Lo spettacolo della fine – VIII.

vertigo

Lo spettacolo della fine – VIII.

Mi sveglio sempre come in quell’immagine
una volta celebre di Vertigo, immerso
nella lucina verde, nel riflesso alienante
spiazzato dall’ombra lunga che l’azione
umana ha proiettato per lungo tempo.
Prima del contatto, nel desiderio,
col feticcio costruito per destinarsi
alla dissolvenza, la finzione
amoreggiava col reale e l’eccesso.
Lo avvertivo e dovevo smorzarne la potenza,
contenerlo nello spazio minimo
della mia solitudine. Infatti
sullo schermo appaiono ancora oggi,
ogni mattina, dopo l’alba verde,
telefilm di famiglie sorridenti per relazioni
che bastano a se stesse e risollevano
lo spettatore da un quotidiano semiserio.
Un senso di colpa più alienante
della lucina verde mi dirige
alla ricerca di altre immagini,
di famiglie esplose in aeroporti
o metro, di corpi scarnificati a un soffio
dalla disintegrazione. La mia capsula
non può tornare indietro nel tempo,
è evidente, credo, per questo coordino
dalla console il peggio che l’uomo del benessere
ha prodotto, i suoi scarti, i consensi
superficiali, i corpi noiosi della gloria,
gli scheletri e i ventri estroflessi,
la riproduzione spettrale della materia
ripresa ed esposta a un compenso
che riproduce nell’ozio gli incubi
dell’essere di pienezza estinto.

Lo spettacolo della fine – XIV.

Lo spettacolo della fine – XIV.

Verso sera, al tramonto, mentre
la luce aranciata si mescolava
allo strato fuligginoso dell’atmosfera
e ombre giallastre s’imponevano
sullo spazio come aureole di luce
lunare, alla console suonava
un video anni Ottanta di Fiordaliso.
La nota accattivante del paesaggio
risiede nel contrasto tra l’assenza
e il desiderio: tu non ci sei
anche se sei presente
e io ti urlo contro, anche in absentia,
che desidero fare l’amore con te.
Prendermi il tempo per creare, nell’ozio,
il tempo della relazione che annulla
ogni scansione.
Poi, la vita ricominciava a battere
l’altro desiderio, l’allontanamento
definitivo da te. Ora, sono fuori
dal panorama, nel riflesso dimensionale
di un vetro, appoggiato a una balaustra
a guardare, attraverso il vetro,
la luna, la sua faccia di rena sbiancata,
il pallore della tua distanza
attendendo la prossima tempesta
canticchiando di quel che non voglio,
osservandolo.

Franco Buffoni, “La linea del cielo”, Garzanti, Milano, 2018

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Monumento a Jan Palach e Jan Zajíc

Franco Buffoni, La linea del cielo, Garzanti, Milano, 2018

franco-buffoni-la-linea-del-cielo-9788811601968La linea del cielo sembra costituire il piedritto terminale di un arco che ha come principio Il profilo del Rosa, raccolta del 2000. La curva di quest’arco iscrive il tempo individuale nel tempo sociale e storico attraversato dallo stesso individuo. Così la storia collettiva appare ricomporsi – anche se per barlumi e frammenti – grazie alla vicenda assai comune di un uomo che, usando il linguaggio nel suo valore testimoniale non dimentica di trovare il giusto distacco autoironico (pragmatico), per allontanare da sé ogni residuo “eroico” dell’io.
Come «Il profilo del Rosa raccontava l’uscita dai confini dell’io» (secondo una definizione di Guido Mazzoni apparsa in una delle recensioni più illuminanti su quel libro, leggibile qui), così La linea del cielo espande il senso di fuoriuscita inaugurato vent’anni prima. A risultare trasformato è il «monocromo grigio», individuato ancora da Mazzoni come ultima evidenza di un percorso di scoperta e maturazione che avrebbe come punto d’approdo la «serialità» di ogni esperienza. Infatti, il Buffoni “maturissimo” di La linea del cielo conferma e supera, a mio avviso, quello “maturo” de Il profilo del Rosa con un’operazione che può essere interpretata proprio attraverso la lunga gittata degli anni trascorsi tra i due lavori. In primo luogo la dimensione della memoria manifesta un mutamento: dall’apertura dell’individuo alla storia si passa alla consapevolezza che la storia (l’alterità), con tutti i suoi “attimi”, è fondante per l’uomo. La linea del cielo, allora, sembra inoltrarsi nel processo dialettico che crea il “sistema relazionale” che ancora definiamo col termine “individuo”, e lo fa oscillando costantemente tra distacco illuministico e immersività romantica.
Soprattutto nella seconda parte, a cominciare dalla sezione inaugurale, titolata paradigmaticamente Rivendicative (cioè “rivalsa” dell’individuo sulla storia ma da “dentro” la storia, attraverso i diritti delle minoranze), siamo introdotti in un’atmosfera di ri-nascita:

