malmenato

da un militare in borghese, così mi dice

e ci credo, mentre armato di coltellino

minaccia le vecchie signore; un altro,

entra nella bottega e, armato, ruba 20 euro…

la giornata è piena, si compra da fumare

e si stordisce davanti a un video porno

sul micro portatile, circondato dalla sua tribù

temporanea, fino al prossimo distacco.

 

Le venature, i canali di trasporto,

i liquori, le analogie con altre forme di vita,

ogni parte rende possibile l’esistenza

e rinvigorisce la pianta.

Al piano superiore della scuola

altre storie perpetuano l’oscillazione

del verso, è un nuovo versante

di esperienze che si mobilitano per uscire

e cambiare la loro piega, il flusso

che spera ancora ci sia un passaggio

che porta in alto, alla foglia più alta.

L’eventualità di un lavoro o, più remoto,

un percorso di studi. Osservo e abbraccio

questi desideri e lo sconforto che a volte arriva

e avvolge come i racconti dei miei piccoli eroi,

raccolti alle radici, intrecciati

al fermento, alla rinascita.

Archeologia e Comunità

ARCHEOLOGIA E COMUNITÀ: Appunti sull’opera di Fabio Pusterla

 

La familiarità con un mondo nato da una ricerca assidua e ostinata, completa nella scelta di una direzione che conduce alla riscoperta di appartenenza alla communitas umana, alla specie vivente, è ciò che mi spinge a provare un excursus nell’opera, a tal proposito significativa, di Fabio Pusterla.

Agli albori del lavorio del poeta svizzero è subito avvertibile la tendenza allo scavo delle potenzialità “erosive” della lingua che, nella sua capacità espressiva e comunicativa, manifesta la necessità di testimoniare:

Le parentesi

L’erosione

cancellerà le Alpi, prima scavando valli,

poi ripidi burroni, vuoti insanabili

che preludono al crollo. Lo scricchiolio

sarà il segnale di fuga: questo il verdetto.

Rimarranno le pozze, i montaruzzi casuali,

le pause di riposo, i sassi rotolanti,

le caverne e le piane paludose.

Nel mondo Nuovo rimarranno, cadute

principali e alberi sintattici, sperse

certezze e affermazioni,

le parentesi, gli incisi e le interiezioni:

le palafitte del domani[1].

Se la lingua appare residuo archeologico, luogo minimo di un sapere sempre più fagocitato dal tempo, allora la tensione di chi aderisce totalmente a questa protesi millenaria si fa coraggio emancipante, urlo attenuato, emblema di una sobrietà da sparare addosso a chi fa, della stessa protesi, possibilità offuscante e falsificatrice: in Heteroptera[2] è proprio questo scontro tra le possibilità linguistiche ad essere focalizzato:

Heteroptera

O anche quando vengono

– le lunghe code, i ranghi,

e le frotte impazzate, intristite –

patetici, anacolutici

e ci snodano

i serpenti sintattici, malefici

crotali, a voce o in bollettini

anastatici,

giocandoci poi come gli acrobati

– gli applausi, i panegirici

i grafici economici i tagli indispensabili

alle spese sociali i purtroppo inevitabili

sacrifici –

famelici, energetici

questi cari

politici.

Lo lotta di una lingua che sia in grado di “dire”, oltre il dubbio della possibile inutilità delle parole, caratterizza l’operazione di Pusterla, un agonismo nella profonda agonia dell’eredità del Novecento, e della crisi che ne è scaturita. Con sempre maggior vigore, raccolta dopo raccolta, il dubbio “ossessivo” che domina questa poesia, quello “lombardo”, “sereniano”, che può riassumersi nella sconfitta del messaggio comunicabile, della trasmissione, e che, evidentemente, caratterizza l’ambivalenza di Stella variabile, tende a frantumarsi e ricomporsi nella consapevolezza che dal poco rimastoci, dall’umiltà del sacrificio, può ricostituirsi una speranza.

