Lo spettacolo della fine – IV.

Lo spettacolo della fine – IV.

Un ottantanove infinito, un ottantotto…
il nastro girava sulla stessa scena:
Ben Johnson batteva Carl Lewis,
Carl Lewis battuto da una bomba
mai esplosa. No, occorre osservare
bene, ricominciare (dalla console
nella mia capsula): Ben Johnson
abbatte il record del mondo,
la creazione dell’uomo supera l’uomo,
lo spirito olimpico è in esubero, lo spirito.
Giunge al tracollo lo spirito.
La realtà dice di polizie scientifiche
e di controlli scientifici e risultati scientifici, ecc.
Osservo lo scatto della scienza,
lo sprint della chimica, l’impatto organico
sulla linea della sostanza, sull’organon
risonante di tempo che sposta il traguardo
e lo oltrepassa. Il corpo sacro dello sport
è superato, nasceranno altri fenomeni
come fulmini e ultimi scenari
della storia. La storia della fine
inaugurata dal figlio della sfortuna
a discapito del figlio del vento,
con un’audacia che rende merito all’assenza,
all’adattamento, alla selezione
innaturale dei nuovi vincitori.

Lo spettacolo della fine – XXV.

Lo spettacolo della fine – XXV.

Come essere dentro un sogno i cui protagonisti sono attori, come essere dentro un film notturno o dentro l’acqua dopo aver attraversato la spiaggia, aver raccolto un oggetto indefinito ed essersi fatti attraversare da un’onda enorme, senza timore per l’impatto imminente, per la sopraffazione che avviene ma si dilegua in un attimo e apre a un nuovo scenario in cui il passato non è più ricordo di turbamenti ma proiezione, visione trasformata nel presente e il soggetto è solo me spettatore che ricorda a malapena il suo tragitto e il suo attraversamento. Vedo i miei desideri sfilarmi davanti come figure in carne e ossa o è la mia immaginazione a essersi assuefatta alla visione? Così le immagini sono sentimenti defunti e non desideri, nessuna utopia, nessun futuro.
Ma questo balenare
di dimensioni temporali
o immagini senza tempo
qui e ora sub specie aeternitatis,
questo eccesso di energia
nel bagliore accecante
è solo un riflesso che si libera
e concentra in questo punto
infinitesimale, in quel punto
focale che è ogni individuo,
oppure è il principio di una sfumatura
che si allarga, una macchia
che esplode il suo nucleo
in un abbraccio seriale,
un rizoma fatto di centri
che non sanno di comunicare?

Enrico Testa: una poesia da “Cairn” (Einaudi, 2018) – Nuove Postille ai testi

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Enrico Testa

di Gianluca D’Andrea

Enrico Testa: una poesia da Cairn (2018)

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Cairn

altrove li chiamano Steinmänner, uomini di pietra.
Da queste parti invece, un po’ maldestramente, ometti.
Sono le piramidali montagnole di sassi
che sull’altopiano invaso dalla nebbia
amichevolmente indicano la traccia:
quella da seguire senza cadere nei crepacci
o scivolare giù in ghiaioni ignoti e improvvisi.

In tempi remoti, monumenti:
sepolture o santuari di pietra lavica o calcare
eretti, sotto le male nuvole
e i corvi in pattuglia ritornanti,
in forma di pegno o rispetto per i morti
o forse (ambigue le sragionevoli ragioni
dei viventi) per impedir loro di svegliarsi.
Ora però ci dicono, in tanto affannarsi,
qual è il sentiero irriconoscibile.

Segnavia e segnavita.

Talvolta, tra fossati asciutti
dove abitano neri millepiedi
e qualche lucertola passa sul mezzogiorno,
vi crescono attorno cespugli di rovi pungenti:
more mature e amare.
Assaggiale. Sanno di sangue.