Mio sussulto

Mio sussulto
Mia ex segreta malattia
Mio stato chiuso nella vacuità
Di sguardi obliqui, mia pazienza
In mancanza di meglio, mia esuberante
Rinascita con
Una dichiarazione al mondo.

(p. 121)

La “dichiarazione al mondo” è una presa di posizione sì individuale, ma nel desiderio di un’agnizione collettiva che, in alcuni frangenti può ricostituire un orientamento, una “nuova” storia. Con buone probabilità, inoltre, la skyline richiamata nel titolo sembrerebbe sintomo di questo nuovo orientamento che risiede nei mutamenti in atto, nella trasformazione del vecchio “profilo” e, conseguentemente, nel costante superamento dei confini. È certo che Il profilo del Rosa, strettamente connesso alla memoria di un luogo di formazione personale da cui si tentava una fuga aperta, è superato da La linea del cielo in cui l’espansione “evasiva” ha raggiunto il suo massimo esistenziale e si esprime con la consapevolezza che il limite è parte necessaria di un processo di costante apertura. Processo che si manifesta riconoscendo sé dentro una collettività:

17 maggio

Il 17 maggio 1990 avevo quarantadue anni,
Quando nella nazione più avanzata del mondo
S’incominciò a poter dire e scrivere
Che non ero né ammalato né pazzo.
Da allora sono passati altri trent’anni
E oggi sono convinto quasi anch’io
D’essere umano. Evviva lo stato di diritto.
Evviva la Costituzione americana.

(p. 122)

La prima parte del libro (composto nel segno della dualità che cerca assiduamente l’incontro: Lombardia/Roma, individuo/società, poesia in re/ poesia sapienziale, ecc.) è quella in cui è più marcata la presenza dell’individuo, con i luoghi della memoria che si combinano al «tema della morte»:

Come un cicisbeo invecchiato

Cantare la dignità dell’uomo senza dèi
Oppure soltanto opporre ai colpi dell’ansia
Liberi testi sul tema della morte?
Come un cicisbeo invecchiato
Al tramonto del secolo dei lumi
Mi aggiro nell’ex spazio vicino all’autostrada
Delle Sorelle Ramonda
Diventato moschea
Per vincere un inculcato schema sacramentario
Dal battesimo all’estrema unzione
Propiziato da ancestrali feste della pioggia
Fertilità e solstizi.
Col tempo che si adatta altrove
A plastificare altri corpi
Di umani deceduti.