Analizzando Gli strumenti umani, Mengaldo ci avverte di come questa raccolta nasca «da un processo di crisi del linguaggio, in margine o meglio nonostante una congenita difficoltà di dirsi, di parlare, una sfiducia nella labilità e consunzione delle parole, e relativa sfiducia nelle loro possibilità di ricezione»[3], per questo il dubbio, di matrice ermetica, di Sereni, anticipa, nel balbettio della ripetizione, un nuovo sbocco comunicativo che la raccolta successiva non sembra proseguire.

Il racconto in versi che tenta Sereni, si veda a titolo esemplificativo il componimento La poesia è una passione?[4], si fa auspicio e tensione in Pusterla. Nella raccolta Bocksten[5], il poemetto centrale omonimo riflette questa tendenza e inoltre, ed è ciò che più conta, spalanca la possibilità che la memoria sia l’attenzione al nostro passato, trasmissibile attraverso un lavoro archeologico che stia oltre la colpa e qualsiasi ambivalenza del dire, in piena immersione mimetica nel molteplice. Il poeta sembra farsi reporter di questa perlustrazione, raccoglie i reperti e li illustra, si fa contagiare dalle potenzialità affabulatorie della testimonianza. Si spiega, in questo modo, anche il nesso “evolutivo” di questa poetica del dire che si dirige, partendo proprio dai dati riscontrabili, verso le potenzialità favolistiche della testimonianza, superando la narrazione e ri-scoprendo il mythos, ma lo vedremo meglio in seguito.

Attraverso lo scavo è possibile portare alla luce la ritualità delle azioni umane (basta consultare l’opera di René Girard[6] per cogliere appieno questa evenienza), enucleando le potenzialità di un racconto che da “storia” trascenda a mito fondativo di una comunità. Si svela, così, l’interesse per i legami basilari, oserei dire “tribali”; Pusterla si colloca alla loro sorgente e nascono così i componimenti dedicati alla famiglia e all’infanzia, sempre più insistenti a partire da Le cose senza storia[7].

In Visita notturna[8], troviamo ancora un parallelismo con una poesia de Gli strumenti umani: in Quei bambini che giocano[9] è in campo la colpa dei padri, irredimibile a causa «del corrotto intendimento»[10] della storia; la poesia di Pusterla ci mostra il paesaggio preannunciato da Sereni nella ripetitività asfittica del quotidiano, ma il padre adesso chiede di essere salvato, spera che la sostanza del gioco dei bambini possa cambiare le sorti annunciate dallo sbaglio e dalla falsità presenti ne Gli strumenti umani.

Questo rapporto generazionale è un altro sintomo della tensione archeologica presente nell’opera di Pusterla, parte di quello scavo che cerca di mantenere vivo, rintracciandone le radici, il nostro essere in comune, l’ecosistema o campo d’azione, in cui l’essere chiamato uomo ha sviluppato il suo percorso, senza timori nell’osservare ad occhi “nudi” le banalità del male.

Se, come dice Girard, «bisognerebbe rinunciare una volta per tutte al giuoco dei buoni e dei cattivi[…]; bisognerebbe riconoscere che il misconoscimento è in ogni dove, che la violenza è dappertutto, che essa non è vinta»[11], allora nessun altrove di senso può apparire: «il passo è qui, la fuga un’altra strada»[12].

La relazione, da una parte tra memoria e conoscenza, dall’altra tra oblio e ignoranza, è frutto di un antagonismo millenario, che mette l’uomo di fronte alla natura, creando quella alienazione che ha contraddistinto i nostri passi fino al presente: «Labor omnia vicit/ improbus et duris urgens in rebus egestas»[13], solo il nuovo sacrificio, il lavoro paziente sul campo delle parole, restituendo la memoria alla comunità, può salvaguardarne la sopravvivenza. «How fondly will she then repay/ Thy homage offer’d at her shrine,/ And blend, while ages roll away,/ Her name immortally with thine!»[14]; forse nessuna ricompensa risarcirà questo lavorio, nel setaccio forse resterà un briciolo di constatazione, umile, ma per questo più vera; se il mondo non è nient’altro che il pianeta-conglomerato in cui ci è toccato vivere, perché non continuare a ricordare che si tratta pur sempre della nostra unica dimora? Questo sentimento necessario di appartenenza emerge da un componimento di Pietra sangue:

Isla persa

Crepacci la circondano, le smorfie

raggelate del ghiaccio che si sgretola. Dall’alto

franano sordi blocchi di granito.