Postilla:
Cairn è il tentativo di orientarsi dentro un mondo di scomparse. In primo luogo a emergere è la sensazione di pericolo che l’andamento discorsivo e un dettato sobrio mascherano di “normalità”. L’atmosfera sfiora l’ironia e, infatti, l’aggettivazione («le male nuvole», «le sragionevoli ragioni», «il sentiero irriconoscibile») estremamente esposta sottende un certo moralismo, per fortuna stemperato dalla “serietà” tematica e, ancor più, da una sonorità (vedi alcuni giochi allitterativi anche abbinati per “contrasto”, come nel quasi ossimoro «more mature e amare») che riesce a costruire coesione ritmica e tonale in funzione di una vera e propria agnizione. Il “cairn”, il mucchio di pietre tombali ma anche traccia nei tragitti montani («segnavia e segnavita»), è il segnale allarmante (per traslato, ovviamente, è la stessa parola) che assume, come sempre nella parabola poetica di Enrico Testa, funzione etica. Questa parola, quindi, mai pacificata, agonistica, è sì un reperto a rischio di estinzione, ma che necessita di un costante ritorno alla luce. Nella sua capacità di produrre frutti che «sanno di sangue», vitali ed esiziali allo stesso tempo, la poesia, sembra dirci Testa, va “assaggiata” proprio per il portato etico del suo messaggio, vero perché mette in campo tutte le ambivalenze dell’esistenza, rifiutandone le potenzialità uniformanti.

L’origine di Domenico Cipriano su “La Sicilia” (11/03/2018)

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Matrices du soleil ébranlées – BACCHANALES N° 58 (ottobre 2017)

Matrices du soleil ébranlées – BACCHANALES N° 58 (ottobre 2017)

Alcune poesie tradotte da Claire Pellissier. Un grande grazie a Emanuela Nanni per il pensiero e la scelta.

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LA REVUE BACCHANALES

Fabula

Lo spettacolo della fine – XXIII.

Lo spettacolo della fine – XXIII.

Sembrava non guardare ma percepiva
esplosioni di luce – non il calore –
perché l’orizzonte picchiettava di bagliori
i vetri della cabina. La console distante
emanava i suoi colori e parole.
Un unico linguaggio fatto di segnali,
intermittenze, quasi la progressiva
scomparsa del corpo di ogni oggetto,
un alone, un’ombra come
nelle vecchie immagini di Hiroshima.

hiroshima

Ogni frammento di realtà rimaneva
sospeso ma al riparo da ogni minaccia,
eppure un pericolo imperscrutabile
sembrava incombere e provenire
dai bagliori. Ma lui era rannicchiato
al centro del corridoio, contro il pavimento
tiepido, su alcune lastre metalliche,
sfiorato dalle ombre dei corpi.
Il loro carattere era un insieme
di immagini latenti, scandite
in uno scenario che lui avrebbe voluto
occultare, ignorando o dimenticando i dettagli.
Il vero scopo di questo gioco a nascondere
sembrava risiedere in una volontà
passiva che non cercava indizi
e non credeva in alcun mistero.
La luce ormai blandiva
la capsula e i bagliori si attenuavano
mentre un’altra sera arancione
riempiva lo spazio e un senso
di raccoglimento emanava,
come in un riflesso concreto,
dallo schermo della console.

Lo spettacolo della fine – XVIII.

Lo spettacolo della fine – XVIII.

C’è una scena nel film Il deserto rosso in cui un’attrice, Monica Vitti, abbastanza nota un tempo in Italia, si spinge sul bordo di un molo con l’automobile. E un’altra, in cui la stessa attrice e il coprotagonista, Richard Harris, sono nel corridoio di un albergo. I corpi in uno spazio prospettico sembrano figure secondarie e, infatti, fragile e banale è la vita dei due esseri umani nel film.

antonioni

Le immani onde rosse che il tramonto
diffonde, colpiscono la capsula e i miei occhi.
Non sempre riesco a sostenere la vista
e preferisco intrufolarmi nel cuore piccolo
dello scafo a scribacchiare un messaggio,
un richiamo al mondo istantaneo e leggero,
oppure l’immagine di paesaggi multicolore
da far vedere agli altri aspettando
un consenso fugace. Ma il disco
di luce andava diminuendo nel riflesso
sullo schermo, fino a spegnersi
completamente, come ogni esigenza
di contatto che la luce precedente
con la sua imponenza aveva riattivato.