(p. 43)

La dimensione preistorica dell’infanzia («Scienza della preistoria, mitologia / Lombarda subalpina di segni litici su roccia», Vipere lilla, p. 67, vv. 17-18) si fonde con la “storia” dell’età matura (Roma in questo caso è la città-simbolo di un trasferimento psicologico ed etico oltre che esistenziale) e, sul piano stilistico, muta definitivamente ogni propensione lirica (il cui massimo espressivo, occorre ricordarlo, era stato raggiunto con Jucci nel 2014, in un lirismo che cantava la sua fine) e la proietta verso un’ibridazione dei generi che sembra essere un’attrazione costante nell’ultimissimo Buffoni (si vedano i lavori in prosa, la pièce Personae, che sembrano manifestare una volontà inclusiva senza requie e, con ogni evidenza lasciano la sensazione di un’officina aperta a ulteriori sperimentazioni). La condizione postuma dell’uomo novecentesco si vivifica nel costante rapporto con la memoria:

Il più grande complimento

Foto fiori e volantini
A ricoprire la statua di Jan Palach
A mezzogiorno.
La memoria, dici, come fosse
Cosa rara
Da custodire…
Invece ce n’è d’avanzo
Nel mondo
E sempre rinnovantesi,
Cambia solo ogni tanto il colore
Del persecutore,
Magari il suo accento.
Avevo vent’anni a Praga,
Ne avevo otto a Budapest
E avevo già capito.

(p.129)

In questa direzione assumono valore “documentale” anche gli pseudoritratti degli autori più o meno cari a Buffoni, e che vengono a costituire un pantheon di segnali inequivocabili sulle scelte di poetica dell’autore:

Cesare Segre

Continuo a credere che poesia sia un’altra cosa
E abbia poco da spartire con cruciverba
Sciarade o un noioso listino di anodini
Aggettivi, messi in fila per numero di sillabe
Ricorrenze o corrivi richiami a lettere iniziali,
Eppure – malgrado questa
Sia per me la prima volta acrostica –
E mentre penso – Cesare – a quanto
Gioco di parola sia comunque intrinseco al rito del comporre,
Rido al ricordo del Bettinelli veneziano, al suo supplizio,
Estratto dalle parole in rima: al lanifizio.

(p. 165)

Con ogni probabilità le ultime sezioni di La linea del cielo, esasperando la dualità di tutto il libro, concludono la riflessione di Buffoni sul secolo breve (ma quanto gravido di una lunga attesa di cambiamento), ribadendo ancora la necessità di un superamento e di una commistione che sembrano rappresentare un lascito per le generazioni che verranno “dopo la lirica”:

Codice Verlaine

Non siamo ancora partiti.
Perché solo nei fumetti
Clarabella può saltare lo steccato,
Tu, mucca normanna graffi il muso
E il vento tira dritto.
Dov’è l’autunno che volevo,
L’ultimo con la scala di pietra all’abazia
In questo giugno di raffiche di pioggia?
Dov’è nascosto il Fall con i suoi swallows
Dove la season of mists delle brughiere?
Si estende da tempia a tempia
Il mio terrazzino di Elsinore,
Vi stendo i panni di un personale
Bucatino autarchico, niente lavanderia
Niente servizi prima dello sbarco.
Il costo di tutto questo è molto alto
In termini di nervi logorati
Alleanze e solidarietà, bassissimo
Per lo scarso uso di notizie.
Porcellana ceralacca lapislazzuli,
Voglio partecipare al destino dei popoli
Nel loro farsi, non alle loro vaste decadenze,
Mi verrebbe da esclamare pensando
All’uso estremo dell’autunno,
Oggi quattro giugno del ’44.

Gianluca D’Andrea
(Maggio 2018)

Lo spettacolo della fine – XXXII.

Lo spettacolo della fine – XXXII.