E se un camoscio, o uno stambecco troppo audace,

si avventurasse sui costoni e con uno scarto

nervoso scivolasse sulle pietraie in un gorgo di luce,

qui sarebbe inghiottito e nessuno lo saprebbe mai[15].

L’immagine di questo massiccio che si staglia in mezzo al ghiacciaio del Bernina (come si legge nella nota dell’autore), ritaglia un movimento metonimico per cui lo stesso massiccio diventa figura del mondo e della precarietà della sua esistenza, che rischia di essere dimenticata senza alcuna testimonianza: «Ma eravamo qui, a custodire la voce»[16], qualcuno tiene duro, è presente dove l’oblio incombe, dentro un turbine senza appigli che ricorda la bufera di dantesca memoria e richiama il nostro presente, la turbo-informazione che ne struttura le intercapedini creando buchi di memoria a velocità inimmaginabili. Il linguaggio della poesia, allora, in questi termini, concede una speranza, un orientamento, e lo fa dicendoci la nostra dispersione.

Ora occorre spendere qualche parola sulla pietas e sul rapporto con la fanciullezza, a tale scopo si riportano questi versi:

Le prime fragole

Strisci nell’erba bianca di margherite.

Sei vestito di rosso, hai una cuffia rossa in testa,

e nella mano destra un pelacarote che infilzi

nel terreno ancora molle di marzo, sempre avanzando

lentamente nel folto del prato. Sdraiato

sull’erba, con le margherite negli occhi. Sto scalando

l’Everest, mi dici. E anche le guance sono rosse di gioia.

Strisciavi ieri nel tuo Everest di margherite

e io ti guardo oggi nel ricordo e intanto ascolto la radio

in attesa di notizie terribili, e tu continui a strisciare felice

e la radio dice della bambina schiacciata da un panzer a Gaza

tu prepari una pozione con piume d’uccello per imparare a volare

io ti preparo le prime fragole rosse dell’anno e mi chiedo se gli occhi

dell’uomo che guidava il panzer avranno capito[17].

L’immaginazione cresce spontanea, il gioco articola un mondo, creando connessioni inaudite eppure familiari, l’infanzia è questa capacità primordiale di manipolare oggetti e contesto: in questi gesti è presente la storia umana, ma questa storia, la testimonianza che ogni bambino è, può essere distrutta. Ecco perché è un dovere intrecciare la salvaguardia al sentimento della pietas che, concedendo vera empatia, dona il trasporto necessario alla compassione e alla contemplazione dell’esistere. Occorre riflettere sui nostri limiti, sulla continenza in funzione della cura dell’altro, per permettere l’accesso a quella vacanza privilegiata che è la curiosità. Per questo nelle poesie di Pusterla si avverte un senso di sospensione e lentezza che coglie l’essenziale: selezionare e conservare qualcosa di universalmente valido.

Si spiegano, così, le incursioni nei territori della favola, come a voler rintracciare le origini di una morale intima alla creazione umana. In Sinsigalli[18], una favola moderna nata per gioco, a detta dell’autore, ad essere affermata è la possibilità di una resa che, evitando il possesso e la potenza individualistica, apre alla liberazione del canto, all’indeterminatezza e al dubbio che permettono l’esistenza. La morale implicita, il messaggio rivolto ai lettori senza distinzione d’età, come tutte le favole degne di nota, sogna questa nuova apertura svincolata da ogni forma di presenzialismo: «Non afferrare: cosa vuol dire? Si chiede il sinsigallo. Sa cosa vuol dire in termine di negazione; ignora cosa significhi affermativamente. Qualcosa che non sia possesso, che non sia conquista. Una resa incondizionata: è possibile? Dove conduce? Se ci fosse una risposta, le terre non sarebbero più sconosciute e spaventose; tutto sarebbe facile e banale. E inutile anche: un altro parco per viaggi premio di carrubi e carrube. Questo sa il sinsigallo: sono le domande a contare, come finestre di luce nelle tenebre»[19].

Occorre, adesso, osservare da vicino l’ultima fatica poetica di Pusterla, per capire stabilmente e confermare il percorso fin qui analizzato.

Il punto di partenza è sempre lo stesso: la sorpresa di un frammento, di un minimo germoglio all’interno di un paesaggio appiattito, comune nella sua ripetitività. Da questo grigiore neutro emerge «un segno sull’acqua»[20] che umilmente fa breccia nello stato d’animo del soggetto e lo sconvolge. Stlanik[21], il poemetto che inaugura la prima sezione di Corpo stellare, ci racconta del «pino prostrato» che preannuncia la primavera e dei tre autori-guida del poeta: Jaccottet, Celan e Mandel’štam, tre figure che, immerse nel dolore, hanno trovato barlumi di rinascita attraverso la parola, intesa come adattamento e forza, anche se momentanea, soprattutto per gli ultimi due, e come grazia per il poco offerto dall’esistenza, per Jaccottet. Adattamento, forza e grazia sono caratteristiche dell’umile “Stlanik” e dell’armadillo che, contrariamente ad ogni previsione, trova nei territori gelidi del nord del continente americano il suo habitat: laddove un minimo barbaglio rende fertile un nuovo campo di luce.

«La nostra debolezza era dunque così forte»[22], un richiamo all’ultimo Fortini sembra un obbligo, laddove il programma di Pusterla, cercando una speranza nei minimi accadimenti che segnano una resistenza all’entropia dilagante, si fa più conscio esaltando ciò che preparavano le raccolte precedenti.

La carrellata allegorica dei maiali portati al macello che cantano la vita prima del colpo finale o i cani, testimoni di episodi nefandi della storia creata dall’uomo, e ancora, gli animali estinti e impagliati, dispiegano analogicamente le risultanti di un percorso… il percorso della sopravvivenza e della memoria. Il sacrificio di questi esseri fragili, di fronte alla strapotenza umana, testimonia la vita effettiva del dolore e della luce. Questa vita che sogna la sua trasformazione, il desiderio e la beffa che un uomo, “ricostruito” per rassicurarci sulla nostra origine, perpetua subendo il gioco fittizio e fondante allo stesso tempo, perché ci ha reso quel che siamo, della manipolazione. Il ciclo Uomo dell’alba[23], nella seconda sezione, ci parla di questo ma anche, e soprattutto, di una scelta, di un desiderio inverso: l’uomo manipolato chiede l’alba, il movimento, la direzione senza schemi e, quindi, il disorientamento della nostra nascita animale. Per questo a raggiungerci è la richiesta: «Leggetemi al contrario: sono il viaggio/ da compiere, la meta non raggiunta,/ il corpo da ritrovare»[24].

La ricerca, lo scavo, il ritrovamento tra macerie, costituiscono i temi portanti di questa archeologia della parola. Sono, poi, ulteriormente collegati alla speranza generazionale, che si oppone alla sfiducia collettiva derivante dalla caduta di ogni utopia sociale, e che assume connotati specifici nella figura del figlio: il dittico Lettere da Babel[25] tenta di esplicare la confusione storica nata dalla perdita di questa «speranza collettiva»[26], ma anche della gioia assurda di sperare, senza consolazioni, nella certezza che, nel giro inarrestabile dei giorni, «TOMORROW IS NOW»[27].

La volpe che s’incontra nella terza sezione, subito dopo Lettere da Babel, infatti, è «perduta oltre ogni dove. E qui cammina»[28], ancora una volta il senso di spaesamento, di stampo novecentesco verrebbe da dire, coglie dei punti fermi guizzando dalla constatazione dell’inevitabilità degli eventi. La realtà s’illumina dove tutto appare perduto: al limite di un’esistenza, nella necessità scabra, purificata all’essenziale, di una sola motivazione, la sussistenza.

Tutti siamo coinvolti, nel nostro procedere stentato, attendiamo quell’attimo di pienezza che deriva dal desiderio di continuare, che realizza la nostra appartenenza comune, l’univocità che ci assimila al ritmo del cosmo. Chi legge Corpo stellare sarà colpito da questo abbraccio totale quando  giungerà a pagina 104. Leggendo I gesti del lavoro[29] si toccherà il vertice del libro:

I gesti del lavoro

E poi talvolta dai gesti opachi del lavoro

scivola fuori il motivo di una danza.