Viaggiare nella capsula e nello spazio sembrava l’opposto che vagare nelle foreste del fondo marino. Andavo in giro e i miei capelli diventavano bianchi come la brina d’inverno (almeno da quel che posso ricordare). L’unico mostro era la luce, perché ognuno di noi era solo pur mantenendo contatto. Per questo tutti erano consapevoli di essere morti e attaccati alla vita, ecc.
Ogni dato, frammento, video, caricamento era un riflesso. Potenzialmente ogni solitudine era scomparsa perché ognuno bastava al contesto, in quanto spettacolo di se stesso; ogni scelta attivava un percorso di cunicoli la cui unica meta era il desiderio, ormai facilmente rintracciabile attraverso lo schermo della console. Tutti uniti nella dissociazione, collegati al desiderio che fagocita e ingloba e riproduce il desiderio, ecc.
Guardavo scene documentarie:

Lo spettacolo della luce, il fruscio
intermittente della luce
arrivava improvviso e terrificante.
Ondate possenti che rilasciavano
tutta l’angoscia accumulata nell’attesa,
inconsapevole e pacifica, della routine
di sguardi e riflessi che caratterizzava la vita
nella capsula. Le cadenze nervose
della luce, la violenza dell’impatto
che rende temporaneamente ciechi
e il fastidio ineluttabile di non vedere,
di pensare al buio e attendere
la scia lattiginosa della fine,
il risucchio prima della calma
basculante e soporifera: il riposo
e la noia che mi spinge
alla console a cercare giochi
di luce terrestre e l’arte di crepuscoli
e aurore eclatanti, spettacolari.

L’unica risposta allo sfacelo è proseguire nonostante il bruciore agli occhi, non per amore – concetto scaduto nella solitudine dei tanti riflessi – ma per amore di altri amori che arriveranno, è certo, dentro lo stesso riflesso in questa luce soffocante e deludente dello sfacelo.

Ricordai il gesto d’amore in una poesia di Brecht – altro nome scaduto nel tempo della fine – e il susino ironicamente, seriamente, abbattuto e ridotto a correlativo di un mondo trapassato.
Mi svegliai tremante e infreddolito
e iniziai a scrivere di quella scomparsa –
la console trasmetteva immagini testimoniali di un senso abbandonato e ridotto al consenso di un attimo, variato e ripetuto,
variato e ripetuto
variato e ripetuto, ecc.

“Esseri umani” di Alessandro Fo (L’arcolaio, collana Φ, a cura di Gianluca D’Andrea e Diego Conticello) da oggi ordinabile in tutte le librerie e acquistabile on-line

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Alessandro Fo

Esseri umani di Alessandro Fo (L’arcolaio, collana Φ, a cura di Gianluca D’Andrea e Diego Conticello)

esseri umaniDa oggi ordinabile in tutte le librerie e acquistabile on-line, Esseri umani di Alessandro Fo, seconda uscita della collana Φ per la casa editrice L’arcolaio di Gianfranco Fabbri. Il volume è a cura di Gianluca D’Andrea e Diego Conticello, con disegno inaugurale di Francesco Balsamo e ritratto dell’autore di Marta Pegoraro.
Di seguito la nota di Gianluca D’Andrea:

Dopo Mancanze (2014), la poesia di Alessandro Fo si propone, nella consueta raffinatezza di stile, un ulteriore scandaglio dell’animo umano. La storia minima dell’individuo che, con tutte le sue fragilità, permette di costruire una nuova trama fatta di incroci e inserzioni dialoganti. Come avviene, per esempio, nel trittico per Edda Laghi Corrieri, che trasmette in “presa diretta” le potenzialità relazionali della parola in un coinvolgimento sempre assediato dalla solitudine: «Sto di guardia quasi tutto il giorno. / Ora, da quando ci sono qui io / non è successo più. // Non restano che minime mansioni». Ed è questa dimensione “minima” a illuminare le vicende degli “esseri umani”, la loro capacità di sorprendersi, nonostante il male, nello splendore.

Gianluca D’Andrea

…infinite persone
che un caso ha posto di fronte allo splendore,
ferendole per sempre.

(da Esseri umani di Alessandro Fo, L’arcolaio, collana Φ, Forlimpopoli, 2018)

La danse: variazione da Burnt Norton (da “La sommersione”, Aragno, 2016)

East Coker (da “Quattro Quartetti” di Thomas Stearns Eliot)