Allora le mani accarezzano l’aria

le braccia diventano i rami di un melo che si aprono

verso la luce, e salutano qualcosa.

E gli altri sono qui, tutti qui insieme:

tutti nel gesto, tutti nel movimento

di una mano che attraversa ere biologiche,

stringe una sabbia lontanissima,

un cacciavite, un martello, un amo, una lama di selce,

la pelle tiepida di un animale scomparso,

un sasso caldo di fuoco,

un sesso vivo.

Allora è grano, semi di cereali, vento

che muove i passi, e canta: sotto i piedi

ci sono le grandi pianure, le pietre bianche

di strade bianche di strade che portano al mare,

feste di stagione.

Allora seguo le oche selvatiche, i branchi di pesci,

so tutti gli odori del bosco, i percorsi dell’acqua,

risalgo la schiena d’erba delle montagne,

le valli del cielo.

Perché talvolta dai poveri gesti del mio lavoro

scivola fuori il motivo di una danza.

Allora non ho più peso, e sono libero

in fondo al mio segreto quotidiano.

E se la luce si fa più lontana

ne custodisco l’assenza.

L’assenza che chiude la poesia è la chiave di volta del pensiero del suo autore: abitare il luogo inarginabile che è l’universo, l’inafferrabile tutto «che nessuna parola può dire e che in ogni parola/ risuona come l’eco di un lento respiro»[30]. Quest’attimo di pienezza è il “corpo stellare” del titolo, per questo ogni accostamento al titolo famoso di Sereni (mi riferisco ovviamente a Stella variabile) mi sembra fuori luogo, poiché in quest’ultimo testo niente è più lontano dalla possibilità di esaltazione appena constatata in quello di Pusterla.

Le Storie dell’armadillo[31] continuano, sulla scia di Zurigo HB, l’incessante lavorio sulla necessità e, infatti, l’animaletto «…Va perché va,/ perché bisogna andare, perché il mondo/ è grande, il tempo breve…»[32]. Il cammino procede, lentamente ma caparbiamente, la parola scivola nel futuro, in un nuovo possibile mythos, sotterranea e, per questo, forse vera, senza presunzioni o slanci deformanti, umile, striscia su una realtà da re-inventare.

La vera potenza della parola, l’affabulazione, scaturisce dalla fatica di chi, quotidianamente, cerca di mantenersi vigile rispetto all’essenziale, rendendo i «passi vaghi»[33] dell’armadillo-poesia pronti ad andare «da qualche parte»[34], «…verso i tempi a venire e le montagne/ gelate, e i grandi laghi»[35].

Nella quarta sezione del libro, la commistione tra il ritrovamento e l’estinzione, come espressione dei due aspetti umani dello scavo, atto a recuperare il passato, e della distruzione del passato stesso, è presentato in Da Marmorera (pensando a Brassempouy)[36]. La riflessione si sposta sull’abitare, sulla dimora e sulla conservazione di un ecosistema d’appartenenza. Il quadro “ecologico” della salvaguardia assume un risvolto molto personale, il poeta prova a focalizzare un’esigenza e rischia di diventare “cantore” del disagio della scomparsa: «La mia casa si chiama Resistenza e qui tendo l’orecchio»[37]. «Memoria e vertigine»[38] che cadono «Fino al basalto, i gorghi»[39], per conservare nella parola, «preservare i luoghi inaccessibili»[40], addirittura salvaguardare un ambiente che corre verso un mutamento irrimediabile: «Proteggere il silenzio con parole/ minime, rispettose, memorabili»[41].

La salvaguardia, dopo un attraversamento personale e storico, personale perché storico, forma un parallelismo tematico con un altro autore, il quale, sin dalle origini del suo lavoro, si è interessato all’aspetto “testimoniale” della parola poetica, alla possibilità che essa, da “memoria”, si faccia indicazione e, infine, cammino:

E tu ti decomponi nel ritratto di San Rocco

                                       Al Sacro Monte, quasi gli somigli,

                                       perdi un pezzo ogni anno, ogni stagione

                                       Ti scompare un colore, tu svanisci

Ma se riuscissi dio mio se riuscissi

Testolina di logos contro mythos che sono

A far rimare sera con preghiera

Come Vincenzo Cardarelli

Per negare e annegare

Il nucleo d’ordine dentro la parola

Dei vecchi poeti fumatori

Con le rughe a tagliarsi le guance,

Una gramigna che l’asfalto quasi

Non riesce più a contenere[42].

Le poetiche di Franco Buffoni e Fabio Pusterla sono accostabili, in primo luogo, per aver riscattato Sereni, scegliendo di avere fede (per quanto minima) nella parola poetica, poi perché entrambi hanno deciso di raccontare testimoniando, aprendo la possibilità di una nuova aderenza al reale che permetta di ristabilire un contatto con la comunità. Anche per questo, alla base di queste due ricerche, troviamo una lingua semplice e comunicativa che non si carica di nessuna tentazione per l’inaudito.

Alla luce di quanto esposto, il messaggio di Corpo stellare emerge dall’indefinito, dal precario dell’esistente, verso la direzione del quale vale comunque la pena dirigersi: «Bisognava cercare:/ ma cosa? La cosa introvabile,/ certo. La cosa scordata che non si può dire,/ la cosa più inutile. Stella/ di spine e di carne, stella di sguardi e di suoni./ La riva più dolce di un fiume/ desolato»[43]; «Le ali servono adesso a volare al contrario/ a calare nel buio»[44], a sprofondare verso l’ignoto, con la consapevolezza, però, di avere una storia, nuovamente, un contatto con la nostra irrevocabilità, con la fragilità che il fatto d’essere comporta. Solo questa fragilità, «la debolezza/ che vince la forza»[45], è il dono colmo di responsabilità, l’eredità del Novecento. Eppure da questo minimo vibrare, se vogliamo credere a Corpo stellare e a tutta l’opera di Pusterla, può accendersi «ancora un po’ di speranza, d’amore»[46].

Settembre – Novembre 2012

Gianluca D’Andrea

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[1] F. Pusterla, Le terre emerse – Poesie scelte 1985-2008, Einaudi, Torino 2009, Le parentesi, p. 5,  già in Concessione all’inverno, Casagrande, Bellinzona 1985 – seconda edizione 2001.

[2] Heteroptera, in Le terre emerse – Poesie scelte 1985-2008, cit., p. 11.

[3] P. V. Mengaldo, Iterazione e specularità in Sereni, postfazione a Gli strumenti umani, Einaudi, Torino 1975, già in «Strumenti Critici 17», anno VI, febbraio 1972, fasc. I.

[4] V. Sereni, Gli strumenti umani, Einaudi, Torino 1975, La poesia è una passione?, p. 55.

«La poesia è una passione?// L’abbraccio che respinge e non unisce -/ il mento fermo piantato sulla spalla/ di lei, lo sguardo fisso e torvo:/ storia d’altri e, già vecchia, di loro./ Moriva d’apprensione e gelosia/ al punto di volersi morto, di volerlo/ veramente, lì tra le braccia di lei./ Rabbiosamente non voleva sciogliersi./ Chi cederà per primo? La domenica/ d’agosto era, fuori, al suo colmo/ e tutta Italia sulle piazze/ nei viali e nei bar ferma ai televisori…/ Un gesto appena, – si disse – cerca d’essere uomo/ e sarai fuori dalla stregata cerchia./ E, la convulsa stretta perdurando/ (che lei d’istinto addoppiava),/ alla cieca una mano errò sull’apparecchio, agì/ sulla manopola: nella stanza/ fu di colpo la gara, si frappose fra loro.// Il campione che dicono finito,/ che pareva intoccabile dallo schermo del tempo/ e per minimi segni da una stagione all’altra/ di sé fa dire che più non ce la fa e invece/ nella corsa che per lui è alla morte/ ancora ce la fa, è quello il suo campione./ Lo si aspettava all’ultimo chilometro:/ «se vedremo spuntare/ laggiù una certa maglia…» e qualcosa l’annuncia,/ un movimento di gente giù alla curva,/ uno stormire di voci che si approssima/ un clamore un boato, è incredibile è lui/ è solo s’è rialzato ha staccato le mani/ ce l’ha fatta… e dunque anch’io/ posso ancora riprendermi, stravincere./ S’erano intanto gli occhi raddolciti/ e di poco allentandosi la stretta/ s’inteneriva, acquistava altro senso, ritornava/ altrimenti violenta./ Per una voce irrotta nella stanza…// L’istinto che non la tradisce/ scocca esatto sempre al momento giusto/ tra i suoi pensieri semplici./ Sa capire il suo uomo: lo sa bene che più/ suppone lui di stravincere a sé meglio l’avvince/ e fin che vorrà se lo tiene./ «Caro – gli dice all’orecchio – amore mio…»/ E la domenica chiara è ancora in cielo,/ folto di verde il viale e di uccelli/ non ancora spettrali case e grattacieli,/ solo un po’ più nitidi a quest’ora/ di avanzato meriggio dell’ultima domenica/ di questa nostra estate. E se a lui pare/ che un brivido percettibile appena/ s’inoltri nel soffio ancora tiepido che approda/ alla terrazza: anche agosto/ – lei dice d’un tratto ricordandosi -/ anche agosto andato è per sempre…// Sì li ho amati anch’io questi versi…/ anche troppo per i miei gusti. Ma era/ il solo libro uscito dal bagaglio/ d’uno di noi. Vollero che li leggessi./ per tre per quattro/ pomeriggi di seguito scendendo/ dal verde bottiglia della Drina a Larissa accecante/ la tradotta balcanica. Quei versi/ li sentivo lontani/ molto lontani da noi: ma era quanto restava,/ un modo di parlare tra noi -/ sorridenti o presaghi fiduciosi o allarmati/ credendo nella guerra o non credendoci -/ in quell’estate di ferro./ Forse nessuno l’ha colto così bene/ questo momento dell’anno. Ma/ – e si guardava attorno tra i tetti che abbuiavano/ e le prime serpeggianti luci cittadine -/ sono andati anche loro di là dai fiumi sereni,/ è altra roba altro agosto,/ non tocca quegli alberi o quei tetti,/ vive e muore e sé piange/ ma altrove, ma molto molto lontano da qui».

[5] F. Pusterla, Bocksten, Marcos y Marcos, Milano 1989 – seconda edizione 2003.

[6] Basti citare l’opera più nota dell’autore francese per entrare nel merito della questione: La violence et le sacré (1972), trad. it. La violenza e il sacro, a cura di Ottavio Fatica e Eva Czerkl, Adelphi, Milano 1980.

[7] F. Pusterla, Le cose senza storia, Marcos y Marcos, Milano 1994 – seconda edizione 2007.

[8] Visita notturna,in Le terre emerse – Poesie scelte 1985-2008, cit., p. 44. Si riporta per intero il testo: «Visita notturna// Stai sognando/ cratassi, tirabraccia, il drago soffia-naso./ Chissà cosa sognava Anna Brichtova, che stanotte/ viene a trovarci con il suo mosaico/ di carte colorate: la sua casa/ col tetto rosso, gli alberi/ nel prato verde, il cielo: e fuori un lager./ Questo è il vero regalo/ che ho portato da Praga senza dirtelo./ Era con me sul treno, la mattina/ che ho creduto di vivere all’inferno: Stoccarda,/ o giù di lí, dentro un ronzare/ di gente che lavora a non sa cosa/ o per chi, ma lavora, preme tasti,/ invia messaggi a ignoti dentro l’aria./ Solo occhi e dita, solo/ un giorno dopo l’altro, smisurato/ trascorrere di un tempo che non varia, che appartiene/ per sempre ad altri,/ ad altro che a sé stessi, e la paura, l’odio/ del paria contro il paria, questa rissa/ d’anime perse, nuovi schiavi. Il Grande/ Bevitore di Birra, la Donna Occhi nel Vuoto,/ Mazinga: i miei compagni di viaggio./ Chissà cosa sognava Anna Brichtova,/ e cosa sogni tu, e come vedete/ il mondo voi bambini. Lo troverete,/ fra i vostri giochi, il gioco che ci salvi?// Noi tutti lo speriamo/ guardandovi dormire».

[9] Quei bambini che giocano, in Gli strumenti umani, Einaudi, Torino 1975, p. 35.

«Quei bambini che giocano// un giorno perdoneranno/ se presto ci togliamo di mezzo./ Perdoneranno. Un giorno./ Ma la distorsione del tempo/ il corso della vita deviato su false piste/ l’emorragia dei giorni/ dal varco del corrotto intendimento:/ questo no, non lo perdoneranno./ Non si perdona a una donna un amore bugiardo,/ l’ameno paesaggio d’acque e foglie/ che si squarcia svelando/ radici putrefatte, melma nera,/ «D’amore non esistono peccati,/ s’infuriava un poeta ai tardi anni,/ esistono soltanto peccati contro l’amore»./ E questi no, non li perdoneranno».

[10] Ibid., v. 7.

[11] La violenza e il sacro, cit., p. 281.

[12] Arte della fuga, in Le terre emerse – Poesie scelte 1985-2008, cit., p. 67, v. 11.

[13] Virgilio, Georgiche, Rizzoli, Milano 1983, trad. di Luca Canali, p. 174, I, vv. 145-146: «Tutto vince/ il faticoso lavoro e il bisogno che incalza nell’avversità».

[14] G. G. Byron, Lines Written On A Blank Leaf Of ‘The Pleasures Of Memory’, in I giullari del tempo, Rizzoli – Corriere della Sera, Milano 2012, a cura di F. Buffoni.

[15] Isla persa,in Le terre emerse – Poesie scelte 1985-2008, cit., p. 90, già in Pietra sangue, Marcos y Marcos, Milano 1999.

[16] A quelli che verranno, ivi, p. 101, v. 6.

[17] Le prime fragole, ivi, p. 146, già in Folla sommersa, Marcos y Marcos, Milano 2004.

[18] F. Pusterla, Sinsigalli, Edizioni d’if, Napoli 2010.

[19] Ivi, p. 47.

[20] F. Pusterla, Corpo stellare, Marcos y Marcos, Milano 2010, Con piccole ali, p. 11, v. 7.

[21] Stlanik, in Corpo stellare, cit., p. 15.

[22] F. Fortini, Dimmi, tu conoscevi…, in Composita solvantur, Einaudi, Torino 1994, p. 9, v. 11.

[23] Uomo dell’alba, in Corpo stellare, cit., p.56.

[24] Ibid., 9, p. 65, vv. 7-9.

[25] Lettere da Babel, in Corpo stellare, cit. p. 95.

[26] Ibid., 1, p. 97, v. 54.

[27] Ibid., 2, p. 99, v. 33.

[28] Zurigo HB, in Corpo stellare, cit., p. 103, v. 10.

[29] I gesti del lavoro, ivi, p. 104.

[30] Corpo stellare, ivi, p. 106, vv. 8-9.

[31] Storie dell’armadillo, ivi, p. 120.

[32] Ibid., 2, p. 121, vv. 3-5.

[33] Ibid., 9, p. 128, v. 9.

[34] Ibid., v. 10.

[35] Ibid., vv. 14-15.

[36] Da Marmorera (pensando a Brassempouy), in Corpo stellare, cit., p. 145.

[37] Ibid., p. 146, v. 33.

[38] Ibid., p. 147, v. 43.

[39] Scablands, in Corpo stellare, cit., 1, p. 150, v. 1.

[40] Ibid., 7, p. 156, v. 2.

[41] Ibid., vv. 6-7.

[42] F. Buffoni, Il profilo del Rosa, Mondadori, Milano 2000, E tu ti decomponi nel ritratto di San Rocco, p. 81.

[43] Abbozzo degli aerei e delle ali, in Corpo stellare, cit., 2, p. 203, vv. 19-25.

[44] Ibid., 3, p. 205, vv. 19-20.

[45] Thou Shalt Not Die, in Corpo stellare, cit., p. 208, vv. 19-20.

[46] Ibid., p. 209, v. 34.